sabato 28 settembre 2024

Il Cardinale Pizzaballa propone una giornata di preghiera e di digiuno il 7 ottobre

 


†Pierbattista Card. Pizzaballa

 

Patriarca di Gerusalemme dei Latini

 

Preghiera per la pace

 

Signore Dio nostro,

Padre del Signore Gesù Cristo

e Padre dell’umanità intera,

che nella croce del Tuo Figlio

e mediante il dono della sua stessa vita

a caro prezzo hai voluto distruggere

il muro dell’inimicizia e dell’ostilità

che separa i popoli e ci rende nemici:

manda nei nostri cuori

il dono dello Spirito Santo,

affinché ci purifichi da ogni sentimento

di violenza, di odio e di vendetta,

ci illumini per comprendere

la dignità insopprimibile

di ogni persona umana,

e ci infiammi fino a consumarci

per un mondo pacificato e riconciliato

nella verità e nella giustizia,

nell’amore e nella libertà.

 

Dio onnipotente ed eterno,

nelle Tue mani sono le speranze degli uomini

e i diritti di ogni popolo:

assisti con la Tua sapienza coloro che ci governano,

perché, con il Tuo aiuto,

diventino sensibili alle sofferenze dei poveri

e di quanti subiscono le conseguenze

della violenza e della guerra;

fa’ che promuovano nella nostra regione

e su tutta la terra

il bene comune e una pace duratura.

 

Vergine Maria, Madre della speranza,

ottieni il dono della pace

per la Santa Terra che ti ha generato

 

e per il mondo intero. Amen.


giovedì 26 settembre 2024

"Oltre la soglia del dolore, c'è la vita"

 


«Oltre la soglia del dolore, c’è la vita»

Documentare l'orrore della guerra per conoscere le cose come stanno davvero. La vita e l'impegno della reporter e documentarista russa, cattolica, Katerina Gordeeva, contro l’amnesia collettiva sul conflitto in Ucraina

Maria Acqua Simi25.09.2024

«Ho deciso di raccogliere le voci di russi e ucraini sul campo, di documentare tutto, perché un domani i miei figli possano conoscere la storia per come è stata, non per come l’ha narrata la propaganda. E perché se in futuro ci saranno dei processi, queste testimonianze possano servire alla verità e alla giustizia». Incontriamo Katerina Gordeeva un sabato mattina, mentre si trova in Italia, paese dove le piacerebbe vivere perché, spiega, ama il sole e la buona cucina. Vincitrice del premio Anna Politkovkskaja 2024, è una delle giornaliste russe indipendenti più autorevoli. Un’autorevolezza che si è guadagnata sul campo, prima come reporter della tv nazionale russa seguendo le guerre in Cecenia, Iraq e Afghanistan e ora come documentarista. Nata nel 1977 a Rostov sul Don (nel sud, vicino al confine ucraino) è cattolica ma viene da una famiglia ebrea. Metà dei suoi stanno in Ucraina, un’altra metà in Russia.

 

«Ho sempre avuto memoria dei pullman e dei minibus che collegavano Rostov con Doneck, Lugansk, Mariupol’ e Melitopol’. Le particolarità di lessico e di pronuncia di Rostov sono molto simili a quelle di chi vive nell’Ucraina orientale. In tanti anni di vicinanza ci siamo mescolati: gli abitanti di villaggi e cascine cosacche, di paesini limitrofi si sono sposati fra loro, hanno unito le loro produzioni agricole, hanno generato figli. Oggi metà della mia famiglia vive a Kiev, la città a cui ha dichiarato guerra Mosca». Lei e il marito, invece, si sono trasferiti a Riga, in Lettonia, dieci anni fa. «Nel 2014, dopo l’annessione russa della Crimea, ho capito che la propaganda governativa era troppo forte. Io non potevo combatterla, non potevo continuare a lavorare per loro e non potevo salvare i miei figli da quella menzogna. Così abbiamo abbandonato la Federazione russa. Una scelta dolorosa, perché abbiamo lasciato la famiglia e tante cose care. Come la Fondazione che aiuta i bambini oncologici che seguivo da anni».

 

Non ha mai smesso di lavorare però per il popolo russo e per chi parla la lingua russa. «Anche se il mio Paese sembra essere diventato pazzo, come se vivesse una amnesia collettiva e la gente sembra stare solo in silenzio di fronte alla guerra, io voglio che possano sentire ancora una voce che in russo prova a dire le cose come stanno». Per questo continua a fare interviste e reportage sul suo canale Youtube e sempre per questo ha recentemente pubblicato Oltre la soglia del dolore (21lettere, 2024), una raccolta di ventiquattro storie ucraine e russe che raccontano la tragedia della guerra. Da entrambi i lati, senza censure. Come ha scritto nella prefazione Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e caporedattore di Novaja Gazeta, “Katerina Gordeeva è diventata un’alternativa unipersonale a una colossale macchina di propaganda”.

 

Nel suo lungo reportage Katerina ha incontrato tantissime persone, tutte segnate fisicamente o mentalmente dal conflitto in corso. Come Danila, mutilato a una gamba, o Rita, che ha sposato un coreano e ha deciso che in Ucraina non tornerà mai più e poco importa se la prenderanno i russi o se resterà in mano agli ucraini. «Aveva studiato come otorino pediatrico, in mezzo alla confusione della guerra si ritrova nel sangue, a ricucire gli arti strappati dalle esplosioni delle bombe, e a domandarsi se è per questo che ha studiato, se è per questo che deve vivere». E poi ci sono coloro che sono convinti che la Russia abbia fatto bene ad arrivare nel Donbass dieci anni fa, altri che non hanno più lacrime («piangere è un lusso che nessuno vuole concedersi»), madri che vorrebbero solo annullarsi dopo la notizia della morte dei figli al fronte, giovani vedove. «Ho girato tanti video di queste interviste, ma le voci di quella gente mi tormentavano e ho scelto di metterle anche su carta. Anche se oggi c’è poco spazio per il giornalismo indipendente in Russia, ci sono le persone».

 

Come la piccola Katja. «Stavo parlando con la madre, una sarta il cui marito, muratore, si trovava al fronte. Parlavamo della guerra e la donna raccontava dei morti, dei mutilati, della paura del futuro. Non so da quanto tempo stessimo lì. All’improvviso quella bimba, che poco prima stava guardando Peppa Pig, comincia a tirare dei piccoli pugni alla mamma implorandola di smetterla di parlare di queste cose. “E di cosa dovremmo parlare, Katja?”, le ho domandato con l’oscena speranza dell’adulto che i bambini, nella loro purezza, sappiano tutto e meglio, direttamente da Dio. “Del bene”, mi ha risposto. “Del bene?”. “Sì”. Poi ha serrato le spalle e ha chiesto solo alla madre di prenderla in braccio e di poter andare a dormire». Su questa ricerca del bene si sofferma Katerina, anche nella nostra intervista. «Io amo profondamente la Russia e quando vedo manifestazioni contro il mio Paese piango. Piango perché siamo dalla parte sbagliata della storia e io so che non farò mai abbastanza per impedirlo. Però l’odio è un sentimento tanto facile. Ma la gioia… è come un parto. Ho quattro figli, so cosa vuol dire il dolore del parto. Ma la gioia che viene dopo è qualcosa di non misurabile. Parlo della gioia cristiana, quella di cui parla san Paolo, quella che nasce dalla certezza che non sarà il male ad avere l’ultima parola. Ce lo dice la nostra fede cristiana, vorrei vivere per questo e che i miei figli vivano per questo».

(……)

https://it.clonline.org/news/attualit%C3%A0/2024/09/25/intervista-katerina-gordeeva#:~:text=%C2%ABOLTRE%20LA%20SOGLIA,di%20misericordia%C2%BB.


lunedì 23 settembre 2024

"Facciamoci carico del dolore altrui"

 


«Facciamoci carico del dolore altrui»

Michele Zanetti, che scelse Franco Basaglia come direttore dell’allora ospedale psichiatrico di Trieste, racconta l’amicizia con l’uomo che ha rivoluzionato l’assistenza al disagio psichico: «Queste persone non sono pratiche da sbrigare»

Maria Acqua Simi23.09.2024

Uno dei primi fu un ragazzo che era stato colpito gravemente alla testa mentre lavorava sulle barche al porto di Trieste. Forse un’ancora o un gancio da traino. Quel colpo ebbe gravi ripercussioni e finì in manicomio. Era considerato inguaribile. Ma di lì a poco all’istituto San Giovanni, il ricovero “dei matti” della città, sarebbe arrivato un direttore molto diverso dai precedenti. Il suo nome era Franco Basaglia. Fece qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima. Iniziò a dialogare con quel giovane – e così con tutti i pazienti - poi lo portò fuori a fare dei giretti in auto fino a promuoverlo suo autista. E quel ragazzo, oggi anziano, diventerà fino alla pensione l’autista di tutti i direttori sanitari che si avvicenderanno negli anni successivi. Lo stesso accadde per un altro paziente, promosso da Basaglia capo del bar di reparto.

 

«Franco era così. Un uomo colto, preparato, libero. Scommetteva sull’uomo. Voleva dimostrare che si può curare la malattia mentale senza rinchiudere le persone, senza elettroshock, puntando piuttosto sulla libertà, sulla dignità umana. Per questo lo scelsi come direttore dell’ospedale psichiatrico San Giovanni. Erano gli anni Settanta, anni difficili». A parlare è Michele Zanetti, presidente della Provincia di Trieste dal 1970 al 1977 ed esponente locale della Democrazia Cristiana. All’epoca erano proprio le province ad avere la responsabilità dell’assistenza ai malati psichiatrici, perlopiù confinati in manicomi in condizioni brutali. Si contavano in quegli anni almeno 100mila pazienti ricoverati, solo a Trieste erano circa 1.200. Oggi, anno di grazia 2024, il medico che portò alla più radicale riforma della psichiatria in Italia e alla chiusura dei manicomi, sarebbe centenario. Ma in pochi sanno che fu proprio l’amicizia con Zanetti il motore di una vera rivoluzione culturale e medica.

 

«Io ero, sono, profondamente cattolico. Sono cresciuto con gli scout e lo sguardo cristiano mi ha segnato per tutta la vita. Franco no, o perlomeno non lo era pubblicamente. Però aveva chiara la sacralità della dignità di ogni singola persona. Su quel terreno comune ci trovammo. Anche io avevo potuto visitare i manicomi, per un esame di medicina legale, e fu terribile. Uscii da quei luoghi rimanendone profondamente turbato, non riuscii a mangiare per giorni. Uomini, ritenuti pericolosi, a volte contenuti con camicie di forza o legati al letto, lobotomizzati, trattati con dosi enormi di psicofarmaci quando non con l’elettroshock. Il reparto femminile mi impressionò: queste donne sporche, scarmigliate… Venni a sapere che c’era a Gorizia un medico che aveva un approccio diverso: parlava coi “matti”, li portava fuori a passeggiare, offriva loro gelati e organizzava per loro laboratori di musica e arte. Un visionario. Perché Franco era così. Teneva lo sguardo fisso al passo successivo, anche se venne osteggiato. Diventammo amici, lui e la moglie Franca venivano a cena a casa nostra, bevevamo whisky e discutevamo per ore. Era un uomo affascinante, esigente». In quegli anni, infatti, le persone con sofferenza psichica erano considerate pericolose e quindi tenute nascoste dal resto della società. «Non c’era cura, esisteva solo il controllo. Un po’ riduttivo no?».

 

Nel 1971, Basaglia vince il concorso per la direzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste e Zanetti gli garantisce piena libertà di azione, appoggiando il suo progetto di superamento del manicomio e di un’organizzazione territoriale della psichiatria. «Venimmo osteggiati dalla classe medica triestina, e non solo. Ma la Provvidenza, e un gran lavoro da parte nostra e di molti che credevano nel nostro progetto, ci portarono nella giusta direzione».

Sei anni dopo il San Giovanni chiuderà i battenti e nel ’78 verrà approvata la legge 180, la cosiddetta “Legge Basaglia”. I manicomi furono smantellati e sostituiti da servizi territoriali, ambulatori e comunità terapeutiche. La riforma pose fine a decenni di internamento forzato e stigmatizzazione dei malati psichici, aprendo la strada a una visione della malattia mentale basata su assistenza, inclusione sociale e diritti umani.

 

«C’è ancora molto da fare, anche se esistono realtà molto belle come il “Paolo Pini” di Milano, che conta anche una comunità e una cooperativa che fanno un lavoro interessantissimo sulla riabilitazione psichiatrica. Oggi il disagio psichico è molto più presente, soprattutto tra i giovani che spesso soffrono di ansie o depressione. In Italia non è che manchino le leggi, è che non vengono applicate. Non mancano leggi, manca il personale. E senza personale medico adeguato, come ci si può prendere cura della persona? Mi ferisce vedere la solitudine dell’uomo moderno. Ci sono persone che scelgono il ricovero pur di non stare sole a casa. Basaglia, e i suoi amici, non sbagliavano quando puntavano tutto sulla relazione. Oggi siamo tremendamente poveri di relazioni e io credo che se non impariamo a rilanciare un'assistenza comunitaria, se non ci facciamo carico tutti del dolore degli altri, sarà difficile che le cose migliorino. Pensate a un malato mentale: se lo conosci, se dialoghi con lui, magari come medico impari anche cosa scatena una crisi, come la si può prevenire. Se invece i pazienti sono solo numeri e pratiche da sbrigare…».

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https://it.clonline.org/news/attualit%C3%A0/2024/09/23/intervista-michele-zanetti-facciamoci-carico-del-dolore-altrui#:~:text=%C2%ABFACCIAMOCI%20CARICO%20DEL,direttore%20molto%20diverso


sabato 21 settembre 2024

L'intelligence alleata e sovietica nella Resistenza europea: per capire l'oggi


 

LETTURE/ Piffer, “il fronte segreto”: l’intelligence alleata (e sovietica) nella Resistenza europea

Il saggio di Tommaso Piffer "Il fronte segreto. Gli Alleati, la Resistenza europea e le origini della guerra fredda 1939-1945" è disponibile in italiano (1)

Giorgio Cavalli Pubblicato 21 Settembre 2024

 

 

Nel nostro tempo si fa sempre più evidente come la fine della Guerra fredda, lungi dall’aver costituito l’ingresso in un mondo di pace, abbia fatto riesplodere antiche tensioni che covavano sotto la coltre del bipolarismo di qua e di là da quella cortina di ferro che, durante la seconda guerra mondiale, si andava definendo attraverso la Conferenza di Teheran del 1943, l’accordo di spartizione delle aree di interesse tra Stalin e Churchill del 1944 e la conferenza di Yalta del 1945. Dentro all’attuale contesto di nuovi conflitti a effetto domino, diventa allora interessante ritornare sulle tensioni covate sotto le ceneri nell’Europa di settant’anni di pace “congelata”, le cui radici stanno nella guerra stessa.

 

L’ultimo volume di Tommaso Piffer, Il fronte segreto. Gli Alleati, la Resistenza europea e le origini della guerra fredda 1939-1945 (Mondadori, 2024) si rivela molto utile per scavare in questa direzione, a patto che si sia disposti a lasciarsi guidare nel labirinto di un puzzle estremamente complesso, dal quale emergono via via le diverse tensioni militari e i problemi politici che si posero sul terreno dinanzi alle potenze alleate conto la Germania nazista. Tommaso Piffer, docente di Storia contemporanea all’Università di Udine con un curriculum che passa per Harward, Cambridge e Mosca, ha dedicato molte ricerche alla Resistenza europea. In questo volume il focus si concentra su quei Paesi dell’Europa centro-orientale – Grecia, Jugoslavia e Polonia –, che appunto furono toccati nei loro confini dalla cortina di ferro e che pertanto videro un maggiore impegno dei Servizi di intelligence inviati da Londra, Washington e Mosca a sostegno di questa o quella componente della Resistenza, che in quei Paesi assunsero connotazioni di massa entrando però spesso in conflitto con i rispettivi governi in esilio.

 

Pubblicato dapprima in inglese e dotato di un’imponente documentazione di prima mano, il testo di Piffer attraversa la Seconda guerra mondiale nella prospettiva piuttosto inedita dell’operato dei Servizi segreti alleati nelle loro relazioni con i movimenti europei della Resistenza, in un arco di tempo che va dal disastroso patto di non aggressione Ribbentrop-Molotov del 1939 – con le clausole segrete per la spartizione della Polonia –, fino alla disfatta della Germania. Nel ripercorrere in ordine cronologico i diversi scenari di guerra, l’autore svolge per trecento e più pagine la storia dei Servizi nelle loro relazioni con i rispettivi governi da un lato e con i movimenti europei di resistenza dall’altro, concentrandosi su tre punti chiave: 1) la Grande Alleanza tra Gran Bretagna, Stati Uniti e URSS; 2) le relazioni tra gli Alleati e l’Europa; 3) la natura della Seconda guerra mondiale.

 

Per quanto riguarda i rapporti tra gli Alleati, l’analisi comparata dei rapporti di Mosca, Londra e Washington con i rispettivi servizi segreti ci svela la pragmaticità, la molteplicità di opinioni e spesso la confusione dei centri di potere occidentali, in specie nel caso dell’Inghilterra, che fino al 1941 dovette sostenere da sola il peso della guerra e il cui Foreign Office mise in campo un SOE (Special Operations Executive) inizialmente improvvisato con agenti poco più che ventenni, scarsamente preparati e difficilmente controllabili, anche per ragioni logistiche, sia dal ministero che dagli alti comandi militari.

 

Vero è che nel tempo i Servizi inglesi videro l’apporto di agenti molto abili, come Bill Hudson, un prestante agente dalle molte risorse sbarcato con un sottomarino in Montenegro per la sua missione in Jugoslavia, cui pare si fosse ispirato Fleming per il suo James Bond, o come il trentenne Eddie Myers in Grecia, unico ufficiale del Genio reale addestrato al paracadute tra quelli assegnati al SOE, e tuttavia non saranno mai del tutto superate le contraddizioni tra i diversi centri operativi. Gli Stati Uniti apparvero in Europa più defilati nella loro competizione con l’alleato inglese, geloso del proprio dominio nel Mediterraneo, avendo questi concentrato le attività dell’OSS (Office of Strategic Services) principalmente nello scacchiere asiatico. Unica eccezione in cui si rovesciarono i rapporti interni anglo-americani fu l’area italiana tra il 1944 e il 1945, dove la disponibilità di agenti italo-americani costituì un indubbio vantaggio linguistico per la loro penetrazione nel territorio.

(…..)

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-piffer-il-fronte-segreto-lintelligence-alleata-e-sovietica-nella-resistenza-europea/2752197/#:~:text=CULTURA-,LETTURE/%20Piffer%2C%20%E2%80%9Cil%20fronte%20segreto%E2%80%9D%3A%20l%E2%80%99intelligence%20alleata%20(e%20sovietica)%20nella%20Resistenza,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94,-Abbiamo%20bisogno%20del

 

(1 – continua)

 


venerdì 20 settembre 2024

SANITA', MEDICI AGGREDITI

 



SANITÀ, MEDICI AGGREDITI/ Curare non basta, ai sanitari serve ancora una “vocazione”

 

Da Foggia a Napoli, aumentano i casi di aggressioni ai medici. Un problema che non si risolve con le forze dell’ordine. Nemmeno con l'aziendalismo sanitario

Antonio Puca Pubblicato 20 Settembre 2024

 

“Negli ultimi trent’anni (oggi possiamo dire settanta) – scrivevano il prof. Pellegrino e il prof. Thomasma negli anni novanta – nell’etica medica sono avvenuti cambiamenti più che nella storia dai 25 secoli precedenti”.

 

Dal noto giuramento di Ippocrate, che sanciva la sacralità dell’arte medica e, da una certa lettura tardiva, del cosiddetto paternalismo medico (Percival), si è passati ad una visione laica della medicina e ad una forte accentuazione dell’autonomia del paziente (uno dei tre principi della bioetica anglosassone), con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.

 

Le cause di questa trasformazione erano e sono riconducibili a tre fattori: la gestione democratica del potere; l’educazione pubblica; il pluralismo morale (cfr. E.D. Pellegrino, D.C. Thomasma, Medicina per vocazione, Dehoniane, 1994)

 

A questi occorrere aggiungere, a questo punto, un quarto fattore, che è la trasformazione degli ospedali e delle case di cura in aziende da condurre managerialmente. In Italia questo cambiamento lo si può fare risalire sempre agli anni 90.

 

Tenendo presenti questi fattori, l’etica medica non la si può più intendere come fino agli anni 60. Al di là del fatto che molti problemi che erano di pertinenza dell’etica medica oggi sono rivendicati dalla bioetica, lo stesso rapporto medico-paziente, centrale nella concezione dell’etica medica, non è più da intendersi nel modo tradizionale.

 

A causa dei cambiamenti sopra citati, il rapporto non è più ristretto tra il medico e il paziente. La famiglia, le altre figure professionali della salute, il sistema gestionale dell’azienda sanitaria locale, la politica sanitaria sono fattori che sono entrati in gioco, per cui, semplificando, si può dire che l’etica medica nel recente passato riguardava almeno tre componenti: il paziente, il medico e le altre figure professionali, e la società, in ordine di importanza invertito rispetto al passato.

 

Oggi possiamo dire che l’etica medica è totalmente negletta. Venuta meno la fiducia del paziente nel medico, e l’autorevolezza del medico stesso nei confronti del paziente, si assiste a una vera e propria aggressione contro i medici e il personale sanitario in genere, appena l’ammalato o i familiari si sentono trascurati. I casi si sono moltiplicati negli ultimi anni e oggi ci si trova in una situazione davvero insostenibile. Tant’è che i sanitari fuggono dai Pronto soccorso e dai reparti a rischio e minacciano di chiudere gli ospedali. Perfino i concorsi per il personale sanitario vengono disertati. Si è passati dal Welfare al Far West!

 

Che fare? Analizzare le cause sembra poco. Allora si invoca la forza pubblica a presidio di ospedali e case di cura. A nostro avviso ciò non basta. Può coprire qualche falla, ma non risolvere. Il conflitto autonomia del paziente-dovere del medico è risolvibile solo in un rapporto di fiducia reciproca. Seguendo ancora i nostri autori, occorre stabilire una nuova alleanza tra medico/personale sanitario e paziente. La “beneficialità nella fiducia” è la formula adoperata da Pellegrino e Thomasma per esprimere questo rapporto. Ma anche ciò non basta, a nostro avviso. Occorre che il medico e gli operatori sanitari ritrovino quella che una volta veniva chiamata “vocazione”, come si riscontra ancora nel testo citato, e il malato e la sua famiglia sappiano comprendere che gli operatori non sono onnipotenti. Aggiungiamo che le risorse sanitarie meritano di essere aumentate e i presidi“umanizzati”. L’ospedale deve ritrovare la sua fisionomia originale: luogo di accoglienza e di cura.

 

(…….)

https://www.ilsussidiario.net/news/sanita-medici-aggrediti-curare-non-basta-ai-sanitari-serve-ancora-una-vocazione/2751859/#:~:text=SALUTE%20E%20BENESSERE-,SANIT%C3%80%2C%20MEDICI%20AGGREDITI/%20Curare%20non%20basta%2C%20ai%20sanitari%20serve%20ancora%20una,Studio%3A%20%2239%20milioni%20di%20persone%20a%20rischio%20morte%20entro%20il%202050%22,-SANIT%C3%80%2C%20SALUTE%20E


mercoledì 18 settembre 2024

STRAGE PADERNO DUGNANO

 


STRAGE PADERNO DUGNANO/ “Cosa fare quando manca l’io e l’altro diventa nemico?”

La strage di Paderno Dugnano è la conseguenza della distruzione di ogni nostro legame identitario. Si uccide per risolvere il proprio malessere

Cesare Maria Cornaggia, Giulio Maspero, Federica Peroni Pubblicato 18 Settembre 2024

 

Lo psicanalista Claudio Risé nel suo articolo su La Verità dell’8 settembre scorso chiude la sua riflessione attorno al caso di Paderno Dugnano affermando che “la rivoluzione oggi maggiormente indispensabile rimane allora quella culturale: sempre più urgente”. Zittite pertanto le inutili e fastidiose trombe dei cosiddetti esperti o sapienti all’affannosa e vana ricerca di “motivazioni” o di “moventi”, crediamo che soltanto il rispettoso silenzio dinanzi alla tragedia ed al mistero possa aiutarci a far emergere la vera urgenza: dove sta andando l’uomo in questa società che ha espulso Dio e che ora distrugge sistematicamente le relazioni?

 

Eventi come questo sono infatti figli della solitudine nella quale siamo tutti immersi, spesso senza neppure averne contezza. Essa può passare, come è accaduto, assolutamente inosservata e può appartenere al nostro vicino di pianerottolo senza che noi ce ne accorgiamo, anche perché di fatto il nostro vicino neppure lo conosciamo. Nel nostro affannoso parricidio, da noi fortemente voluto e che ha prodotto la nostra posizione culturale a partire dal Sessantotto ad oggi, abbiamo fatto fuori qualsiasi legame identitario. Infatti, come scriveva un altro psicanalista junghiano, Enrico Ferrari, l’uccisione del padre non è stata finalizzata alla sua sostituzione, ma alla sua abolizione. Ci siamo ritrovati con in mano una incapacità relazionale che abbiamo fantasticato di sostituire con il surrogato delle relazioni a distanza, dove corpo, emozione, fisicità, em/simpatia non hanno avuto più posto. In realtà, quello che fa davvero paura è che il motivo per il quale a Paderno Dugnano, o chissà dove nel mondo, manca il “movente” è quello che manca la persona che si muove e la direzione per dove si muove. In sostanza, manca l’Io.

 

Tanti commentatori della vicenda si sono rincorsi nel sottolineare l’incapacità di leggere e di esprimere le proprie emozioni, il non accesso al proprio mondo profondo, la non capacità comunicativa, il non ascolto da parte del mondo circostante e così via. Tutto vero, ma a nostro parere la situazione con la quale abbiamo a che fare sta ad un passo ancora prima: non si dice niente, non soltanto perché non si riesce a tradurre qualcosa in parola, ma perché manca il “qualcosa” da tradurre, manchiamo noi. L’Io si costituisce in e come relazione: a partire da quella originaria ed identitaria si plasma con l’altro lungo un lento percorso di riconoscimento reciproco dinanzi a due punti irriducibili: la realtà come dato ed il proprio mondo interno irto di esigenze e di desiderio.

 

L’angosciante solitudine nella quale giacciono i nostri figli, assieme ovviamente anche a noi medesimi, è figlia del tentativo culturale (per questo Risé ha ragione) di escludere la relazione e di lasciare l’uomo solo immerso in un inevitabile narcisismo. Noi crediamo che questa condizione nasca proprio e originariamente dall’esclusione di Dio dalla storia, come proclamava Nietzsche col suo annuncio della morte di Dio, e dal fatto che l’Io, tolto dalla relazione, non può vivere, come affermava Watzlawick.

 

Vi sono situazioni nelle quali si può perdere di vista sé stessi oppure l’altro; quando però a perdersi di vista sono entrambi, tutto diviene privo di un punto di riferimento e la lettura di quello che ci anima diventa impossibile. Si genera allora la ricerca di una dipendenza estrema, dove l’altro diviene il prolungamento di sé e del proprio malessere e senza le coordinate diventa un ostacolo o un bersaglio, un nemico. Dentro a una società che produce continuamente stimoli, tutto si fa rumore, brusio continuo legato all’ansia da prestazione che toglie il silenzio. Ma è nel silenzio che si forma il pensiero e questo, se non può evolvere e manifestarsi, diventa agito, che spesso irrompe in maniera violenta per dare uno stop a pezzi di pensieri troppo faticosi o fastidiosi.

 

Davanti a fatti di cronaca come quelli di Paderno Dugnano vi è un elemento violento, inconcepibile: non esiste il “motivo”, o meglio il motivo esiste ma non è categorizzabile. E non è categorizzabile perché è relazionale, nel senso della mancanza di relazioni. Queste, infatti, non sono traducibili in concetti, come avviene per gli oggetti, un tavolo o un cellulare ad esempio. Quindi ancor più arduo è parlarne quando la causa di un evento si configura come assenza di relazioni. Così, per l’essere umano, che ha bisogno di sapere il “perché” per quietare le proprie angosce e per dare senso al reale, tutto diviene incomprensibile.

 

D’altra parte siamo nell’epoca della frammentazione: non esiste più il simbolo, la comunicazione è contratta, si è connessi ma non in relazione, si è ovunque ma da nessuna parte. Gli agiti, come atti sostitutivi del pensiero, ci sono sempre stati, ma sono sempre stati relegati nella sfera della follia, della persona emarginata e reclusa, mentre oggi invadono tutto il tessuto societario come segno di una sofferenza non ascoltata. Si sta perdendo l’essere e per emergere l’unica cosa che resta è quella di “rompere” l’altro e la relazione con lui, ma non solo simbolicamente purtroppo. Il mito di Edipo diventa drammaticamente ancora più attuale, con la fatica però a ritrovare il simbolo e la potenza del suo messaggio. In una vicenda come quella di Paderno Dugnano si ritrova tutta la drammaticità della situazione odierna, l’uccisione del padre come modo non per evolvere, ma per risolvere il proprio malessere, una ferocia disperata per salvare sé stessi attraverso la perdita dell’altro.

 

Questa condizione è esplosa con l’esperienza della recente pandemia, cioè del tempo dell’incontro con il limite e la frattura della relazione. Il dilagare dei disturbi di panico non è infatti incomprensibile: esso è una manifestazione che consegue all’accumulo di emozioni negative che attivano angosce di frammentazione. I disturbi legati al comportamento alimentare, anch’essi esplosi, hanno a che fare con il panico e la fatica legata al crescere. Le condotte alimentari come il panico esprimono il tentativo di controllare corpo e corporeità, che sono qualcosa di impossibile da controllare. L’individuo che non vuole evolvere per paura sa, dentro di sé, in maniera inconscia e quindi più potente, che qualsiasi tentativo di non crescita è assolutamente impossibile.

 

Mai come oggi ci viene in aiuto il pensiero di Hannah Arendt, che ha sottolineato la profonda distinzione tra “sapere” e “pensare”, definendo quest’ultimo come attività che non si conclude mai e che si basa su un processo continuo e critico. Il pensiero consente di riflettere sulle proprie azioni e metterle in discussione cercando significati sempre più profondi. In una società che mira alla ricerca di soluzioni definitive e poco flessibili, che punta al totalitarismo attraverso l’uso massiccio dei mass media risulta difficile accedere ad un’attività di pensiero come qualcosa di flessibile e critico. Il non criticare il reale (che la nostra società vuole sostituire con l’ideologia) non consente l’accesso al simbolico, perché viene a mancare quella autoriflessione che permette di guardare al rapporto tra Sé, Io e realtà in un circuito continuo. Siamo infatti nell’epoca della “banalità del male” intesa, secondo Arendt, come “totale mancanza di pensiero critico ed obbedienza cieca all’autorità, piuttosto che di una malvagità intrinseca”.

 

Ecco qui rappresentato quanto accade in questi giorni: si fa fatica a parlare di una malvagità intrinseca, quanto più di una mancanza di critica. La presenza di una malvagità, infatti, porta con sé un pensiero più strutturato e basato sul tentativo di fare intenzionalmente male all’altro, ma l’assenza di un pensiero è una condizione tremenda. Nella lotta continua tra Eros e Thanatos vince quest’ultimo, in una spirale tragica dove l’essere umano fa fuori sé stesso.

 

In un contesto come quello odierno la vera emergenza, prima di quella sanitaria o educativa, è quella culturale, come diceva Risé. Resta urgente ripristinare una cultura dell’altro e dell’incontro che acceda alla dimensione della colpa e non della vergogna, dove quest’ultima annienta la relazione perché fa percepire sé come sbagliato e l’altro come giudicante. La colpa, invece, consente di ripristinare il pensiero critico e di guardare alle proprie azioni non come coincidenti con sé, ma come una parte sulla quale lavorare, come descriviamo nel nostro recente volume Ansia e Idolatria (Inschibboleth, 2024). Bisogna ripristinare la cultura della prossimità, della vicinanza, del corpo e del silenzio.

 

Allora pensiamo a quella famiglia, che ora sembra non esistere più. Di fatto nessun membro di quella famiglia in prima battuta pare essere salvo, perché spazzato via dalla violenza che uccide la relazione e l’appartenenza. Come dice il filosofo Byung-chul Han, ci stiamo distaccando dalle cose e dalla loro appartenenza perché siamo alla ricerca di informazioni e di “like”, di azioni forti per sentirci vivi, perché si è perso il godere delle cose. Siamo nel tempo, per usare una espressione di Thomas Fuchs, del drammatico ed angosciante videor ergo sum: appaio quindi sono.

 

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https://www.ilsussidiario.net/news/strage-paderno-dugnano-cosa-fare-quando-manca-lio-e-laltro-diventa-nemico/2751178/#:~:text=CRONACA%20NERA-,STRAGE%20PADERNO%20DUGNANO/%20%E2%80%9CCosa%20fare%20quando%20manca%20l%E2%80%99io%20e%20l%E2%80%99altro%20diventa,storie%20da%20quell%27%20%22Abisso%22%20di%20misericordia%20che%20pu%C3%B2%20salvare%20i%20giovani,-CULTURA


martedì 10 settembre 2024

La Chiesa di Franz e l'educazione alla libertà

 


La Chiesa di Franz contro il nazismo, una storia di uomini liberi

 

La storia di Franz e Franziska Jägerstätter: così la fede li ha resi liberi di fronte al nazismo, che giustiziò il giovane contadino tedesco ora beato

Andrea Caspani Pubblicato 10 Settembre 2024

Il numero di Lineatempo di più recente pubblicazione costituisce per tanti aspetti un numero speciale: in primo luogo perché vuole accompagnare con i suoi contributi ed approfondimenti l’importante mostra Franz e Franziska, non c’è amore più grande del Meeting di Rimini 2024, che ha presentato al più ampio pubblico la luminosa esperienza di fede e di resistenza nonviolenta al regime nazista di questo giovane contadino austriaco, che verrà giustiziato il 9 agosto del 1943 e proclamato beato il 26 ottobre 2007.

 

Il dossier della rivista è intitolato Il primato della coscienza e la resistenza al nazismo e permette di allargare il quadro di riferimento storico della mostra e di approfondire alcuni temi di riflessione culturale fondamentali per comprendere meglio il senso dell’esperienza di Franz Jägerstätter, a nostro avviso preziosi per chi vuole vivere un’esperienza di pienezza umana nel cammino di fede anche nell’oggi.

 

Viene infatti presentata un’analisi ampia ed articolata della dinamica esistenziale che ha caratterizzato l’esperienza di Franz (ad opera del filosofo Sante Maletta) e poi un approfondimento sulla figura della moglie Franziska (di Erna Putz, biografa di Franz e amica personale di Franziska), che ha sempre sostenuto Franz e anche dopo la morte ha saputo vivere una intensa esperienza di fede.

 

Riflettere su Franz conduce poi a scoprire che in realtà Franz non era solo: sono migliaia le persone che nel mondo austro-tedesco hanno saputo vivere un’esperienza centrata sul primato della coscienza in rapporto con l’infinito e testimoniare che il valore della persona e l’amore alla verità erano superiori al fascino dell’ideologia nazista, come viene documentato da brevi presentazioni di alcune figure esemplari di resistenti non violenti.

 

Tutto questo porta poi a rimettere in discussione il diffuso pregiudizio che vuole la Chiesa cattolica complessivamente più accondiscendente verso il fascismo e il nazismo che verso il comunismo (combattuto da subito come “ateo e miscredente”) e impegnata in una battaglia in difesa della propria libertà organizzativa piuttosto che della libertà di tutti rispetto al potere soffocante dei totalitarismi, pertanto anteponendo alla testimonianza di Cristo la prudente difesa dei propri spazi sociali.

 

Il dossier documenta invece come la Chiesa nei suoi vertici istituzionali, ovvero con papa Pio XI e il segretario di Stato Pacelli, abbia saputo cogliere da subito la gravità e la pericolosità del tentativo del nazismo di costruire una nuova “religione secolare” alternativa al cristianesimo e l’abbia decisamente combattuto con le armi che aveva a disposizione, anche se questo non impedisce di riconoscere le luci e le ombre che hanno caratterizzato l’atteggiamento di alcune Chiese particolari e in special modo della Chiesa austriaca verso il nazismo.

Un ampio giro di riflessioni è dedicato anche alle prospettive culturali che scaturiscono dall’esperienza e dalla testimonianza cristiana di Franz e degli altri resistenti: il primato dello spirituale, il valore della coscienza morale e della libertà di coscienza, l’etica della responsabilità.

 

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https://www.ilsussidiario.net/news/letture-la-chiesa-di-franz-contro-il-nazismo-una-storia-di-uomini-liberi/2748696/#:~:text=STORIA-,LETTURE/%20La%20Chiesa%20di%20Franz%20contro%20il%20nazismo%2C%20una%20storia%20di,Falcone%22%20e%20quei%20misteri%20delle%20stragi%20che%20non%20sfuggono%20alla%20coscienza,-ULTIME%20NOTIZIE%20DI

lunedì 9 settembre 2024

SACHAROV, quando la coscienza cambia la storia

 


Sacharov, quando la coscienza cambia la storia

Una graphic novel racconta la storia di Sacharov: sviluppò la bomba atomica, poi si oppose al regime sovietico. È stato una pietra miliare

Vincenzo Rizzo Pubblicato 9 Settembre 2024

 

Ha amato la verità più di sé stesso, pagando un prezzo molto alto. Andrej Sacharov (1921-1989), geniale fisico teorico, ha testimoniato di fronte al mondo una coraggiosa resistenza etica al totalitarismo sovietico. La sua scelta della libertà e della giustizia è drammaticamente attuale e ci parla ancora oggi. Ksenija Novochat’ko in Andrej Sacharov. L’uomo che non aveva paura (Caissa Italia, 2023), tradotto da Tatiana Pepe, racconta la storia dello scienziato e intellettuale che ha segnato il destino dell’umanità “per anni o persino decenni”. L’autrice ha adottato la forma espressiva della graphic novel con l’intento di far conoscere il messaggio di verità di Sacharov alle giovani generazioni e al maggior numero di persone. Il libro di grande formato è stato illustrato da Eugenija Rajzman, Ol’ga Terechova, Polja Plavinskaja. Un contributo notevole è stato dato da Sergej Lukaševskij e dal Centro Sacharov di Mosca. Purtroppo, il 18 agosto 2023 il Tribunale di Mosca ha chiuso il Centro Sacharov, attivo nella difesa della dignità della persona e dei diritti umani, avvalendosi di un cavillo giuridico. Lo stesso tribunale pochi giorni prima aveva condannato Aleksej Naval’nyj alla pena di 19 anni di carcere.

 

Il Centro, particolarmente importante a livello culturale e sociale, conteneva il prezioso archivio dello scienziato e ospitava una mostra permanente sui dissidenti in URSS. Il luogo, frequentato da tanti cittadini e voluto da Elena Bonner, moglie di Sacharov, era stato già considerato “agente straniero” nel 2014, subendo restrizioni alle sue attività.

 

Nel testo di Novochat’ko viene raccontata la vita del padre della bomba atomica sovietica. Si tratta di una storia segnata dallo studio, ma soprattutto dal cambiamento e dall’obiezione di coscienza. Il primo Sacharov è convinto che la bomba atomica sovietica possa servire a mantenere un equilibrio necessario a evitare la guerra con gli USA. Lavora, perciò, con altri scienziati in un sito segreto per arrivare al risultato già raggiunto dagli americani.

 

Il 29 agosto 1949 viene testata la prima bomba sovietica e il 12 agosto 1953 ha successo anche l’esperimento con la prima bomba all’idrogeno.

 

Ma il 22 novembre 1955, dopo la riuscita del test della nuova terribile bomba RDS-37, quando viene fatto il primo brindisi proprio in onore di Sacharov, accade qualcosa. Lo scienziato sbianca e ammutolisce. Vede quello che tutti gli altri non vedono: la forza del potere atomico può sfuggire all’uomo. Tutto può finire per sempre, perché nessuno osa guardare fino in fondo la terribile realtà della bomba.

Tutti, politici e scienziati, sembrano giocati da un gioco folle che può far perdere l’io e distruggere l’umanità.

 

Tali convinzioni diventano certezze definitive con uno studio scientifico sugli effetti delle radiazioni. Lo scienziato giunge a calcoli e a statistiche impressionanti. I test nucleari hanno un impatto devastante sull’ambiente e sulle persone. Le radiazioni sprigionate dagli esperimenti uccidono lentamente centinaia di migliaia di persone. La potenza superomistica si abbatte su persone inconsapevoli di essere diventate cavie ignare. Malattie tumorali e genetiche, avvelenamento della biosfera, danni alle generazioni future sono le conseguenze inevitabili di un potere che resta impunito.

 

Sacharov è colpito dalla sua responsabilità personale e non vuole più stare al gioco. Inizia una rivoluzione copernicana dentro di sé, che avrà ben presto effetti dirompenti nel mondo sovietico. Nel 1964, l’anno cruciale della deposizione di Nikita Chruscëv voluta dai poteri forti, prende posizione contro l’elezione ad accademico delle scienze di Nikolaj Nuždin, protetto dal famigerato agronomo Trofim Lysenko, sostenitore in passato dell’unica scienza ammessa dal potere staliniano.

 

La sua voce si fa sentire con chiarezza e nettezza. Insieme ad altri scienziati si oppone con vigore alla candidatura di chi è stato responsabile della persecuzione di altri scienziati. La presa di parola del timido scienziato, in quella circostanza, è il preludio al radicale punto di svolta della sua vita. Nel 1966 esprime la sua stima nei confronti dei dissidenti Andrej Sinjavskij e Julij Daniel’, poi sottoscrive con altre personalità una lettera alle autorità contro la possibile riabilitazione di Stalin.

 

Due anni dopo, il suo maggio ’68 evidenzia quanto egli è diverso dai tanti intellettuali europei à la page. Lo scienziato non è, infatti, un soggetto anonimo nella folla di una manifestazione o un vezzeggiato protagonista da salotto, ma un uomo presente nella storia con la solitudine del coraggio. Favorevole alla Primavera di Praga, manda il suo articolo Considerazioni sul progresso, sulla pacifica coesistenza e la libertà intellettuale a Leonid Brežnev, non ricevendo risposta. Nel testo, poi fatto circolare come samizdat (18 milioni di copie di tiratura mondiale), lo scienziato scrive che la guerra nucleare può portare alla distruzione dell’umanità, e che per prevenire l’acuirsi dei conflitti tra le potenze è necessario il rispetto dei diritti dell’uomo sanciti dall’Onu.

 

Il geniale fisico, “Eroe del lavoro socialista”, inizia, così, a conoscere la perdita. Viene emarginato dal sistema e sospeso dal lavoro nel “Sito” di ricerca nucleare. Perde anche Klava Vichireva, la prima moglie, ammalatasi di tumore. Ma non si ferma, dà tutto senza riserve. Elargisce i risparmi di tutta la vita a un centro oncologico e si espone con coraggio per difendere e proteggere i dissidenti. Nel 1974, in occasione della visita di Richard Nixon a Mosca, fa uno sciopero della fame per denunciare la repressione del dissenso. Intellettuali e gente comune sono costretti alla sofferenza da un regime di mediocri che pensa solo ad autoperpetuarsi nel chiuso della nomenklatura. Nel 1975 la sua testimonianza straordinaria per la vita e la salvezza dell’umanità viene unanimemente riconosciuta con il Nobel per la pace, ritirato a Oslo dalla moglie. Nel 1980 denuncia al canale ABC News la gravità della guerra in Afghanistan con le morti, i massacri e il rischio di un allargamento della guerra.

 

Le sue prese di posizioni pubbliche hanno un impatto fortissimo. La voce autorevole di Sacharov influenza le coscienze non assopite dalla menzogna. Il potere sovietico decide, perciò, di esiliarlo e isolarlo a Gor’kij, attuale Nižnij Novgorod. Ma la voce dello scienziato, eroe dell’umanità, non si spezza e non si abbassa: diventa più forte. Il suo cuore di uomo autentico insorge contro l’ottusità dell’ingiustizia morale. Sacharov fa due scioperi della fame: uno per il diritto alla felicità, l’altro per il diritto alla vita. Nel primo chiede che la fidanzata del figlio della seconda moglie possa raggiungere la persona che ama negli Stati Uniti. Nel secondo, di ben 178 giorni, chiede che la moglie, gravemente malata, possa fare un complesso intervento cardiochirurgico all’estero, visto che in Urss le tecniche più efficaci non sono conosciute.

 

La sua testimonianza dolorosa colpisce il mondo intero. Nonostante le vessazioni e un piccolo infarto continua lo sciopero, finché viene costretto a nutrirsi con la forza. La sua resistenza morale suscita, tuttavia, il passo indietro: Elena Bonner ottiene il permesso per essere operata negli Usa.

 

(……)

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-sacharov-quando-la-coscienza-cambia-la-storia/2748369/#:~:text=RUSSIA-,LETTURE/%20Sacharov%2C%20quando%20la%20coscienza%20cambia%20la%20storia,Tags,-P.IVA%3A%2006859710961

 

 

 

 

 


venerdì 6 settembre 2024

VIAGGIO DEL PAPA IN INDONESIA

 


Jakarta, il Papa in moschea: mai cedere al fascino della violenza, sognare la fraternità

 

Nel suo terzo giorno in Indonesia, Francesco incontra il mondo islamico e lancia il forte invito a costruire tutti società aperte, isolare gli estremismi e a rafforzare i valori religiosi. La firma con il Grande Imam della Joint Declaration of Istiqlal 2024: “In essa assumiamo con responsabilità le gravi e talvolta drammatiche crisi che minacciano il futuro dell’umanità”

Francesca Sabatinelli – Città del Vaticano

 

Le religioni guardino “sempre in profondità”, laddove si trova veramente “ciò che unisce al di là delle differenze”, e poi abbiano cura dei legami, senza dover “cercare a tutti i costi dei punti in comune tra le diverse dottrine e professioni religiose”, ma piuttosto creando un collegamento tra le diversità. A Jakarta, in quella che è la Moschea più grande del sud-est asiatico, l’invito del Papa viene accolto dalla comunità musulmana nel corso di un appuntamento dettato dall’amicizia e dal comune “incontro con il Divino”. La Moschea di Istiqlal è teatro di un capitolo tra i più intensi della tappa indonesiana del viaggio di Francesco, l’incontro interreligioso, la firma con il Grande Imam Nasaruddin Umar della “Joint Declaration of Istiqlal 2024” e la visita al Tunnel dell’Amicizia.

Il comune cammino verso la luce

Ed è davanti al Tunnel che collega la Moschea alla Cattedrale di Nostra Signora dell’Assunzione, simbolo di fraternità tra le religioni, nel centro della capitale, che Francesco, in un saluto, pronuncia le prime parole di riconoscimento del comune cammino che la società indonesiana compie “verso la piena luce”. Un percorso che avviene anche grazie a tale passaggio sotterraneo, illuminato dall’amicizia, dalla concordia e dal reciproco sostegno.

Ai tanti segnali di minaccia, ai tempi bui, contrapponiamo il segno della fratellanza che, accogliendo l’altro e rispettandone l’identità, lo sollecita a un cammino comune, fatto in amicizia, e che porta verso la luce.

Isolare fondamentalismi e estremismi

Il passo del Corano cantato da una giovane non vedente, introduce all’incontro, sotto un tendone all’esterno della Moschea, che il Papa definisce “grande casa per l’umanità”, dove si respirano la storia e la cultura indonesiane e la capacità di fare sì, spiega Francesco nel suo discorso, che “l’esperienza religiosa sia punto di riferimento di una società fraterna e pacifica e mai motivo di chiusura e di scontro”.

Vi incoraggio a proseguire su questa strada: che tutti, tutti insieme, ciascuno coltivando la propria spiritualità e praticando la propria religione, possiamo camminare alla ricerca di Dio e contribuire a costruire società aperte, fondate sul rispetto reciproco e sull’amore vicendevole, capaci di isolare le rigidità, i fondamentalismi e gli estremismi, che sono sempre pericolosi e mai giustificabili.

 

Le religioni guardino in profondità

Francesco lascia quindi due consegne “per incoraggiare il cammino dell’unità e dell’armonia”, la prima delle quali è il “guardare sempre in profondità, perché solo lì si può trovare ciò che unisce al di là delle differenze”.

Gli aspetti visibili delle religioni – i riti, le pratiche e così via – sono un patrimonio tradizionale che va tutelato e rispettato; ma ciò che sta “sotto”, quello che scorre in modo sotterraneo, proprio come il “tunnel dell’amicizia”, potremmo dire la radice comune a tutte le sensibilità religiose è una sola: la ricerca dell’incontro con il divino, la sete di infinito che l’Altissimo ha posto nel nostro cuore, la ricerca di una gioia più grande e di una vita più forte di ogni morte, che anima il viaggio della nostra vita e ci spinge a uscire dal nostro io per andare incontro a Dio.

Avere cura dei legami

Ad uno sguardo che vada in profondità per scoprirsi tutti fratelli e pellegrini in cammino verso Dio al di là delle differenze, deve seguire il secondo punto, “l’avere cura dei legami” creando un collegamento tra le diversità e coltivando amicizia, al di là della diversità di dottrine e dogmi, perché “cercare a tutti i costi dei punti in comune tra le diverse dottrine e professioni religiose” in realtà può dividere.

Sono relazioni in cui ciascuno si apre all’altro, in cui ci impegniamo a ricercare insieme la verità imparando dalla tradizione religiosa dell’altro; a venirci incontro nelle necessità umane e spirituali. Sono legami che ci permettono di lavorare insieme, di marciare uniti nel perseguire qualche obiettivo, nella difesa della dignità dell’uomo, nella lotta alla povertà, nella promozione della pace. L’unità nasce dai vincoli personali di amicizia, dal rispetto reciproco, dalla difesa vicendevole degli spazi e delle idee altrui. Che possiate sempre avere cura di questo!

 

Sconfiggere violenza e indifferenza

I fedeli tutti sono chiamati a “promuovere l’armonia religiosa per il bene dell’umanità”, titolo della Dichiarazione congiunta con la quale il Papa e il Grande Imam, firmandola, si impegnano a seguire tale ispirazione.

In essa assumiamo con responsabilità le gravi e talvolta drammatiche crisi che minacciano il futuro dell’umanità, in particolare le guerre e i conflitti, purtroppo alimentati anche dalle strumentalizzazioni religiose, ma anche la crisi ambientale, diventata un ostacolo per la crescita e la convivenza dei popoli. E davanti a questo scenario, è importante che i valori comuni a tutte le tradizioni religiose siano promossi e rafforzati, aiutando la società a «sconfiggere la cultura della violenza e dell’indifferenza» e a promuovere la riconciliazione e la pace.

Il congedo del Papa è il ringraziamento ad un “grande Paese”, animato da una diversità di etnie, culture e tradizioni religiose e dal prezioso dono di una “volontà che le differenze non diventino motivo di conflitto ma si armonizzino nella concordia e nel rispetto reciproco”. L’appello è quindi quello a non cedere “al fascino dell’integralismo e della violenza”, quanto piuttosto “dal sogno di una società e di un’umanità libera, fraterna e pacifica!”

(….)

https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2024-09/papa-indonesia-viaggio-moschea-dichiarazione-islam.html#:~:text=Nel%20suo%20terzo,benvenuto%20a%20cercare


lunedì 2 settembre 2024

CRISTIANI PERSEGUITATI

 

CRISTIANI PERSEGUITATI/ Jihad o Charlie Hebdo, all’intolleranza si aggiunge la congiura del silenzio

 


L’ultimo episodio è nel Burkina Faso, con 150 persone uccise. Ma la persecuzione dei cristiani non è solo in Africa. Ed è anche culturale

Andrea Mobiglia Pubblicato 2 Settembre 2024

 

Il 24 agosto il Burkina Faso è stato teatro dell’ultimo episodio di violenza a sfondo religioso, in cui hanno perso la vita anche numerosi cristiani. L’attacco ha fatto più di 150 vittime, tra cui appunto 22 cristiani ed è uno dei più sanguinosi nella storia del Paese, che ha iniziato a conoscere tali scontri a partire dal 2015, quando si è manifestata nel territorio la presenza jihadista. Tale attacco è stato il terzo subìto in circa 20 giorni, dopo quelli compiuti nella provincia di Nayala (4 agosto), con il rapimento di più di 100 uomini, non ancora ritrovati, e attacchi nei villaggi di Mogwentenga e Gnipiru (20 agosto), che hanno fatto scappare la popolazione.

 

Il fenomeno dell’attacco alla libertà religiosa è purtroppo dilagante nel continente africano e non solo, con numerosi scontri e spargimenti di sangue. Come è possibile constatare dai report redatti da Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), la persecuzione ai danni dei cristiani ha raggiunto ormai da anni dimensioni globali. Il caso più famoso dell’ultimo anno, anche per le implicazioni diplomatiche e la vicinanza agli Stati Uniti, riguarda il Nicaragua, ma non vanno dimenticate altre situazioni, come Afghanistan, Corea del Nord, Iraq, Iran, Nigeria ecc.

 

La libertà religiosa, definita come diritto fondamentale dalla recente Dignitas infinita (n. 31) pubblicata dal Dicastero per la dottrina della fede, è stata dichiarata dal Concilio Vaticano II come un diritto che “non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura” (Dignitatis Humanae, n. 2), un diritto cioè inalienabile e intrinseco dell’uomo. Purtroppo, la libertà religiosa rimane a rischio in varie parti del mondo, basti pensare che attualmente sono circa 365 milioni i cristiani perseguitati nel mondo, facendo così del cristianesimo la religione più perseguitata (“ci sono più martiri oggi che nei primi secoli”, Papa Francesco). Un dato non certo nuovo ed in costante crescita.

 

Non si tratta solamente di attacchi terroristici in zone lontane dal mondo occidentale, quasi che l’argomento riguardasse, a un occhio superficiale, esclusivamente realtà del Terzo Mondo o Paesi oppressi da dittature (come i già citati Nicaragua, Afghanistan e Corea del Nord, anche se l’elenco non è purtroppo esaustivo). Al contrario l’intolleranza religiosa ha varie applicazioni, a volte più violente, altre più fini e travestite di cultura, che il Santo Padre ha più volte definito come “colonizzazioni ideologiche e culturali” (Francesco, 21 novembre 2017), una specie di persecuzione “educata, travestita di cultura, modernità e progresso che finisce per togliere all’uomo la libertà, anche all’obiezione di coscienza” (Francesco, 12 aprile 2016). Queste ultime tipologie in particolare avvengono in Occidente, basti pensare a tutta la questione dell’ideologia woke o alla grande questione antropologica di questi anni.

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https://www.ilsussidiario.net/news/cristiani-perseguitati-jihad-o-charlie-hebdo-allintolleranza-si-aggiunge-la-congiura-del-silenzio/2746221/#:~:text=CHIESA-,CRISTIANI%20PERSEGUITATI/%20Jihad%20o%20Charlie%20Hebdo%2C%20all%E2%80%99intolleranza%20si%20aggiunge%20la%20congiura,Gesti%20non%20solo%20inappropriati%20e%20irrispettosi%2C%20ma%20soprattutto%20che%20fanno%20male.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94