lunedì 23 settembre 2024

"Facciamoci carico del dolore altrui"

 


«Facciamoci carico del dolore altrui»

Michele Zanetti, che scelse Franco Basaglia come direttore dell’allora ospedale psichiatrico di Trieste, racconta l’amicizia con l’uomo che ha rivoluzionato l’assistenza al disagio psichico: «Queste persone non sono pratiche da sbrigare»

Maria Acqua Simi23.09.2024

Uno dei primi fu un ragazzo che era stato colpito gravemente alla testa mentre lavorava sulle barche al porto di Trieste. Forse un’ancora o un gancio da traino. Quel colpo ebbe gravi ripercussioni e finì in manicomio. Era considerato inguaribile. Ma di lì a poco all’istituto San Giovanni, il ricovero “dei matti” della città, sarebbe arrivato un direttore molto diverso dai precedenti. Il suo nome era Franco Basaglia. Fece qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. Iniziò a dialogare con quel giovane – e così con tutti i pazienti - poi lo portò fuori a fare dei giretti in auto fino a promuoverlo suo autista. E quel ragazzo, oggi anziano, diventerà fino alla pensione l’autista di tutti i direttori sanitari che si avvicenderanno negli anni successivi. Lo stesso accadde per un altro paziente, promosso da Basaglia capo del bar di reparto.

 

«Franco era così. Un uomo colto, preparato, libero. Scommetteva sull’uomo. Voleva dimostrare che si può curare la malattia mentale senza rinchiudere le persone, senza elettroshock, puntando piuttosto sulla libertà, sulla dignità umana. Per questo lo scelsi come direttore dell’ospedale psichiatrico San Giovanni. Erano gli anni Settanta, anni difficili». A parlare è Michele Zanetti, presidente della Provincia di Trieste dal 1970 al 1977 ed esponente locale della Democrazia Cristiana. All’epoca erano proprio le province ad avere la responsabilità dell’assistenza ai malati psichiatrici, perlopiù confinati in manicomi in condizioni brutali. Si contavano in quegli anni almeno 100mila pazienti ricoverati, solo a Trieste erano circa 1.200. Oggi, anno di grazia 2024, il medico che portò alla più radicale riforma della psichiatria in Italia e alla chiusura dei manicomi, sarebbe centenario. Ma in pochi sanno che fu proprio l’amicizia con Zanetti il motore di una vera rivoluzione culturale e medica.

 

«Io ero, sono, profondamente cattolico. Sono cresciuto con gli scout e lo sguardo cristiano mi ha segnato per tutta la vita. Franco no, o perlomeno non lo era pubblicamente. Però aveva chiara la sacralità della dignità di ogni singola persona. Su quel terreno comune ci trovammo. Anche io avevo potuto visitare i manicomi, per un esame di medicina legale, e fu terribile. Uscii da quei luoghi rimanendone profondamente turbato, non riuscii a mangiare per giorni. Uomini, ritenuti pericolosi, a volte contenuti con camicie di forza o legati al letto, lobotomizzati, trattati con dosi enormi di psicofarmaci quando non con l’elettroshock. Il reparto femminile mi impressionò: queste donne sporche, scarmigliate… Venni a sapere che c’era a Gorizia un medico che aveva un approccio diverso: parlava coi “matti”, li portava fuori a passeggiare, offriva loro gelati e organizzava per loro laboratori di musica e arte. Un visionario. Perché Franco era così. Teneva lo sguardo fisso al passo successivo, anche se venne osteggiato. Diventammo amici, lui e la moglie Franca venivano a cena a casa nostra, bevevamo whisky e discutevamo per ore. Era un uomo affascinante, esigente». In quegli anni, infatti, le persone con sofferenza psichica erano considerate pericolose e quindi tenute nascoste dal resto della società. «Non c’era cura, esisteva solo il controllo. Un po’ riduttivo no?».

 

Nel 1971, Basaglia vince il concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste e Zanetti gli garantisce piena libertà di azione, appoggiando il suo progetto di superamento del manicomio e di un’organizzazione territoriale della psichiatria. «Venimmo osteggiati dalla classe medica triestina, e non solo. Ma la Provvidenza, e un gran lavoro da parte nostra e di molti che credevano nel nostro progetto, ci portarono nella giusta direzione».

Sei anni dopo il San Giovanni chiuderà i battenti e nel ’78 verrà approvata la legge 180, la cosiddetta “Legge Basaglia”. I manicomi furono smantellati e sostituiti da servizi territoriali, ambulatori e comunità terapeutiche. La riforma pose fine a decenni di internamento forzato e stigmatizzazione dei malati psichici, aprendo la strada a una visione della malattia mentale basata su assistenza, inclusione sociale e diritti umani.

 

«C’è ancora molto da fare, anche se esistono realtà molto belle come il “Paolo Pini” di Milano, che conta anche una comunità e una cooperativa che fanno un lavoro interessantissimo sulla riabilitazione psichiatrica. Oggi il disagio psichico è molto più presente, soprattutto tra i giovani che spesso soffrono di ansie o depressione. In Italia non è che manchino le leggi, è che non vengono applicate. Non mancano leggi, manca il personale. E senza personale medico adeguato, come ci si può prendere cura della persona? Mi ferisce vedere la solitudine dell’uomo moderno. Ci sono persone che scelgono il ricovero pur di non stare sole a casa. Basaglia, e i suoi amici, non sbagliavano quando puntavano tutto sulla relazione. Oggi siamo tremendamente poveri di relazioni e io credo che se non impariamo a rilanciare un'assistenza comunitaria, se non ci facciamo carico tutti del dolore degli altri, sarà difficile che le cose migliorino. Pensate a un malato mentale: se lo conosci, se dialoghi con lui, magari come medico impari anche cosa scatena una crisi, come la si può prevenire. Se invece i pazienti sono solo numeri e pratiche da sbrigare…».

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