lunedì 15 dicembre 2025

«Solo merito della Grazia». Boom di Battesimi in Francia

 


Monsignor Catta. «Solo merito della Grazia»

Cosa spiega il boom di Battesimi in Francia? Il vicario generale dell’Arcidiocesi di Parigi, non ha dubbi: «Non possiamo attribuire il fenomeno al successo di qualche nostra strategia o delle nostre forze»

 

01.12.2025

Maria Acqua Simi

11 | Dicembre 2025

Negli ultimi anni la Francia, Paese simbolo della secolarizzazione europea, sta vivendo un fenomeno inatteso: l’aumento esponenziale del numero di adulti e adolescenti che chiedono il Battesimo. Secondo i dati della Conferenza episcopale francese, nel 2025 sono stati battezzati 17.788 adulti e giovani, il doppio rispetto a due anni fa. E un altro raddoppio è atteso per il prossimo anno. Una crescita che interroga e sorprende. Il percorso di conversione – che dura in media due anni – è stato documentato anche dal cinema. L’attore e comico Gad Elmaleh, ebreo marocchino naturalizzato francese, lo ha messo in scena nel film autobiografico Reste un peu (2022), dove racconta il suo incontro con il cristianesimo e la scelta di farsi battezzare. Anche il successo nelle sale del docu-film Sacré Coeur (2025) sulla devozione al Sacro Cuore della mistica francese santa Margherita Maria Alacoque conferma che questo risveglio della fede è ormai conclamato. Ma dietro i numeri e le immagini restano alcune domande. Come si trasmette la fede oggi? Chi sono questi catecumeni? Ne abbiamo parlato con monsignor Dominique Catta, vicario generale dell’Arcidiocesi di Parigi.

Chi sono i nuovi battezzati?

Quello che colpisce è la loro grande diversità. Molti sono adulti provenienti da altre culture e religioni, oppure che hanno riscoperto la fede cristiana dei loro nonni. Poi ci sono i giovani. Per loro oggi è più facile parlare pubblicamente della propria fede, anche grazie ai social che, da un lato, in qualche modo ti obbligano a dire chi sei e, dall’altro, permettono di informarsi e cercare in modo discreto. C’è una sete di senso che si manifesta in contesti quotidiani – a scuola, al lavoro, tra amici – e che trova terreno fertile in un dialogo più libero rispetto a vent’anni fa. Alla base, direi, c’è una grande prova esistenziale: la società francese si interroga su se stessa, sulle sue istituzioni politiche, sul significato del vivere insieme. C’è una grande solitudine nell’uomo di oggi. E in questo contesto, la ricerca di Dio torna a emergere con forza.

I social network stanno giocando un ruolo importante, quindi… 

Sì. I social costringono a una certa chiarezza di identità: spingono i giovani a dire chi sono, manifestando la propria fede pubblicamente. Allo stesso tempo, cresce anche il bisogno di discrezione. Molti vivono il loro cammino in silenzio, per custodire una libertà interiore e un silenzio indispensabili per un dialogo vero con Cristo. Credo che i giovani cattolici francesi stiano imparando a distinguere tra ciò che si può condividere pubblicamente e ciò che appartiene al mistero del rapporto personale con Dio. È una maturità nuova: testimoniare sì, ma senza esibizionismo.

La Chiesa francese come sta di fronte a tutto questo?

Il primo aspetto, e forse il più importante, è l’umiltà che la Chiesa cattolica di Francia conserva di fronte a quello che sta accadendo. Siamo stati molto provati dallo scandalo degli abusi, la pressione mediatica e istituzionale è stata molto forte, ma abbiamo scelto di starci di fronte con lealtà, attraverso l’ascolto e il dialogo. Questo cammino di verità è stato una testimonianza per la società. Oggi ci troviamo davanti a un fenomeno – il raddoppio dei Battesimi – che non possiamo attribuire al successo di qualche nostra strategia o delle nostre forze. È qualcosa che ci supera, che va oltre noi. Siamo stati sovrastati dal Covid, dallo scandalo degli abusi, e ora siamo superati da un imprevisto che non possiamo che spiegarci se non con la Grazia: il risveglio della fede.

Come vengono accompagnate le persone che chiedono il Battesimo?

In Francia il catecumenato dura dai 18 mesi ai due o tre anni circa. È un cammino lungo, ma sempre più pensato per inserire i neofiti nella vita della comunità. Non si tratta solo di prepararsi ai sacramenti con la catechesi individuale. In molte parrocchie di Parigi chi inizia il cammino viene fin da subito coinvolto nella vita comunitaria. A qualcuno viene chiesto di entrare nel coro, a qualcun altro di partecipare al gruppo biblico o a qualche servizio. Così il Battesimo non è un punto d’arrivo, ma l’espressione di una chiamata già vissuta con gli altri. I catecumeni non sono solo “accolti”, ma diventano un dono che trasforma la parrocchia stessa. Trovo commovente l’accoglienza che i nostri parrocchiani riservano ai nuovi arrivati: un segno di fraternità reale.

«La Chiesa francese guarda al fenomeno con stupore e gratitudine. Non abbiamo strumenti sociologici per spiegarlo. A noi ora il compito di capire come custodire questo dono inatteso»

Dopo i sacramenti queste persone rimangono? O c’è il rischio che la fiamma iniziale si affievolisca?

Alcuni – non tutti fortunatamente – faticano a mantenere nel tempo la frequenza alla Messa domenicale. Ma non significa che la loro fede venga meno. Quello che però mi pare interessante notare è che dopo il Concilio Vaticano II siamo passati da una fede che si trasmetteva fin da bambini a una pastorale catecumenale per adulti, dove la fede si nutre di preghiera, carità, ascolto della Parola. È una pedagogia che plasma la vita cristiana nel tempo, attraverso tappe, pellegrinaggi, momenti forti dell’anno liturgico. Un esempio? Abbiamo visto un aumento impressionante nel numero di soldati francesi che partecipano all’annuale pellegrinaggio a Lourdes per essere battezzati, tanto da dover pensare a più momenti perché era diventato impossibile accogliere tutti.

Anche le vocazioni religiose risentono di questa nuova fase del cristianesimo francese?

Forse è presto per dare numeri, ma le vocazioni religiose anche in età adulta sono in crescita: a Parigi un’antica chiesa dedicata a San Germano d’Auxerre, il vescovo che consacrò la giovanissima santa Genoveffa (patrona di Parigi che salvò la città dagli Unni, ndr), sarà dedicata proprio a chi ha questa intuizione vocazionale.

Questo risveglio della fede ha a che fare con la solitudine dell’uomo contemporaneo?

Sì, senza dubbio. L’individualismo e l’indebolimento della famiglia hanno lasciato un grande vuoto. Il Covid ha rivelato quanto le persone siano sole e assetate di legami veri, di comunità, di avere un luogo anche fisico dove trovarsi. Recentemente ci sono stati due eventi pubblici che hanno inciso su una certa percezione del cattolicesimo. Penso alle polemiche sulla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi, che molti cristiani hanno vissuto come provocatoria e che ha diviso dal punto di vista mediatico la popolazione. Poi però c’è stata la riapertura al pubblico di Notre-Dame a Parigi dopo il devastante incendio: è stata trasmessa in diretta dalla tv pubblica e ha offerto a tutta la Francia immagini splendide. Nessuna polemica, solo stupore per un luogo che tornava a essere aperto per tutti. È come se il Paese avesse riscoperto che è socialmente accettabile amare la bellezza della liturgia, i simboli cristiani, la preghiera. La bellezza della riapertura di Notre-Dame ha commosso tutti indistintamente, e questo è stato molto diverso dalle divisioni e polemiche suscitate dalla parata inaugurale delle Olimpiadi. Non era scontato, non in un Paese dove la conoscenza della Chiesa è spesso limitata.

(…) comunioneeliberazione.org

 

 


domenica 14 dicembre 2025

IGNACIO CARBAJOSA: "Conta le stelle"

 

“Conta le stelle”

Le lettere di Ignacio Carbajosa a uno studente universitario: nella Bibbia le risposte alle domande che abitano il cuore dei giovani.

Ignacio Carbajosa, professore ordinario di Antico Testamento all’Università ecclesiastica San Damaso di Madrid, ha avuto il privilegio di condividere la vita con tanti giovani, vivendo una profonda familiarità con le loro domande e inquietudini. In questo libro l’autore raccoglie le lettere che scriveva una volta a settimana a un giovane studente universitario, in cui commentava alcuni passi molto significativi dell’Antico Testamento intrecciandoli con le attese e i turbamenti del suo giovane amico.

L’epistolario raccoglie quarantun lettere, brevi e dirette, scritte per introdurre il ragazzo alla conoscenza delle Scritture, il racconto di come Dio è entrato nella storia, e radicare il suo presente nella storia della salvezza, iniziata con la vocazione di Abramo. Lettere scritte anche per noi che forse abbiamo già scartato la Bibbia come “luogo” in cui poter trovare delle risorse in assonanza con le domande che ci abitano e che svelano come è fatto il cuore dell’uomo in ogni tempo. E accendono il desiderio di incontrare oggi, nelle vicende delle nostre vite, lo sguardo di un Uomo, la cui attesa attraversa tutte le pagine della Bibbia.

sabato 13 dicembre 2025

Adriano Dell’Asta: Putin, Trump e la verità che non esiste


 

Adriano Dell’Asta: Putin, Trump e la verità che non esiste

12 dicembre 2025

Nuova propaganda

Conversazione con Adriano Dell’Asta a cura di Nicola Varcasia

 

È sempre più difficile parlare di Russia. Le parole sembrano inutili di fronte ai bombardamenti, ogni giorno più duri. D’altra parte, si sentono sempre più spesso dichiarazioni a dir poco sorprendenti di uomini politici o militari. In questa incertezza, colpisce lo stile di Papa Leone che, di ritorno dal viaggio in Turchia e Libano, ha parlato del possibile ruolo dell’Italia nella proposta di un piano di pace, arrivando a «suggerire che la Santa Sede possa anche incoraggiare questo tipo di mediazione». In questo mutevole contesto, nello scorso numero di PuntoCon Marco Dotti ha ragionato sulle ragioni “tecniche” delle posizioni  filo putiniane in Europa. Approfondiamo la questione con Adriano Dell’Asta, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e vice presidente di Russia Cristiana.

 

Da dove nasce una certa fascinazione per la propaganda putiniana oggi, in Italia?

Dovremmo chiederci, più in generale, il perché di questo fascino verso i potenti. C’è sì il mito di Putin che può risolvere le cose, ma è la stessa cosa per Trump. Le questioni sono intrecciate.

 Qual è il filo?

Viviamo in un mondo in cui le parole non hanno più lo stesso significato. Ciò che sta succedendo in Ucraina noi la chiamiamo, giustamente, una guerra. In Russia continua a chiamarsi, ostentatamente, operazione militare speciale. Le parole non corrispondono. Ma non è solo Putin, è soprattutto Trump ad aver sdoganato già da tempo l’idea che non esistono solo i fatti, ma anche i fatti alternativi.

 Le tecniche della propaganda sono più agguerrite?

Nel passato l’obiettivo era quello di essere creduti. Come nella pubblicità. Oggi alla propaganda interessa soprattutto convincere che la verità non esiste. Cioè, che non siamo tutti chiamati a rispondere a valori e principi comuni. Questo produce una profonda de-moralizzazione, nel senso di una mancanza di una morale.

 E allora va bene appoggiarsi al potente di turno.

Certo, indipendentemente che questi sia Trump, Putin o Xi Jinping. Questo fenomeno è molto pervasivo ed esime dalla fatica di pensare e di verificare. C’è sempre la risposta pronta di chi sa mettere le cose a posto. Di fronte a una notizia, non si sente più il bisogno di verificare: ci si fida, senza sapere se il testimone o la fonte siano autorevoli. Ci sono giornali che hanno messo sullo stesso piano un dispaccio della Tass e un discorso di Naval’nyj. Questo non è pluralismo, è solo incapacità di giudizio critico.

 Cosa resta oggi del messaggio di Aleksej Naval’nyj, il cui pensiero lei ha contribuito a far conoscere in Italia con il volume Io non ho paura, non abbiatene neanche voi (Morcelliana, 2024)?

C’è uno sguardo superficiale che, con la sua morte, porta a dire che non resta niente. Ma uno sguardo ancora minimamente attento alla realtà e alla verifica ci dice che resta tutto. «Io non ho paura, non abbiatene neanche voi» è una sua frase diretta: è la coscienza primaria del primo passo da compiere che, poi, implica le tante altre che ha detto e che restano.

 Quali?

Non avere paura consente anzitutto di rendersi conto che non servono grandi gesti. La grandezza della testimonianza di Naval’nyj è che, nell’eccezionalità della sua esperienza, esprime una serie di elementi essenziali che riguardano la vita di tutti. In questo senso è stato un grande personaggio, perché parla della vita. Ognuno può iniziare facendo poco, semplicemente muovendosi, senza violenza. È la grande eredità del dissenso dei Paesi dell’Est di cui anche noi ci siamo dimenticati nelle nostre democrazie spesso solo formali.

 Su cos’altro insisteva Naval’nyj?

Sulla possibilità di cambiare. Lui stesso è cambiato moltissimo, partendo da un nazionalismo anche piuttosto sguaiato. Ma, ancora una volta, questo riguarda anche noi, quando dimentichiamo che cosa siano l’Italia, l’Europa o la fede. Ma anche noi possiamo cambiare. A condizione di rendersi conto, questo era fondamentale per lui, che non siamo soli.

 Perché?

Un sistema totalitario, dittatoriale regge nella misura in cui convince i suoi sudditi che sono soli e quindi deboli. Naval’nyj insisteva su questo. Contava poco sapere in quanti si fosse, l’importante era proprio questo principio: «Non sei solo».

(…)

 Il mondo della dissidenza è attivo?

Saperlo fino in fondo è difficile perché non siamo in presenza di una informazione libera. Inoltre, la paura può essere vinta, ma c’è. La gente oggi non esce quasi più in piazza. Però ci sono dei segnali indiretti, quelli che Solženicyn chiamava il votare coi piedi. Tanta gente all’epoca seguiva chi fuggiva dall’Unione Sovietica e anche oggi in molti abbandonano la Russia.

Qualcuno dirà che sono in tanti anche coloro che abbandonano l’Ucraina…

Ma è ben diverso abbandonare un Paese perché è tutti i giorni sotto le bombe rispetto a uno in cui non si vedono prospettive di libertà.

 Tornando ai segnali?

Nonostante la repressione, esistono piccoli gruppi di persone che danno assistenza ai profughi, a chi cerca di sottrarsi alla leva e a chi viene arrestato. La prova provata che la dissidenza è il numero in aumento dei cosiddetti “agenti stranieri” che vengono perseguiti come traditori e spesso finiscono imprigionati. Ma dobbiamo ricordarci che il dissenso non è mai stato un movimento maggioritario. Anche negli “anni d’oro”, come nel 1968, quando otto persone protestarono nella Piazza Rossa contro l’invasione di Praga. Una minoranza minuscola ma – fecero notare gli osservatori non sovietici – capace di restituire in pochi secondi dignità a un intero Paese.

(…)

Dove si posiziona l’Europa?

Alla fine dell’800, Vladimir Solov’ëv, nella poesia Ex Oriente Lux descrive il grande sogno della Russia: portare la luce che viene dall’Oriente. Ma quale Oriente, chiede l’autore: quello di Serse o quello di Cristo? Questa domanda dobbiamo rivolgerla anche all’Occidente. Chiedendoci che cosa abbiamo da offrire in questo mondo. Tanto più in un momento come questo in cui la politica americana è ripiegata cinicamente sugli affari. L’Occidente è quello che ha inventato il diritto delle genti. Chi ricorda oggi che nel XVI secolo, momento del suo massimo fulgore politico, con l’Impero spagnolo vincente ovunque nel mondo, a Salamanca si elabora la prima Carta dei Diritti? Tradendola mille volte in seguito, certo. Ma l’elaborazione c’è stata.

 Quali sono le opzioni culturali per l’Occidente?

Essere quello della volontà di potenza o quello dei fondatori dell’Europa. O, se vogliamo, quello del grande dissenso, ad esempio cecoslovacco. Qualcuno sta fortunatamente riscoprendo Jan Patočka, con la sua definizione della cultura europea occidentale come spazio della vita interrogata.

 Cosa c’è in gioco?

In gioco c’è la possibilità di non illuderci di essere “a posto”. La storia non è finita, come è stato ingenuamente teorizzato, va interrogata continuamente. Il dissenso dell’Est lo ricordava chiaramente: non si tratta solo di “aiutare loro”, come rispondeva Havel a chi da Occidente gli chiedeva cosa si potesse fare ma, con uno spirito molto simile a quello di Naval’nyj, di capire cosa possiamo fare insieme. Il posizionamento dell’Europa si gioca in questa responsabilità condivisa.

Tornerà un dialogo tra Occidente e Oriente?

Ci dovrà essere dialogo. Non solo perché l’alternativa è la catastrofe, ma perché è nella natura dell’uomo. Papa Leone lo ha già ripetuto in diverse occasioni. Anche durante il suo primo viaggio in Turchia e Libano, per la celebrazione del Concilio di Nicea. Riprendere questi temi non è stato un esercizio devozionale, ma poter definire la possibilità della salvezza, cioè del dialogo tra Dio e l’uomo e, quindi, del dialogo degli uomini tra di loro. Un dialogo non fine a se stesso, ma svolto alla luce di una verità che nessuno di noi possiede ma che può rischiararci, al di là di qualsiasi propaganda.

 

 


venerdì 5 dicembre 2025

L'incombenza della Sua venuta Pagina Uno


 

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L'incombenza della Sua venuta

Pagina Uno

01.12.2006

Luigi Giussani

 

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani in occasione del ritiro d’Avvento dei Memores Domini, 28 novembre 1971

La prima domenica di Avvento ci fa iniziare la nuova vita della Chiesa, un nuovo anno. Un anno ha una importanza grande nella vita, perché nella vita di anni ce ne sono ottanta, novanta (ottanta nel migliore dei casi e novanta se si è eccezionalmente fortunati1). Di questi ottanta o novanta, quindici, se non venti, sono persi inutilmente, o pressappoco, sono incoscienti (per chi ha incontrato la comunità cristiana, invece di venti facciamo diciassette!). Perciò, un anno ha una importanza grande nella vita. E anche se, da un certo punto di vista, può sembrare artificioso il dividere il tempo in questo modo, il dare importanza a questa divisione io credo che sia molto più intelligente che artificioso. La Chiesa aumenta di molto questa certezza, perché, con l’anno liturgico, seguendo - almeno per noi del mondo occidentale - i ritmi della natura e paragonando ai ritmi della natura i ritmi dell’esistenza cristiana (dell’esistenza cristiana come storia e dell’esistenza cristiana come persona), ritmando così il suo anno sui tempi della natura, che così immediatamente simboleggiano e segnano i tempi dell’esistenza personale e i tempi dell’esistenza storica, veramente la Chiesa fa un’opera pedagogica non indifferente.

Credo che sia molto importante, realmente, questo momento. È importante, una volta che lo si richiami, molto di più per l’avvenimento d’una coscienza in noi, d’una vigilanza in noi, che neanche per le parole che possiamo sentire su di esso. Qualche parola, però, può aiutare la nostra coscienza. Ma tutto il problema sta nella nostra coscienza.

1. L’incombenza della Sua venuta

La liturgia della prima domenica2 mi pare decisiva al riguardo. Dal libro del profeta Isaia, capitolo secondo, versetti 1-5: «Visione che ebbe Isaia, figlio di Amoz, su Giuda e su Gerusalemme [«visione», perciò intuizione del progetto divino, «su Giuda e su Gerusalemme», sul popolo che è stato scelto e sul suo insediamento, che, a differenza di ogni insediamento umano, ha un significato imperituro, perché l’insediamento del popolo di Dio costituisce il segno, il sacramento, dell’ultimo insediamento umano, che è il paradiso]. Avverrà che alla fine dei giorni si ergerà il monte del tempio del Signore sulla cima dei monti, si innalzerà sui colli; verso di esso affluiranno le genti. Verranno tanti popoli, dicendo: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci ammaestri sulle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge, e la parola del Signore da Gerusalemme. Egli giudicherà tra le genti e deciderà tra tanti popoli. Forgeranno le spade in vomeri, le lance in falci; un popolo non alzerà la spada contro un altro popolo, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore»3.

La prima parola che il testo di Isaia ci suggerisce è una parola che immediatamente deve determinare la coscienza della definitività. La coscienza della definitività è come la coscienza di noi stessi: è permanente. Potrebbe essere già un esame di coscienza o un contenuto di contrizione per la messa di oggi, per questa giornata e per il suo sacrificio. La coscienza della definitività deve accompagnarci come l’autocoscienza di noi stessi, come la coscienza di noi stessi, come un’autocoscienza. Infatti, l’autocoscienza è consapevolezza di qualche cosa di definitivo, perché il nostro io è definitivo. Ma ancora più definitivo è il significato del nostro io. E il significato del nostro io è Gesù Cristo e il Suo mistero; perciò la definitività riguarda la nostra adesione a Lui, la nostra adesione secondo la formula che Lui ha deciso per la nostra vita (perché non c’è un’altra formula; c’è soltanto, per aderirGli, la formula che Lui ha deciso per la nostra vita). La coscienza della definitività è come il sintomo più esatto della vera autocoscienza cristiana, dell’autocoscienza che ci fa percepire la vita come vocazione.

C’è una parola che immediatamente rende viva la coscienza della nostra definitività: senza questa parola, la definitività non è viva, può essere un automatismo già instaurato. Guardate, per favore, che non intendo fare osservazioni astratte: dico, rilevando la posizione di taluni tra voi, che la definitività è vissuta come un automatismo. Ed è tentazione di tutti noi, per tutti noi, il vivere la definitività come automatismo. Senza la parola che stiamo per dire, la definitività è automatismo. Perciò, come ogni automatismo, applicato alla vita cosciente, alla vita intelligente, alla vita della sensibilità, alla vita della libertà e della volontà, fa diventare rigidi. È una rigidezza che sembra non morderci la coscienza, quando non permette peccati mortali; ma è una tale rigidezza che non porta nessun segno di Cristo in giro per il mondo e tanto meno in «casa»4. Oppure, l’automatismo provoca una rigidezza che, in vario modo, ci rende farisei, vale a dire tende a fare del nostro atteggiamento il paradigma per gli altri: la misura della nostra esigenza, che diventa perciò pretesa, è la misura della bontà degli altri, del valore degli altri, della utilità della casa o della utilità dei rapporti. Oppure porta a un farisaismo che in fondo - di fronte alle nostre licenze, di fronte alle libertà che ci prendiamo e che scandalizzano la casa o che scandalizzano i rapporti o che ci isolano dai rapporti, ci rendono inutili, futili, vani, senza produttività nei rapporti - ci fa dire: «Beh, cosa c’è di male?», o: «Io, cosa ci devo fare; in fondo, cosa ci devo fare?»; che, se non è un modo per giustificarsi teorico, è un modo per giustificarsi di fronte a se stessi, quasi una scocciatura al pensiero che altri possano eccepire sul nostro comportamento.

È un automatismo che rende rigido tutto e senza gusto il vivere spirituale, senza nessun sàpere, senza nessun sapore, la vita del nostro spirito; oppure è un automatismo farisaico, che fa della nostra pretesa la misura della convivenza (quando abbiamo voglia di parlare, gli altri devono parlare, e quando abbiamo voglia di “tenerci” per noi, non devono pretendere niente; abbiamo il diritto di tacere e di parlare quando e come vogliamo, con stagnante in fondo all’animo quella caratteristica pretesa, quel senso di pretesa che, anche se non osiamo esplicitarcelo, gli altri sentono sensibilmente, come quando ci toccano dentro col gomito e ci vedono la faccia); oppure è il farisaismo che giustifica, se non teoricamente, almeno ad usum delphini, per noi stessi, il nostro comportamento. La nostra definitività scade inevitabilmente in tutto questo che ho detto - perché sto descrivendovi, sto descrivendoci -, senza la parola che il profeta Isaia, per primo, ci ha dettato. E la parola è che Cristo, la Sua venuta, è incombente: l’incombenza della Sua venuta.

Come gioca il vocabolario! Perché «incombenza» vuol dire due cose: vuol dire un dovere e vuol dire una cosa che ti sovrasta, imminente. Incombenza vuol dire dovere e vuol dire imminenza. Io voglio sottolineare anzitutto il secondo aspetto, perché il primo è evidente che ne deriva: una incombenza, una imminenza, se non è uguale a zero, diventa un dovere, suscita e impone un dovere.

L’imminenza della Sua venuta, l’incombenza della Sua venuta. «Fratelli - dice san Paolo nella Lettera ai Romani -, consapevoli del momento che volge, è tempo che vi destiate dal sonno ormai. Perché la salvezza ci è molto più vicina ora di quando siamo venuti alla fede. La notte è avanzata, il giorno è vicino»5, è tempo che vi destiate dal sonno. Dice il Vangelo di Matteo: «Come in quei giorni non si avvidero di nulla finché venne il diluvio e li distrusse tutti, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Vigilate, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà. Questo sappiate: se il padrone di casa conoscesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe rompere la casa. Anche voi perciò state pronti, perché nell’ora in cui non lo pensate, il Figlio dell’uomo verrà»6. È una incombenza, è una imminenza che ha come significato privilegiato, come significato supremo, quello letterale: l’incombenza e l’imminenza della morte; perché la morte è il Figlio dell’uomo che viene, secondo tutta quanta l’ampiezza del significato. Ma questo non sapere quando la morte viene, questo dovere di stare all’erta, questa fine dei giorni in cui il Signore «ergerà il monte del tempio suo», il fatto di non sapere il momento in cui il Signore viene, rende molto più chiaro, anzi, è l’unico modo per rendere la consapevolezza, la coscienza delle nostre azioni, tutta quanta protesa o determinata dal significato finale.

Ogni nostra azione, ogni momento è un passo verso il Signore che viene. Perciò ogni azione e ogni momento è il Signore che viene, esattamente come ogni azione, ogni momento può essere l’ultimo. Se la paura fosse dominata dal desiderio, se il timore fosse dominato dall’attesa! Questo è vivere l’imminenza del Signore che viene, questo è vivere l’incombenza di Cristo, della venuta di Cristo. Letteralmente ogni azione ha il suo significato nella venuta Sua, nel senso ristretto della parola, che è la morte.

(continua su comunioneeliberazione.org)