sabato 13 dicembre 2025

Adriano Dell’Asta: Putin, Trump e la verità che non esiste


 

Adriano Dell’Asta: Putin, Trump e la verità che non esiste

12 dicembre 2025

Nuova propaganda

Conversazione con Adriano Dell’Asta a cura di Nicola Varcasia

 

È sempre più difficile parlare di Russia. Le parole sembrano inutili di fronte ai bombardamenti, ogni giorno più duri. D’altra parte, si sentono sempre più spesso dichiarazioni a dir poco sorprendenti di uomini politici o militari. In questa incertezza, colpisce lo stile di Papa Leone che, di ritorno dal viaggio in Turchia e Libano, ha parlato del possibile ruolo dell’Italia nella proposta di un piano di pace, arrivando a «suggerire che la Santa Sede possa anche incoraggiare questo tipo di mediazione». In questo mutevole contesto, nello scorso numero di PuntoCon Marco Dotti ha ragionato sulle ragioni “tecniche” delle posizioni  filo putiniane in Europa. Approfondiamo la questione con Adriano Dell’Asta, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e vice presidente di Russia Cristiana.

 

Da dove nasce una certa fascinazione per la propaganda putiniana oggi, in Italia?

Dovremmo chiederci, più in generale, il perché di questo fascino verso i potenti. C’è sì il mito di Putin che può risolvere le cose, ma è la stessa cosa per Trump. Le questioni sono intrecciate.

 Qual è il filo?

Viviamo in un mondo in cui le parole non hanno più lo stesso significato. Ciò che sta succedendo in Ucraina noi la chiamiamo, giustamente, una guerra. In Russia continua a chiamarsi, ostentatamente, operazione militare speciale. Le parole non corrispondono. Ma non è solo Putin, è soprattutto Trump ad aver sdoganato già da tempo l’idea che non esistono solo i fatti, ma anche i fatti alternativi.

 Le tecniche della propaganda sono più agguerrite?

Nel passato l’obiettivo era quello di essere creduti. Come nella pubblicità. Oggi alla propaganda interessa soprattutto convincere che la verità non esiste. Cioè, che non siamo tutti chiamati a rispondere a valori e principi comuni. Questo produce una profonda de-moralizzazione, nel senso di una mancanza di una morale.

 E allora va bene appoggiarsi al potente di turno.

Certo, indipendentemente che questi sia Trump, Putin o Xi Jinping. Questo fenomeno è molto pervasivo ed esime dalla fatica di pensare e di verificare. C’è sempre la risposta pronta di chi sa mettere le cose a posto. Di fronte a una notizia, non si sente più il bisogno di verificare: ci si fida, senza sapere se il testimone o la fonte siano autorevoli. Ci sono giornali che hanno messo sullo stesso piano un dispaccio della Tass e un discorso di Naval’nyj. Questo non è pluralismo, è solo incapacità di giudizio critico.

 Cosa resta oggi del messaggio di Aleksej Naval’nyj, il cui pensiero lei ha contribuito a far conoscere in Italia con il volume Io non ho paura, non abbiatene neanche voi (Morcelliana, 2024)?

C’è uno sguardo superficiale che, con la sua morte, porta a dire che non resta niente. Ma uno sguardo ancora minimamente attento alla realtà e alla verifica ci dice che resta tutto. «Io non ho paura, non abbiatene neanche voi» è una sua frase diretta: è la coscienza primaria del primo passo da compiere che, poi, implica le tante altre che ha detto e che restano.

 Quali?

Non avere paura consente anzitutto di rendersi conto che non servono grandi gesti. La grandezza della testimonianza di Naval’nyj è che, nell’eccezionalità della sua esperienza, esprime una serie di elementi essenziali che riguardano la vita di tutti. In questo senso è stato un grande personaggio, perché parla della vita. Ognuno può iniziare facendo poco, semplicemente muovendosi, senza violenza. È la grande eredità del dissenso dei Paesi dell’Est di cui anche noi ci siamo dimenticati nelle nostre democrazie spesso solo formali.

 Su cos’altro insisteva Naval’nyj?

Sulla possibilità di cambiare. Lui stesso è cambiato moltissimo, partendo da un nazionalismo anche piuttosto sguaiato. Ma, ancora una volta, questo riguarda anche noi, quando dimentichiamo che cosa siano l’Italia, l’Europa o la fede. Ma anche noi possiamo cambiare. A condizione di rendersi conto, questo era fondamentale per lui, che non siamo soli.

 Perché?

Un sistema totalitario, dittatoriale regge nella misura in cui convince i suoi sudditi che sono soli e quindi deboli. Naval’nyj insisteva su questo. Contava poco sapere in quanti si fosse, l’importante era proprio questo principio: «Non sei solo».

(…)

 Il mondo della dissidenza è attivo?

Saperlo fino in fondo è difficile perché non siamo in presenza di una informazione libera. Inoltre, la paura può essere vinta, ma c’è. La gente oggi non esce quasi più in piazza. Però ci sono dei segnali indiretti, quelli che Solženicyn chiamava il votare coi piedi. Tanta gente all’epoca seguiva chi fuggiva dall’Unione Sovietica e anche oggi in molti abbandonano la Russia.

Qualcuno dirà che sono in tanti anche coloro che abbandonano l’Ucraina…

Ma è ben diverso abbandonare un Paese perché è tutti i giorni sotto le bombe rispetto a uno in cui non si vedono prospettive di libertà.

 Tornando ai segnali?

Nonostante la repressione, esistono piccoli gruppi di persone che danno assistenza ai profughi, a chi cerca di sottrarsi alla leva e a chi viene arrestato. La prova provata che la dissidenza è il numero in aumento dei cosiddetti “agenti stranieri” che vengono perseguiti come traditori e spesso finiscono imprigionati. Ma dobbiamo ricordarci che il dissenso non è mai stato un movimento maggioritario. Anche negli “anni d’oro”, come nel 1968, quando otto persone protestarono nella Piazza Rossa contro l’invasione di Praga. Una minoranza minuscola ma – fecero notare gli osservatori non sovietici – capace di restituire in pochi secondi dignità a un intero Paese.

(…)

Dove si posiziona l’Europa?

Alla fine dell’800, Vladimir Solov’ëv, nella poesia Ex Oriente Lux descrive il grande sogno della Russia: portare la luce che viene dall’Oriente. Ma quale Oriente, chiede l’autore: quello di Serse o quello di Cristo? Questa domanda dobbiamo rivolgerla anche all’Occidente. Chiedendoci che cosa abbiamo da offrire in questo mondo. Tanto più in un momento come questo in cui la politica americana è ripiegata cinicamente sugli affari. L’Occidente è quello che ha inventato il diritto delle genti. Chi ricorda oggi che nel XVI secolo, momento del suo massimo fulgore politico, con l’Impero spagnolo vincente ovunque nel mondo, a Salamanca si elabora la prima Carta dei Diritti? Tradendola mille volte in seguito, certo. Ma l’elaborazione c’è stata.

 Quali sono le opzioni culturali per l’Occidente?

Essere quello della volontà di potenza o quello dei fondatori dell’Europa. O, se vogliamo, quello del grande dissenso, ad esempio cecoslovacco. Qualcuno sta fortunatamente riscoprendo Jan Patočka, con la sua definizione della cultura europea occidentale come spazio della vita interrogata.

 Cosa c’è in gioco?

In gioco c’è la possibilità di non illuderci di essere “a posto”. La storia non è finita, come è stato ingenuamente teorizzato, va interrogata continuamente. Il dissenso dell’Est lo ricordava chiaramente: non si tratta solo di “aiutare loro”, come rispondeva Havel a chi da Occidente gli chiedeva cosa si potesse fare ma, con uno spirito molto simile a quello di Naval’nyj, di capire cosa possiamo fare insieme. Il posizionamento dell’Europa si gioca in questa responsabilità condivisa.

Tornerà un dialogo tra Occidente e Oriente?

Ci dovrà essere dialogo. Non solo perché l’alternativa è la catastrofe, ma perché è nella natura dell’uomo. Papa Leone lo ha già ripetuto in diverse occasioni. Anche durante il suo primo viaggio in Turchia e Libano, per la celebrazione del Concilio di Nicea. Riprendere questi temi non è stato un esercizio devozionale, ma poter definire la possibilità della salvezza, cioè del dialogo tra Dio e l’uomo e, quindi, del dialogo degli uomini tra di loro. Un dialogo non fine a se stesso, ma svolto alla luce di una verità che nessuno di noi possiede ma che può rischiararci, al di là di qualsiasi propaganda.