GIORNATA
DELLA MEMORIA/ Shoah, per guarire dall’ipocrisia “ripetere” non basta
Pubblicazione: 27.01.2024 - Luigi Campagner
(Sussidiario.net)
La lucidità
di Elena Lowenthal e i consigli di Freud spiegano come "rielaborare"
la Giornata della Memoria. Solo così si evita una nuova Shoah
Contro il
Giorno della Memoria si è espressa con grande lucidità Elena Lowenthal nel
pamphlet che porta il medesimo titolo, pubblicato nel 2014 (ADD Editore).
L’intellettuale, scrittrice e traduttrice dei maggiori scrittori ebrei,
sostiene, con la forza paradossale di un titolo in stile Hannah Arendt, che per
gli ebrei il Giorno della Memoria è perfettamente inutile, e in quanto
stimolatore di ipocrisia, dannoso. Potrebbe invece servire agli “altri”, ai non
ebrei e in particolare al colto, filosofico e progredito Occidente, che ha
prodotto l’antisemitismo come volontà di annientamento dell’altro.
Antisemitismo come forma politica perfetta di un nichilismo che non è stata
sufficiente la vittoria di una guerra mondiale a sconfiggere.
Giacomo B.
Contri parlava in proposito di “odio logico”. Un odio ben diverso dall’odio
empirico, quello spicciolo per intenderci: per il vicino di pianerottolo, per
il capufficio o per lo Stato confinante. Negli ultimi decenni, man mano che i
clamori della guerra combattuta nelle strade della civilissima Europa sono
andati calmandosi, il segnalibro della memoria ha visto il passaggio di
testimone dalla critica storica, economica, sociale, filosofica e religiosa,
all’emozione. Terreno viscido, dov’è facile rimanere impantanati, come sa
chiunque travolto da una forte emozione stenti a riaversene. Tutto il filone
emotivo cresciuto all’ombra della Shoah induce ad immedesimarsi nella vittima,
suscitando un’onda di compassione e per contrasto di orrore, stupore, disprezzo
per chi si è posto (voce del verbo porsi) dall’altra parte.
Orrore,
incredulità e stupore che stimolano il riflesso condizionato di “chiudere gli
occhi” di fronte alla realtà, come nelle forme primarie (ma inefficaci) di
difesa infantile, allontanando in tal modo il nazismo da qualsivoglia
comprensione critica del fenomeno. Non però che manchino gli strumenti. Uno tra
altri, semplice e particolarmente adatto alla nostra civiltà delle immagini, è
la visione del film Il trionfo della volontà, la grandiosa opera di propaganda
della regista tedesca Leni Riefenstahl (1902-2003), dedicata alla consacrazione
del raduno di Norimberga del Partito Nazionalsocialista del 1934 (Youtube). Il
progetto intellettuale del nazismo è chiaro e brutale fin dal principio:
fondere un popolo in una nazione e una nazione in un esercito, sotto l’egida
incontrastata del principio unico del comando-obbedienza. Il trionfo della
volontà è il programma politico nazista, che ha come obiettivo il passaggio
immediato della volontà (del capo) al corpo (popolo-nazione), senza mediazione
di altri fattori esterni, o di corpi estranei. È la messa in pratica
dell’ideale puro (purezza è la parola chiave del nazismo) di autopotenza, per
il quale il corpo dell’altro è impuro in quanto tale: non è una “fonte” o un
invito, ma solo un fastidio e un ostacolo.
Dunque, la
memoria dovrebbe (o almeno potrebbe) portare lì, alla scoperta dell’ideale
perverso di omologazione assoluta, di cui gli ebrei sono stati la vittima. Ma
se nel 1945 la vittoria fosse andata ai nazisti non sarebbero stati gli unici,
come immagina la coraggiosa serie tv L’uomo nell’alto castello, tratta dal
libro di Philip K. Dick, La Svastica sul sole (1962), dove in un’America
nazificata, alla medesima sorte degli ebrei sono associate anche tutte le
persone di colore.
Tuttavia,
che capire la realtà attraverso la memoria possa scongiurare una nuova Shoah,
per Lowenthal rimane un’illusione. Nel suo pessimismo circa il potere della
memoria Lowenthal incontra l’ebreo Freud, per il quale il pensiero entrato in
crisi non si ritrova per effetto della memoria, che, anzi, può farsi alleata
della malattia alimentando l’eterno ritorno del peggio. Per Freud non è certo
la memoria ad aver la forza per generare quel particolare genere di cambiamento
che usiamo chiamare guarigione. Per salvare la memoria dalle sue stesse spirali
e dalle sue rimozioni serve una cesura col passato, un balzo fuori di sé. Per
costruire un futuro nuovo e diverso serve investire su un altro reale a sua
volta disposto a investire su chi gli chiede un aiuto. Nel suo saggio
Ricordare, ripetere, rielaborare (1914) Freud riconosce una novità di
guarigione alla sola “rielaborazione”, non al semplice ricordo e tanto meno
alla ripetizione. Rielaborare è un’operazione di rottura col passato,
un’operazione di risignificazione complessiva, paragonabile alla riscrittura di
una storia dai suoi inizi.
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