Adriano Dell’Asta: Putin, Trump e la verità che non
esiste
12 dicembre 2025
Nuova propaganda
Conversazione con Adriano Dell’Asta a cura di Nicola
Varcasia
È sempre più difficile parlare di Russia. Le parole sembrano
inutili di fronte ai bombardamenti, ogni giorno più duri. D’altra parte, si
sentono sempre più spesso dichiarazioni a dir poco sorprendenti di uomini
politici o militari. In questa incertezza, colpisce lo stile di Papa Leone che,
di ritorno dal viaggio in Turchia e Libano, ha parlato del possibile ruolo
dell’Italia nella proposta di un piano di pace, arrivando a «suggerire che la
Santa Sede possa anche incoraggiare questo tipo di mediazione». In questo
mutevole contesto, nello scorso numero di PuntoCon Marco Dotti ha ragionato
sulle ragioni “tecniche” delle posizioni
filo putiniane in Europa. Approfondiamo la questione con Adriano
Dell’Asta, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e vice presidente
di Russia Cristiana.
Da dove nasce una certa fascinazione per la propaganda
putiniana oggi, in Italia?
Dovremmo chiederci, più in generale, il perché di questo
fascino verso i potenti. C’è sì il mito di Putin che può risolvere le cose, ma
è la stessa cosa per Trump. Le questioni sono intrecciate.
Viviamo in un mondo in cui le parole non hanno più lo stesso
significato. Ciò che sta succedendo in Ucraina noi la chiamiamo, giustamente,
una guerra. In Russia continua a chiamarsi, ostentatamente, operazione militare
speciale. Le parole non corrispondono. Ma non è solo Putin, è soprattutto Trump
ad aver sdoganato già da tempo l’idea che non esistono solo i fatti, ma anche i
fatti alternativi.
Nel passato l’obiettivo era quello di essere creduti. Come
nella pubblicità. Oggi alla propaganda interessa soprattutto convincere che la
verità non esiste. Cioè, che non siamo tutti chiamati a rispondere a valori e
principi comuni. Questo produce una profonda de-moralizzazione, nel senso di
una mancanza di una morale.
Certo, indipendentemente che questi sia Trump, Putin o Xi
Jinping. Questo fenomeno è molto pervasivo ed esime dalla fatica di pensare e
di verificare. C’è sempre la risposta pronta di chi sa mettere le cose a posto.
Di fronte a una notizia, non si sente più il bisogno di verificare: ci si fida,
senza sapere se il testimone o la fonte siano autorevoli. Ci sono giornali che
hanno messo sullo stesso piano un dispaccio della Tass e un discorso di
Naval’nyj. Questo non è pluralismo, è solo incapacità di giudizio critico.
C’è uno sguardo superficiale che, con la sua morte, porta a
dire che non resta niente. Ma uno sguardo ancora minimamente attento alla
realtà e alla verifica ci dice che resta tutto. «Io non ho paura, non abbiatene
neanche voi» è una sua frase diretta: è la coscienza primaria del primo passo
da compiere che, poi, implica le tante altre che ha detto e che restano.
Non avere paura consente anzitutto di rendersi conto che non
servono grandi gesti. La grandezza della testimonianza di Naval’nyj è che,
nell’eccezionalità della sua esperienza, esprime una serie di elementi
essenziali che riguardano la vita di tutti. In questo senso è stato un grande
personaggio, perché parla della vita. Ognuno può iniziare facendo poco,
semplicemente muovendosi, senza violenza. È la grande eredità del dissenso dei
Paesi dell’Est di cui anche noi ci siamo dimenticati nelle nostre democrazie
spesso solo formali.
Sulla possibilità di cambiare. Lui stesso è cambiato
moltissimo, partendo da un nazionalismo anche piuttosto sguaiato. Ma, ancora
una volta, questo riguarda anche noi, quando dimentichiamo che cosa siano
l’Italia, l’Europa o la fede. Ma anche noi possiamo cambiare. A condizione di
rendersi conto, questo era fondamentale per lui, che non siamo soli.
Un sistema totalitario, dittatoriale regge nella misura in
cui convince i suoi sudditi che sono soli e quindi deboli. Naval’nyj insisteva
su questo. Contava poco sapere in quanti si fosse, l’importante era proprio
questo principio: «Non sei solo».
(…)
Saperlo fino in fondo è difficile perché non siamo in
presenza di una informazione libera. Inoltre, la paura può essere vinta, ma
c’è. La gente oggi non esce quasi più in piazza. Però ci sono dei segnali
indiretti, quelli che Solženicyn chiamava il votare coi piedi. Tanta gente
all’epoca seguiva chi fuggiva dall’Unione Sovietica e anche oggi in molti
abbandonano la Russia.
Qualcuno dirà che sono in tanti anche coloro che
abbandonano l’Ucraina…
Ma è ben diverso abbandonare un Paese perché è tutti i
giorni sotto le bombe rispetto a uno in cui non si vedono prospettive di
libertà.
Nonostante la repressione, esistono piccoli gruppi di
persone che danno assistenza ai profughi, a chi cerca di sottrarsi alla leva e
a chi viene arrestato. La prova provata che la dissidenza è il numero in
aumento dei cosiddetti “agenti stranieri” che vengono perseguiti come traditori
e spesso finiscono imprigionati. Ma dobbiamo ricordarci che il dissenso non è
mai stato un movimento maggioritario. Anche negli “anni d’oro”, come nel 1968,
quando otto persone protestarono nella Piazza Rossa contro l’invasione di
Praga. Una minoranza minuscola ma – fecero notare gli osservatori non sovietici
– capace di restituire in pochi secondi dignità a un intero Paese.
(…)
Dove si posiziona l’Europa?
Alla fine dell’800, Vladimir Solov’ëv, nella poesia Ex
Oriente Lux descrive il grande sogno della Russia: portare la luce che viene
dall’Oriente. Ma quale Oriente, chiede l’autore: quello di Serse o quello di
Cristo? Questa domanda dobbiamo rivolgerla anche all’Occidente. Chiedendoci che
cosa abbiamo da offrire in questo mondo. Tanto più in un momento come questo in
cui la politica americana è ripiegata cinicamente sugli affari. L’Occidente è
quello che ha inventato il diritto delle genti. Chi ricorda oggi che nel XVI
secolo, momento del suo massimo fulgore politico, con l’Impero spagnolo
vincente ovunque nel mondo, a Salamanca si elabora la prima Carta dei Diritti?
Tradendola mille volte in seguito, certo. Ma l’elaborazione c’è stata.
Essere quello della volontà di potenza o quello dei
fondatori dell’Europa. O, se vogliamo, quello del grande dissenso, ad esempio
cecoslovacco. Qualcuno sta fortunatamente riscoprendo Jan Patočka, con la sua
definizione della cultura europea occidentale come spazio della vita
interrogata.
In gioco c’è la possibilità di non illuderci di essere “a
posto”. La storia non è finita, come è stato ingenuamente teorizzato, va
interrogata continuamente. Il dissenso dell’Est lo ricordava chiaramente: non
si tratta solo di “aiutare loro”, come rispondeva Havel a chi da Occidente gli
chiedeva cosa si potesse fare ma, con uno spirito molto simile a quello di
Naval’nyj, di capire cosa possiamo fare insieme. Il posizionamento dell’Europa
si gioca in questa responsabilità condivisa.
Tornerà un dialogo tra Occidente e Oriente?
Ci dovrà essere dialogo. Non solo perché l’alternativa è la
catastrofe, ma perché è nella natura dell’uomo. Papa Leone lo ha già ripetuto
in diverse occasioni. Anche durante il suo primo viaggio in Turchia e Libano,
per la celebrazione del Concilio di Nicea. Riprendere questi temi non è stato
un esercizio devozionale, ma poter definire la possibilità della salvezza, cioè
del dialogo tra Dio e l’uomo e, quindi, del dialogo degli uomini tra di loro.
Un dialogo non fine a se stesso, ma svolto alla luce di una verità che nessuno
di noi possiede ma che può rischiararci, al di là di qualsiasi propaganda.
