BARI
Custodi dell'esperienza cristiana
di Fabrizio Sinisi29/04/2015 - Invitato al Centro Culturale del capoluogo pugliese, padre Pierbattista Pizzaballa racconta della guerra in Siria. Le chiese, come le moschee, sono devastate, l'Isis ordina di distruggere le croci. Ma i cristiani non hanno dimenticato chi sono
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Padre Pierbattista Pizzaballa.
Cosa c’entra la religione con tutto questo? E, nello specifico, domanda Esposito, in che modo l’esperienza religiosa può - se può - diventare un fattore di apertura, d’incontro? Fra Pizzaballa non potrebbe essere più diretto: «C’è bisogno del cuore. Pane e acqua, certo, ma soprattutto il cuore: solo da quello si può ricostruire. La guerra ferisce, ma non annienta. Gli esempi sono tanti. L’Isis dice di distruggere le croci; ma i cristiani non le hanno distrutte, le hanno seppellite; hanno conservato il vino della Messa; continuano a pregare. Sono contadini, gente semplice, ma hanno piena coscienza di chi sono».
E continua: «La situazione, certo, è terribile. Nella guerra la gente vive male. Quasi ogni famiglia ha almeno un morto, un ferito, oppure è sfollata; ci sono madri che hanno perso i loro figli e figli che hanno perso i loro genitori; dieci milioni di siriani hanno dovuto spostarsi e costruirsi una vita altrove; le prospettive sono state castrate. Quindi il carico di dolore è enorme, ed è faticoso vedere il futuro. La guerra finirà: non potrà durare per sempre. E quando finirà bisognerà ricominciare a costruire. E per ricostruire serve, appunto, il cuore; non puoi permettere che l’odio diventi il tuo strumento di lettura delle cose. Anzi, la situazione di guerra apre certe nuove prospettive impensate: gli sfollati si mettono insieme, perché condividono il bisogno; cristiani e musulmani si vedono spesso insieme ai funerali; si crea unità fra le diverse confessioni cristiane. C’è bisogno del cuore, prima ancora delle grandi soluzioni. Quello che so come religioso è che io posso star lì con la gente. Dando qualcosa, se posso, oppure semplicemente stando lì».
Quando Esposito gli chiede che cosa significhi «custodire», anche stavolta Pizzaballa è straordinariamente diretto: «Avere a cuore, amare quello che custodisci. In Terrasanta questo è chiaro: custodisci non le pietre, ma l’esperienza cristiana; non semplicemente il Calvario, ma il senso stesso del Calvario, l’esperienza di Cristo crocifisso. Non puoi custodire una realtà che non ami. La Custodia non è un corpo di sentinelle incaricate, ma una maternità, una paternità. E questo significa stare con la gente, perché l’amore non è sentimentalismo. In Siria, ad esempio: noi non siamo obbligati a stare lì. Ma ci stiamo. Un parroco che era stato rapito, ci è tornato: per la sua gente. Occorre uno sguardo redento, libero: perché se sei innamorato vedi tutto positivamente. Uno sguardo redento non ti permette di abbruttirti».
L’incontro suscita molte domande; e quasi tutte vertono su questo: come si possa non solo vivere, ma continuare ad avere speranza in un contesto tanto tormentato dalla violenza. Fra Pizzaballa, con la sua consueta, nettissima semplicità, risponde: «La fede. Tutto passa dall’esperienza. E la fede che vivo tocca tutte le fibre dell’essere. Questo vale per tutto. La fede diventa un fattore di azione solo se diventa esperienza: altrimenti non preme, non ti dà fastidio, non ti spinge fuori». E aggiunge, con lo sguardo tenero e saldo di un uomo che ama: «Tutti abbiamo bisogno di Qualcuno che riempia la vita. Noi della Custodia non ci muoviamo per cambiare lo scenario mediorientale, ma perché vogliamo vivere. E finché sei vivo niente ti può fermare».