mercoledì 8 maggio 2024

Vittadini : il contributo dell'Europa


 

Per avere un ruolo nella realtà internazionale, l'Ue deve correggere i suoi errori e tornare allo slancio ideale dei Padri fondatori. Non certo ripiegare sul sovranismo dei piccoli Stati-nazione

Quali speranze, dopo tanti anni di promessa, integrazione e reale unità politica, possono venire dall'Europa e dalle prossime elezioni di giugno? Partiamo da una considerazione positiva. Gli anni della pandemia da Covid sono stati sofferti particolarmente in Italia e anche in Europa. E la sofferenza drammatica non è stata circoscritta alla malattia e alla conta dei morti. In quel lungo frangente di difficoltà l'Europa ha dimostrato di saper reagire, con la maggioranza dei suoi cittadini che ha seguito le indicazioni degli esperti.

È proprio dopo la pandemia, che l'Unione Europea ha in parte sospeso i parametri di Maastricht e con il NextGenerationEu ha creato un nuovo safe asset di debito comune, dimenticando i particolarismi nazionali e prendendo atto di una situazione continentale che riguardava l'intero popolo europeo. Dalla sofferenza è nata una grande speranza. A questo punto, di fronte ai conflitti, che sono ricomparsi in questi tempi in modo nefasto, gli europei sono di fronte a una domanda non rinviabile. Si deve decidere se si vuole continuare a essere un parziale mercato economico, unito e connesso, ma senza peso politico, o se si ritiene utile diventare un polo politico ed economico capace di giocare un ruolo autonomo nella nuova realtà internazionale: la risposta da dare e attuare non potrà mai essere il ritorno ai piccoli Stati nazione.

Purtroppo le istituzioni dell'Unione Europea, dopo la parentesi della risposta alla pandemia, sono rimaste vincolate a una serie di errori che già erano arrivati negli anni 90, con una globalizzazione mal gestita e contraddittoria, con delle istituzioni che non sembrano affatto garantire la reale rappresentanza del popolo europeo, senza una Costituzione, senza altre forme di reale integrazione, con il diritto di veto di un Paese che può bloccare una grande comunità e con l'ingresso nel 2004 di tanti Paesi di differente storia e cultura diversa da quella dei fondatori.

Così l'Unione ha seguito una strada sbagliata trovandosi come un agglomerato di Paesi legati debolmente per affrontare i grandi problemi internazionali. Il vero problema per questa svolta è di metodo: di fronte a questo basso profilo europeo, aggregazioni sociali e corpi intermedi, da cui nascono anche i partiti, devono cominciare a svolgere la loro funzione di "comunità pensanti", le uniche in grado di ricostruire la forza del pensiero e la capacità critica che è il "sale" della democrazia. Anche gli Stati nazionali devono tendere a diventare "comunità pensanti" assumendosi il compito di collegare l'Europa alle comunità nazionali.

D'altro canto non si parte da zero: queste "comunità pensanti", collaborando con le istituzioni europee, hanno migliorato la nostra vita quotidiana in tanti aspetti, di cui ci dimentichiamo, secondo una cultura sussidiaria. Gli studenti che girano per l'Erasmus, i progetti comuni di ricerca per le università, la libera circolazione di persone e merci, le collaborazioni sistematiche tra imprese, i progetti e gli ideali comuni tra corpi intermedi, soprattutto una cultura per la pace voluta dalla maggioranza dei cittadini. Questi sono esempi gratificanti.

Ora, questi esempi devono moltiplicarsi e guidare i rapporti tra le istituzioni, le formazioni sociali e i cittadini. Il principio fondamentale della sussidiarietà stabilisce una relazione virtuosa tra diversi soggetti di un sistema-Paese. Spingendoli a dare il meglio di loro: le persone a concepirsi come "comunitarie" e non solo come individui consumatori; la società ad auto-organizzarsi, grazie al costituirsi di luoghi, aggregazioni, comunità; lo Stato a sostenere la società nel dare risposte e a intervenire laddove non emergano. Ecco l'autentico "motore" verticale e orizzontale di una società democratica.

In definitiva, l'Europa deve sapere riparare ai suoi errori, deve rivedere le tappe fondamentali del suo percorso iniziato tra le rovine del Secondo dopoguerra, per conto di uomini che hanno saputo interpretare in modo encomiabile il loro tempo e hanno dato una prospettiva a questo continente. In una condizione politica mondiale di grande tensione, con guerre in corso e la prospettiva che i conflitti regionali possano diventare globali, oggi una nuova classe dirigente, dopo aver ripensato alla storia dell'Unione Europea, deve ritornare allo slancio ideale dei Padri fondatori.

Questo è il momento di ritornare a sentirsi veramente europeisti e creare non solo istituzioni funzionali, ma aiutare tutto un popolo a sentirsi europeo.

Per gentile concessione de Il Sole 24 Ore

https://www.sussidiarieta.net/cn4203/come-aiutare-tutto-un-popolo-a-sentirsi-veramente-europeo.html#:~:text=Quali%20speranze%2C%20dopo%20tanti%20anni%20di%20promessa%2C%20integrazione%20e%20reale%20unit%C3%A0%20politica%2C%20possono%20venire%20dall%27Europa%20e%20dalle%20prossime%20elezioni%20di%20giugno%3F%20Partiamo%20da%20una%20considerazione%20positiva.%20Gli%20anni%20della%20pandemia%20da%20Covid

martedì 7 maggio 2024

Volantino della Compagnia delle Opere in occasione delle elezioni europee

 


EUROPA. PER LA PACE, UN ORIZZONTE IDEALE

Il progetto europeo alla prova dei conflitti, del deficit democratico e del progresso tecnologico. Il contributo della Compagnia delle Opere in vista delle Elezioni Europee
L’Europa smarrita
L’Unione Europea sta attraversando una fase di difficoltà cominciata con le recenti crisi finanziarie e poi accentuata dalla pandemia e dalla crescente concorrenza globale.
La mancanza di crescita equa tra gli Stati membri mina la sua autorevolezza, mentre i conflitti in atto ne mettono a rischio la stabilità.
Le domande sul ruolo dell’UE, sulla sua identità e sulle principali questioni aperte (tra le quali: transizione energetica e sostenibilità, natalità, welfare e immigrazione, armonizzazione fiscale tra i Paesi membri, politica estera e difesa, temi etici e tecnologia, deficit democratico delle istituzioni) toccano la quotidianità dell’intero sistema economico-sociale: dalle imprese ai singoli cittadini. Ma sarebbe astratto affrontarle senza partire dall’urgenza che oggi più di tutte rischia di mettere in pericolo l’intero progetto.

L’urgenza della pace
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https://it.clonline.org/news/attualit%C3%A0/2024/04/24/Volantino-CdO-Europa#:~:text=EUROPA.%20PER%20LA,L%E2%80%99urgenza%20della%20pace

APERTURA FASE TESTIMONIALE DELLA CAUSA DI BEATIFICAZIONE DI MONS.LUIGI GIUSSANI

 


DON GIUSSANI, L'EDITTO DELL'ARCIVESCOVO DI MILANO

In vista della prima sessione pubblica della Fase testimoniale del 9 maggio, pubblichiamo il testo in cui monsignor Delpini invita gli interessati a fornire notizie documentate e veritiere per la migliore conoscenza del fondatore di CL
A tutti i fedeli della Diocesi Ambrosiana e a tutte le persone di buona volontà

Carissimi,
il prossimo Giovedì 9 maggio 2024 alle ore 17.00 presso la Basilica di Sant’Ambrogio in Milano presiederò la prima Sessione dell’Inchiesta Diocesana per la Beatificazione e la Canonizzazione del Servo di Dio, mons. Luigi Giussani, sacerdote ambrosiano.

Nato a Desio il 15 ottobre 1922; fu ordinato presbitero il 26 maggio 1945 dal Beato Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, che lo incaricò dell’insegnamento della Teologia nel nostro Seminario Arcivescovile di Venegono Inferiore.

Sacerdote appassionato ed entusiasta, insieme all’insegnamento nel Seminario, si dedicò all’animazione pastorale e ai giovani dell’Azione Cattolica Italiana, soprattutto quelli di Gioventù Studentesca, tra i quali portò freschezza di iniziative e nuove intuizioni, che lo coinvolsero sempre di più, tanto che chiese di lasciare l’insegnamento in Seminario per potersi dedicare pienamente alla formazione giovanile, iniziando ad insegnare religione al Liceo Berchet di Milano, ove suscitò subito la risposta entusiasta degli studenti. Seguirono nuove iniziative, nuove intuizioni, nuove proposte, che coinvolsero sempre più numerosi giovani e adulti, dando vita al Movimento di Comunione e Liberazione, che ha segnato la storia della Chiesa ambrosiana e italiana, in anni non privi di turbolenze e contrasti. Il Movimento germogliò diversi e fecondi frutti e si è esteso ormai in tutta la Chiesa, sempre custodendo il cuore della proposta originaria, che ci riporta alle parole del nostro massimo Patrono, sant’Ambrogio: «Cristo è tutto per noi».

LEGGI IL DOCUMENTO UFFICIALE DELL'EDITTO

Morì il 22 febbraio 2005 circondato da autentica fama di santità, che non si è spenta nel tempo, anzi si è accresciuta e sulla quale ora dobbiamo riflettere di fronte a Dio.

Pertanto, conformemente alle indicazioni della Santa Sede, contenute nell’articolo 43 dell’Istruzione Sanctorum Mater, invito chiunque lo voglia a fornirmi notizie documentate e veritiere utili per la migliore conoscenza del Servo di Dio, della sua vita, dei suoi atti, della sua spiritualità, dei suoi frutti.

Tali notizie potranno essere inviate a me direttamente o ai miei collaboratori del Servizio delle Cause dei Santi della nostra Diocesi, presso la Curia Diocesana in Piazza Fontana 2 in Milano.

Il Signore aiuti tutti noi a porci in ascolto della Sua voce e della Sua volontà e ci doni – se questo Egli desidera – di arricchire la schiera dei santi Preti ambrosiani, annoverando tra loro anche don Luigi Giussani, per il bene della nostra Chiesa e del Movimento di Comunione e Liberazione.

monsignor Mario Enrico Delpini
Arcivescovo di Milano


da www.chiesadimilano.it 

L'editto di monsignor Delpini (Foto Unsplash/Sofi)L'editto di monsignor Delpini (Foto Unsplash/Sofi)

venerdì 3 maggio 2024

Mostra : DA SOLO NON BASTO

 


Da solo non basto

In viaggio con i ragazzi di Kayros, Portofranco e Piazza dei Mestieri

La Comunità Educativa La Perla di Monte Sant’Angelo presenta la mostra Da solo non basto, realizzata per il Meeting di Rimini 2023, che si sviluppa a partire dalla narrazione delle storie di un ragazzo e di una ragazza: dieci grandi quadri mettono in scena la loro vicenda, resa in forma poetica dallo scrittore Daniele Mencarelli e accompagnata dalle immagini dell’illustratore Giacomo Bettiol.

Sono storie che raccontano di infanzie difficili, fallimenti scolastici, cadute e tentativi di ripartenza, disillusione di fronte a un mondo adulto che sembra incapace di cogliere le domande che sbocciano nel cuore dei giovani.
L’incontro con alcune realtà educative – KayrosPortofranco Piazza dei Mestieri – apre spiragli di luce e fa intravedere una strada in cui l’umano, con tutte le sue contraddizioni e i suoi desideri, può venire abbracciato e valorizzato, in cui ragazzi e adulti si accompagnano nel cammino di (ri)scoperta del proprio valore e dei propri talenti.

Cuore della mostra è un video con le parole di alcuni giovani che in queste tre realtà hanno trovato la possibilità di una rinascita umana, scolastica, professionale. Hanno trovato luoghi in cui ci si può sentire finalmente a casa.
Nasce così un cambiamento nello sguardo, quando si arriva a percepire che l’uno è importante per l’altro, che da solo non basto, come recita il titolo della mostra.

PRESENTAZIONE DELLA MOSTRA
Sabato 18 Maggio alle ore 18:30 presso l’auditorium “Bronislao Markiewicz”, ci sarà la presentazione della mostra con interventi di
Giovanni Iovinellaarchitetto e volontario presso l’Istituto Penale per Minori di Nisida (Napoli)
don Emanuele Granatiero.

ESPOSIZIONE MOSTRA
Salone Multimediale – atrio superiore della Basilica San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo.
Visita gratuita dal pomeriggio del 13 Maggio fino al 28 Maggio 2024. Ore 9:00-13:00 e ore 16:00-20:00.

ULTERIORI INFORMAZIONI
Tel: 349.5701982
Mail prenotazioni: infoprenmostra@gmail.com

giovedì 2 maggio 2024

Lectio Magistralis del Cardinale Pizzaballa sulla pace

 

Pizzaballa: tempi lunghi per una vera pace. Far dialogare perdono, verità e giustizia




Alla Lateranense, lectio magistralis del patriarca di Gerusalemme: "Bisogna lavorare per il cessate il fuoco come primo passo verso altre prospettive di carattere politiche che però sono tutte da costruire". Il cardinale parla di debolezza della comunità internazionale ed esorta le religioni a non "gettare benzina sul fuoco": servono testimoni credibili e onesti, è nel Vangelo che si trovano tutti i criteri per costruire la pace

Antonella Palermo - Città del Vaticano

All’indomani della presa di possesso della parrocchia di Sant’Onofrio a Roma, il patriarca di Gerusalemme, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, tiene una lectio magistralis organizzata dalla Pontificia Università Lateranense sul tema “Caratteri e criteri per una pastorale della pace”, un incontro particolarmente sentito anche per l’affiliazione dell’Istituto di Studio Teologico del Patriarcato Latino di Gerusalemme con la Facoltà di Teologia della PUL, un legame tra Roma e Gerusalemme di “fondamentale importanza per la Chiesa di oggi”, osserva il patriarca.

A margine del suo articolato intervento, sostando alcuni momenti con i giornalisti, ha precisato che "una pace vera e duratura richiederà tempi lunghi. Adesso bisogna lavorare per il cessate il fuoco come primo passo verso altre prospettive di carattere politiche che però sono tutte da costruire, sono tutte un po’ campate in aria". Ha inoltre ribadito che "è molto difficile individuare percorsi, prospettive finché il conflitto è in corso". Ha sostenuto la necessità della liberazione degli ostaggi israeliani e di almeno alcuni prigionieri palestinesi e "poi si vedrà". I cristiani, ha aggiunto, possono creare spazi dove organismi, istituzioni, politici e religiosi possono ritrovarsi. E la Chiesa è impegnata a creare premesse e contesti di facilitazione. Aspetto, questo, che è stato il cuore della relazione di fronte a una assemblea di studenti, ecclesiastici, operatori, uomini e donne impegnate per la pace. Tra i presenti anche padre Francesco Patton, Custode di Terra Santa.

La Terra Santa sanguina, la pace si chiede con umiltà

“Quanto sta avvenendo in Terra Santa è una tragedia senza precedenti”, esordisce Pizzaballa. “Oltre alla gravità del contesto militare e politico, sempre più deteriorato, si sta deteriorando anche il contesto religioso e sociale”, osserva. “Il solco di divisione tra comunità, i pochi ma importanti contesti di convivenza interreligiosa e civile si stanno poco alla volta disgregando, con un atteggiamento di sfiducia che invece cresce ogni giorno di più. Un panorama desolante”. Il porporato spiega che elementi di speranza non mancano ma che si deve “realisticamente riconoscere che si tratta di realtà di nicchia e che il quadro generale resta molto preoccupante”.

Il termine pace “sembra essere oggi una parola lontana, utopica e vuota di contenuto, se non oggetto di strumentalizzazione senza fine”, sottolinea Pizzaballa. Sia in ebraico che in arabo esprime “pienezza di vita”, un approccio integrale. “Non è quindi solo una costruzione umana o un traguardo dell’umana convivenza, quanto piuttosto una realtà che viene da Dio e dalla relazione con lui”. Chi evangelizza, ricorda il cardinale, annuncia la pace anche ai nemici, proprio come fece Pietro a Cornelio, che era centurione delle forze militari che occupavano la sua terra. Si sofferma, Pizzaballa, su un tratto che dovrebbe caratterizzare chi chiede la pace: “essere consci della propria debolezza”: se non si va incontro all’altro zoppicando, insiste, si rischia di aprire costanti scenari di guerra, perché “l’altro non è più un altro me stesso, ma un nemico, da temere o da eliminare”.

Sua Beatitudine, il cardinale Pierbattista Pizzaballa
Sua Beatitudine, il cardinale Pierbattista Pizzaballa

Per la pace essere disposti a morire, come Gesù

Pizzaballa chiarisce cosa non è la pace: “non è solo convenzione sociale, armistizio, mera tregua o assenza di guerra, frutto degli sforzi diplomatici e degli equilibri geopolitici globali o locali, che in Terra Santa stanno purtroppo saltando!”. Descrive i contorni della pace che sono molto più vasti, e cita Sant’Agostino, perché “si fonda sulla verità della persona umana”. È necessario rimettere l’uomo al centro, tornare al volto dell’altro, alla centralità della persona umana e della sua ineguagliabile dignità. “Quando il volto dell’altro si dissolve – precisa - svanisce anche il volto di Dio e quindi la vera pace”. E poi chiosa: “Per la pace si deve rischiare, sempre. Si deve essere disposti a perdere l’onore, a morire come Gesù”. Ammettendo che la pace in Terra santa sarà sempre un work in progress, il Patriarca rammenta che per la “Chiesa di Terra Santa, calata in un contesto di società plurireligiosa e pluriculturale, ricca di tante diversità ma anche di divisioni, la «pace di Gerusalemme», di cui parla il salmo 121, non è soppressione delle differenze, annullamento delle distanze ma nemmeno tregua o patto di non belligeranza garantito da patti e da muri”. Pizzaballa è convinto che la comunità è chiamata ad essere “strada aperta su cui la paura e il sospetto cedano il passo alla conoscenza, all'incontro e alla fiducia, dove le differenze siano opportunità di compagnia e collaborazione e non pretesto per la guerra”.

Testimoni onesti e credibili, non è un tema banale

“Dovremo sempre più uscire dalla preoccupazione di occupare strutture fisiche e istituzionali, per concentrarci maggiormente su dinamiche belle e buone di vita che, come credenti, possiamo avviare”, sostiene ancora il cardinale Pizzaballa. “In un contesto sociale e politico dove la sopraffazione, la chiusura e la violenza sembrano l’unica parola possibile, noi continueremo ad affermare la via dell’incontro e del rispetto reciproco come l’unica via d’uscita capace di condurre alla pace”. E aggiunge: “La pace ha bisogno della testimonianza di gesti chiari e forti da parte di tutti i credenti, ma ha anche bisogno di essere annunciata e difesa da parole altrettante chiare”.

Evitare di entrare in logiche di competizione e di divisione: questa è la principale raccomandazione del patriarca. “Il nostro stare in Terra Santa come credenti non può rinchiudersi in intimismo devozionale, né può limitarsi solamente al servizio della carità per i più poveri, ma è anche parresìa”. E insiste che l’opzione preferenziale per i poveri e i deboli, però, non deve scivolare in un partito politico.

La leadership religiosa diventi voce libera e profetica

Nel suo intervento, Pizzaballa chiama in causa la responsabilità della leadership religiosa, specialmente in Medio Oriente, che, dice, è essenziale. E indica alcune priorità: la leadership religiosa dovrebbe, sostiene il cardinale, prima di tutto cooperare con tutta la parte migliore della società nel creare una nuova cultura della legalità, e diventare una voce libera e profetica di giustizia, diritti umani e pace. Considerando che non ci si può mai adagiare, soprattutto nel contesto della Terra santa, Pizzaballa torna a dire della importante funzione pubblica della religione. “Non di rado politica nazionale e religione si trovano oggi sul banco degli imputati, accusate del male odierno, o di incapacità, di arretratezza, e così via”, sottolinea precisando che la fede religiosa ha un ruolo fondamentale nel ripensamento delle categorie della storia, della memoria, della colpa, della giustizia, del perdono. “Non si supereranno i conflitti interculturali se non si rileggono e si redimono le letture diverse e antitetiche delle proprie storie religiose, culturali e identitarie. Le ferite causate nel passato remoto e recente, come pure quelle attuali, se non sono curate, assunte, elaborate, condivise, continueranno a produrre dolore anche dopo anni o addirittura secoli”.

Le religioni non siano benzina gettata sul fuoco

Il cardinale auspica la collaborazione delle altre Chiese e delle altre comunità religiose, mettendo in guardia sul fatto che se le religioni diventano funzionali alla lotta politica, come spesso accade in Terra Santa, “diventano come benzina gettata sul fuoco”. Si sofferma sul valore del dialogo interreligioso che, se è autentico, crea mentalità di pace. Poi lamenta che esso “non potrà essere più come prima, almeno tra cristiani, musulmani ed ebrei”. E fa alcuni esempi: “il mondo ebraico non si è sentito sostenuto da parte dei cristiani e lo ha espresso in maniera chiara. I cristiani a loro volta, divisi come sempre su tutto, incapaci di una parola comune, si sono distinti se non divisi sul sostegno ad una parte o all’altra, oppure incerti e disorientati. I musulmani si sentono attaccati, e ritenuti conniventi con gli eccidi commessi il 7 ottobre… Insomma dopo anni di dialogo interreligioso, ci siamo ritrovati a non intenderci l’un l’altro. È per me, personalmente, un grande dolore, ma anche una grande lezione”.

In ascolto della lectio magistralis del Patriarca di Gerusalemme, nell'Aula Paolo VI della Pontificia Università Lateranense
In ascolto della lectio magistralis del Patriarca di Gerusalemme, nell'Aula Paolo VI della Pontificia Università Lateranense

Purificare la memoria, la pace è legata al perdono

Pace e perdono sono strettamente interconnessi. Non si può avere tutto e subito: “la riflessione sul perdono richiede tempi lunghi”. E sottolinea che “si devono prendere in considerazione le ferite collettive, il dolore di tutti”. Purificare la memoria è fondamentale: “Finché non vi sarà una rilettura delle proprie relazioni storiche, le ferite del passato continueranno ad essere un bagaglio da portare sulle proprie spalle e un criterio di lettura delle relazioni reciproche”. Occorre, in questa prospettiva, una vera formazione culturale in ogni ambito. Così si potranno riattivare dinamiche di vita. A questo proposito, Pizzaballa constata che “tutti gli accordi di pace in Terra Santa, finora, sono di fatto falliti, perché erano spesso accordi teorici, che presumevano di risolvere anni di tragedie senza tenere in considerazione l’enorme carico di ferite, dolore, rancore, rabbia che ancora covava e che in questi mesi è esploso in maniera estremamente violenta. Non si è tenuto conto, inoltre, del contesto culturale e soprattutto religioso, che invece parlava una lingua esattamente contraria (a cominciare dai leader religiosi locali) da quella di chi parlava di pace”.

Il perdono mai disgiunto da verità e giustizia

Laconico è Pizzaballa su un punto cruciale: “il perdono non può essere disgiunto da due altre parole: verità e giustizia”. Aggiunge che nessuna ideologia potrà tenerle insieme, ma solo l’amore. E ricorda che da decenni in Terra Santa c’è l’occupazione israeliana dei territori della Cisgiordania, “con tutte le sue drammatiche conseguenze sulla vita dei palestinesi e anche degli israeliani”. Parla dell’ingiustizia come della prima e più visibile conseguenza di questa situazione politica. Parla del mancato riconoscimento di diritti basilari, di sofferenza nella quale vive la popolazione palestinese in Cisgiordania. “È un’oggettiva situazione di ingiustizia”.

“Mantenere la comunione tra i cattolici palestinesi e israeliani, in questo contesto lacerato e polarizzato, è quanto mai arduo”, osserva il cardinale che fa costante riferimento alla sua personale esperienza sul campo, guardando i volti e le macerie. C’è un modo cristiano di stare dentro un conflitto, afferma, ricordando una lettera alla diocesi inviata qualche mese fa, in cui c’è l’invito ad avere coraggio per la giustizia. Invoca un linguaggio creativo, che dia vita, crei prospettive, apra orizzonti. Insomma, Pizzaballa esorta ad attuare “una pastorale ecclesiale che sappia porre questi tre elementi in continuo, difficile, doloroso, complesso, lacerante, faticoso dialogo tra loro”.

La crisi degli organismi multilaterali

In conclusione, il patriarca di Gerusalemme esprime con dolore che in Terra Santa si assiste alla “crisi crescente degli organismi multilaterali, come ad esempio l’ONU, sempre più impotente e, per molti, ostaggio delle grandi potenze (basti pensare i vari poteri di veto). La comunità internazionale è sempre più debole, e così i vari altri organismi internazionali”. Il suo lungo intervento alla Lateranense si chiude con la denuncia della mancanza di “riferimenti politici e sociali capaci di porre gesti nel territorio che costruiscano fiducia, capaci di scelte coraggiose di pace, di negoziare riconciliazioni, di accettare i necessari compromessi”. Mette in guardia infine dalla facile tentazione per gli operatori pastorali di sostituirsi a quegli organismi, sebbene le pressioni siano sempre più insistenti. La pastorale della pace, conclude, ha solo il Vangelo come riferimento.

I cristiani di Gaza: situazione complessa ma si tengono vivi

Nello spazio dedicato al dibattito nell'Aula Paolo VI dell'ateneo pontificio, il cardinale ha avuto poi modo di descrivere brevemente la condizione dei rifugiati a Gaza e di aggiornare il numero di coloro che sono attualmente nelle parrocchie cristiane: 462 persone nella parrocchia latina e 208 in quella ortodossa. "Rispetto ai primi mesi di guerra la situazione è più calma - racconta il Patriarca - i viveri cominciano ad arrivare, si comprano soprattutto al mercato nero, ma almeno ci sono. Hanno preso tutti casa, si stanno diffondendo malattie, mancano medicinali. La situazione è molto complessa però si tengono vivi, sono bravi. Il Papa è molto presente sia con telefonate che con il sostegno in aiuti". 


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https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2024-05/pizzaballa-patriarca-lectio-pace-lateranense-gerusalemme.html#:~:text=Pizzaballa%3A%20tempi%20lunghi%20per%20una%20vera%20pace.%20Far%20dialogare%20perdono%2C%20verit%C3%A0%20e%20giustizia

sabato 27 aprile 2024

Il 25 aprile

 


L'analisi. Il 25 aprile, De Gasperi, e le occasioni mancate

Il 25 aprile, De Gasperi, e le occasioni mancate

Angelo Picariello

giovedì 25 aprile 2024

 

Alla vigilia della Festa della Liberazione, su iniziativa della Fondazione De Gasperi, al cimitero del Verano è stato reso omaggio al monumento funebre dello statista democristiano. Una cerimonia semplice, che ci consente di ricordare oggi – nel pieno di una polemica altamente divisiva – che fu lui, con regio decreto del 22 aprile 1946, da primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata, a formalizzare la proposta di istituire la festa del 25 aprile, e da quale spirito fosse animato. Il presidente della Fondazione Angelino Alfano ha citato l’intervento di De Gasperi al congresso dei comandanti partigiani: «Si devono lasciare cadere i risentimenti e l’odio.

Si deve perdonare», disse. Un auspicio che risuona ancora come inascoltato. L’Italia era in ginocchio e cercava di ripartire con una festa di riconciliazione nazionale. L’eccidio vile e brutale di Giacomo Matteotti, la sostanziale solitudine in cui si era venuto a trovare ci ricordano quante connivenze e iniziali sottovalutazioni permisero al fascismo di insediarsi e diventare dittatura. De Gasperi stesso aveva da farsi perdonare il sostegno che aveva dato al primo governo Mussolini, mai pentitosene abbastanza, motivo di una temporanea rottura con don Sturzo, costretto all’esilio. Si era ancora nella Monarchia, l’assemblea Costituente sarebbe stata eletta due mesi dopo e il 13 marzo 1947 Aldo Moro vi tenne un celebre intervento, sancendo a conclusione dei lavori il carattere marcatamente “antifascista” della Costituzione.

La destra non era presente in Costituente, il Movimento sociale italiano fu fondato dopo, in contemporanea, quasi in alternativa. Vi aderirono ex fascisti ed ex repubblichini che, in misura anche maggiore rispetto agli ex partigiani comunisti, avevano usufruito dell’amnistia Togliatti, provvedimento spesso criticato, finalizzato in realtà a tirare una linea sul passato e avviare su nuove basi la storia repubblicana. Ma a destra questa riconciliazione con la Repubblica italiana non avvenne. Ancora negli anni Settanta Giorgio Almirante sostenne con franchezza e coerenza degne di miglior causa che, se si fossero ripresentate le condizioni, avrebbe rifatto le stesse cose. Ed è noto che esponenti legati o vicini al suo partito tramarono nell’ombra proprio perché quelle condizioni si potessero ripresentare. La storia più recente ci porta alla svolta di Fiuggi, al fascismo proclamato “male assoluto” da Gianfranco Fini, mentre un gruppo di ex dirigenti del Msi e di esponenti più giovani, considerando quella scelta come il “tradimento” di una storia, volle salvare il vecchio simbolo della fiamma tricolore. Che ancora campeggia, in piccolo e in basso, nel simbolo depositato da Fratelli d’Italia per le Europee.

La destra alla guida del governo per la prima volta poteva essere l’occasione per una vera riconciliazione con la Costituzione; invece è in corso un altro processo, con tutta la sua portata divisiva, volto a riformare la Carta in profondità, mentre a destra rimane quel tabù del suo carattere antifascista. Ed è un peccato, perché anche intuizioni eccellenti come il Nuovo piano Mattei per l’Africa, senza fare i conti con la storia, stentano a diventare fattore unificante e di orgoglio dell’intera nazione. Mentre gioverebbe a tutti ricordare, magari il 25 aprile, da quale storia veniva e di quale cultura politica era portatore il fondatore dell’Eni, che fu capo partigiano cattolico, legato a un grande ministro Dc quale Giovanni Marcora, portatore in Africa di una cultura italiana non colonialista e non nazionalista, in piena discontinuità con una storia politica che nel Ventennio aveva evocato l’esatto contrario. (continua su Avvenire)

https://www.avvenire.it/attualita/Pagine/il-25-aprile-de-gasperi-e-le-occasioni-mancate#:~:text=L%27analisi.%20Il,Roberto%20d%27Angelo

martedì 16 aprile 2024

Beatificazione di don Luigi Giussani: si apre la “Fase testimoniale” (Chiesa di Milano)





Beatificazione di don Luigi Giussani: si apre la “Fase testimoniale” L’Arcivescovo terrà la prima sessione pubblica il 9 maggio, solennità dell’Ascensione, presso la basilica di Sant’Ambrogio a Milano, essendo ormai in fase avanzata la ricerca documentale sul Servo di Dio fondatore di Comunione e Liberazione 14 Aprile 2024 Don Luigi Giussani Giovedì 9 maggio, alle ore 17, nella basilica di Sant’Ambrogio, l’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, terrà la Prima Sessione pubblica della Fase testimoniale per la causa di beatificazione e di canonizzazione del Servo di Dio Luigi Giussani. Nel febbraio 2012 la Fraternità di Comunione e Liberazione chiese che si desse inizio al Processo (o Inchiesta diocesana) in vista della beatificazione e canonizzazione del suo fondatore, mons. Luigi Giussani, nato a Desio il 15 ottobre 1922 e morto a Milano il 22 febbraio 2005 in fama di santità. L’allora Arcivescovo di Milano, il Cardinale Angelo Scola, accolse la richiesta e, secondo le norme emanate dalla Santa Sede, avviò la prima fase del Processo, la cosiddetta Fase documentale. Due teologi vennero incaricati di leggere gli scritti editi e di stendere una Dichiarazione che attestasse l’assenza di errori riguardo alla fede e alla morale e che illustrasse il pensiero teologico e la spiritualità del Servo di Dio, come da allora doveva essere chiamato mons. Giussani. Allo stesso tempo venne nominata una Commissione storica, incaricata di raccogliere tutta la documentazione che permettesse di conoscerne la vita. Obiettivo di questa ricerca è quello di rendere fondata con i documenti la pertinenza e la convenienza della beatificazione del Servo di Dio, quale modello convincente di vita cristiana e, in questo caso, sacerdotale. Essendo ormai in fase avanzata questa fase di ricerca documentale, l’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ha deciso di dare inizio alla seconda fase dell’Inchiesta canonica, detta Fase testimoniale. «Essa – spiega mons. Ennio Apeciti, responsabile del Servizio diocesano per le Cause dei Santi – ha un volto per certi versi più “processuale”. La Commissione (o Tribunale) nominata dall’Arcivescovo interrogherà alcune decine di persone, che con la loro conoscenza del Servo di Dio ne illustrino la vita, il pensiero, la spiritualità, la fama di santità ed esprimano il loro pensiero sull’opportunità della beatificazione e canonizzazione. Il fine di questa seconda fase è quello da una parte di confrontare quanto conosciuto attraverso i documenti raccolti nella Fase documentale; dall’altra di ascoltare la voce del Popolo di Dio, o almeno di una sua rappresentanza significativa». Terminata la Fase testimoniale, quanto raccolto sarà inviato al Dicastero delle Cause dei Santi in Vaticano, ove verrà verificato il lavoro fatto nella Diocesi di Milano e seguiranno le altre fasi previste dalle norme fino ad arrivare alla eventuale decisione del Santo Padre di dichiarare Venerabile il Servo di Dio. «L’esame attento di un miracolo concesso da Dio per intercessione del Servo di Dio – continua mons. Apeciti -, permetterà al Pontefice di dichiarare Beato mons. Luigi Giussani e un altro miracolo, successivo alla beatificazione, di proclamarlo Santo per la Chiesa». La scelta della data del 9 maggio e del luogo, la basilica di Sant’Ambrogio, per lo svolgimento della Prima Sessione pubblica della Fase testimoniale, è stata fatta dall’Arcivescovo per motivi legati alla figura stessa di don Giussani: «La solennità dell’Ascensione, che ricorre appunto il 9 maggio – spiega ancora mons. Apeciti – era particolarmente cara al sacerdote e la basilica Santambrosiana è sembrata la più adatta a esprimere il legame di un sacerdote ambrosiano con il suo “massimo patrono”. Infine, la vicinanza della Basilica all’Università Cattolica del Sacro Cuore vuole fare memoria del luogo nel quale per molti anni il Servo di Dio formò generazioni di giovani, comunicando loro il suo appassionato amore per la Chiesa».

Apertura della fase testimoniale della causa di beatificazione di don Gi...

venerdì 5 aprile 2024

 PASQUA 2024/ Perché Giovanni capì prima di Pietro che Cristo era risorto?

                                                       


Pubblicazione: 01.04.2024 - Flavia Manservigi

Dopo Maddalena (che Lo vide) Pietro e Giovanni corsero al sepolcro, come nel quadro di Burnand. Ma Giovanni credette per primo

Una mattina come le altre, quella successiva alla Pasqua ebraica: era domenica, ma non ancora il dominĭca (dies) – giorno del Signore. Semplicemente, si trattava del giorno dopo il riposo del sabato, reso forse speciale solo per il fatto di seguire la festa più importante per il popolo ebraico.

Per un gruppo di persone in particolare, quella domenica mattina si ammantava di un velo di dolore acuto, quello che segue la morte di un congiunto, di un amico, che in quel caso poi era anche un Maestro.

Nel cuore degli apostoli non doveva brillare una gran luce: soltanto due giorni prima, il loro Maestro, appunto, era stato torturato e appeso a una croce, come il peggiore dei criminali. Non c’erano risposte a questa morte atroce; a nessuna morte, allora, era mai stato dato alcun senso o alcuna risposta. Si moriva e basta. Si andava nel niente. Polvere eri e polvere ritornerai, senza appello.

 

Maria Maddalena, col cuore pesante, si reca al sepolcro di Gesù, e trova la pietra ribaltata. Il sepolcro vuoto. “Hanno portato via il mio Signore”. Il cuore, già lacerato, si squarcia ancora. Corre dai discepoli (alcuni di loro, oltre che con il dolore, stavano facendo i conti anche con il senso di colpa: Pietro, ad esempio, non Lo ha solo abbandonato; Lo ha anche rinnegato). Ma proprio quel Pietro, mosso dal terrore che sia stato compiuto anche l’ultimo scempio – il furto del corpo – corre, disperatamente, per quanto la sua energia e la sua età gli permettevano. Con lui va anche Giovanni; almeno lui il senso di colpa di averlo abbandonato non lo aveva; ma sicuramente covava nel cuore il dolore sordo di chi ha visto l’amico deposto nel sepolcro, e la pietra chiusa per sempre su tutto quello che Lui era stato.

Arriva prima Giovanni, ma non entra, per rispetto a Pietro. Si abbassa, per dare un primo sguardo a quello che è avvenuto nella tomba. “Vide le bende per terra, ma non entrò”.

Ed ecco anche Pietro, con il fiatone per la fatica e l’angoscia; sembra quasi di vederlo. Anche lui si china: “vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte”.

 

Infine, entra anche Giovanni, e qui accade un fatto straordinario, perché il discepolo amato “vide e credette”.

Vide, vide, vide. Entrambi videro, ma solo uno dei due, alla fine, credette.

Ma cosa vide Giovanni, tanto da giustificare in lui il primo atto di fede in Cristo risorto? Una risposta può venire dal testo originale dei Vangeli, scritti in greco e tradotti spesso con lemmi che non rispecchiano la ricchezza della lingua originaria.

 

Nella traduzione che conosciamo, l’azione visiva dei due apostoli è sempre tradotta con il verbo “vedere”. Ma nel testo originale, a questo atto si associa di volta in volta un verbo diverso, con un significato differente. Il vedere di Giovanni, che, senza entrare nel sepolcro, per primo vede le bende e il sudario, è reso dal verbo blépein, che significa “constatare con perplessità”.

Il vedere le bende da parte di Pietro prima di entrare nel sepolcro è reso dal verbo theorein, che significa “contemplare uno spettacolo”, ma senza capire.

Quando infine Giovanni entra e osserva pienamente ciò che è rimasto nel sepolcro, è utilizzato il verbo eiden, che significa comprendere. Solo in quel momento, Giovanni vede qualcosa di preciso e in base a quel qualcosa comprende, e, dopo aver compreso, crede nella Resurrezione di Gesù.

Ma cosa ha visto Giovanni per giungere a questa conclusione? Il testo italiano dice che vide “le bende per terra”; ma il testo greco usa un’espressione diversa: ta othonia keimena.

Keimena in greco deriva da keimai, che significa “giacere, essere disteso, seduto, steso, orizzontale; si dice di una cosa bassa in opposizione a una elevata, eretta, come per esempio il mare calmo rispetto al mare agitato”.

Quando Giovanni ha assistito alla deposizione di Gesù nel sepolcro, ha visto che quelle bende erano alzate, sollevate, perché contenevano al loro interno il corpo del defunto. Ora Giovanni vede che la posizione delle bende è la stessa, ma esse non contengono più il corpo di Gesù: si sono abbassate, svuotate del loro contenuto, ma sono rimaste nella stessa posizione. Gesù, che è stato avvolto in quel lungo telo, vi è uscito, lasciandolo intatto; le fasce non sono state manomesse, e il corpo che vi era avvolto si è reso come meccanicamente trasparente. Da questo fatto, Giovanni capisce che Gesù è risorto.

 

Pietro non era stato in grado di giungere a questa conclusione perché lui non era al sepolcro; non aveva assistito alla deposizione di Gesù. Giovanni sì; Giovanni era stato con il suo Signore fino alla fine, e aveva visto in che modo il Maestro era stato deposto nella tomba. Per questo capisce. Per questo crede.

(….continua su il sussidiario.net)

 

https://www.ilsussidiario.net/news/pasqua-2024-perche-giovanni-capi-prima-di-pietro-che-cristo-era-risorto/2684671/#:~:text=PASQUA%202024/%20Perch%C3%A9,fine%20dei%20te

Resurrezione (Congdon)

                                                               


                                                           

giovedì 14 marzo 2024

 



ERIK VARDEN. ALLARGARE IL DESIDERIO

Il vescovo norvegese racconta su "Tracce" di Marzo la ricerca dell’amore nel mondo di oggi. La chiave per viverlo. E perché Maria Maddalena sarebbe la «patrona perfetta del XXI secolo»
Anna Leonardi
Se con La solitudine spezzata ci ha portati in un viaggio alla scoperta di Dio come risposta al grido del nostro tempo, con il suo ultimo libro, Chastity (Castità), Erik Varden ci propone un tema audace, che al mondo di oggi può fare l’effetto di una fredda folata proveniente da un’epoca lontana. I due titoli hanno, in realtà, una correlazione molto più profonda di quello che potrebbe sembrare. «La castità è una pienezza», spiega l’autore, monaco trappista e, dal 2020, Vescovo di Trondheim in Norvegia. «È un atteggiamento verso le cose e le persone che sgorga quando il cuore dell’uomo è investito da quell’abbraccio che risana e compie le sue attese più radicali. Per questo è riduttivo far coincidere la castità con un “non fare” e un “non essere”. È uno stato di grazia. E una virtù per tutti». Sono parole che suggeriscono una strada in una società ultrasecolarizzata, dove i rapporti tra le persone possono trasformarsi in una palude, quando ci si usa per riempire un vuoto, e non per condividere una sovrabbondanza.

Le relazioni non sembrano godere di una buona salute oggi. Molte analisi concordano sul diagnosticare nell’individualismo sfrenato la causa principale dei sintomi di sfiducia, incomunicabilità, invidia, solitudine. Cosa ne pensa?
Mi sembra un quadro cupo. Perlomeno parziale. Certo, queste esasperazioni esistono, ma ci sono anche delle tendenze molto sane. Quello che noto durante la mia attività pastorale è una ricerca di socialità, di comunione anche nei contesti più laici. Qui in Norvegia il dato del volontariato è molto in crescita: fiorisce la voglia di fare con l’altro e per l’altro. Questo significa che la tendenza individualistica della postmodernità non è tutto, c’è anche la percezione che stare imprigionati in se stessi non è un cammino che ci porta alla felicità.

Cosa significa in questo contesto parlare di affettività, amore, amicizia?
Oggi trovo cruciale soprattutto comprendere l’amicizia. Siamo in un tempo in cui le relazioni intime sono ridotte a erotismo o sentimentalismo e questo le rende fugaci, provvisorie. L’amicizia ha, invece, un aspetto più razionale, è un’affinità elettiva. È un tipo di relazione dove è più facile sorprendere quell’anelito a trovare un fondamento stabile e in cui si intuisce che la propria personalità può nutrirsi e costruirsi. In fondo, la santità cristiana si identifica come capacità di amicizia. Cristo ci ha detto: «Voi siete miei amici. Vi ho chiamati amici». L’amicizia è un ambito privilegiato dove possiamo allenarci e imparare a vivere tutte le altre relazioni.

Vede testimonianze di questo oggi?
Sì, per questo non mi sento disperato. Forse noi nel Nord Europa, che abbiamo sempre vissuto in anteprima le varie tendenze delle società occidentali, oggi stiamo risalendo la china e vediamo la luce in fondo al tunnel. Anche se molti sembrano bloccati, il desiderio di costruire relazioni e il riconoscersi dipendenti gli uni dagli altri appare come un punto irriducibile, un seme da cui può generarsi una novità che rende il mondo più umano.

Nel suo ultimo libro, Chastity, afferma che dobbiamo «allargare all’infinito il range del nostro desiderio. Solo così impariamo a cercare le risposte adeguate per cui la nostra carne si strugge e a risparmiarci continue frustrazioni». Può approfondire questa dinamica?
Il desiderio è l’espressione del nostro essere stati fatti da Dio. È qualcosa di intrinseco alla natura umana. Siamo abitati da un’eco, una chiamata. È il Signore che fa cantare in noi la somiglianza con Lui. Il desiderio è il motore della mia vita perché la orienta a una pienezza, che è la comunione con Dio vissuta anche nelle relazioni con gli altri. Il nostro peccato è un sabotaggio del desiderio, che si frammenta verso tanti oggetti diversi. Ma se guardiamo dove ci porta quel desiderio profondo, ci accorgiamo della relatività di tutte le cose che non sono sufficienti a compierlo. E, nel contempo, le riconosciamo nel loro valore più vero, perché solo alla luce di ciò che disseta la vita, anche ogni piccola cosa rivela il suo significato.

C’è un episodio nella vita di don Giussani che lo portò a un’intuizione simile. Era una sera d’estate carica di stelle, e lui uscendo dalla sua parrocchia in bicicletta, sorprese due fidanzati abbracciati. Dopo qualche pedalata si fermò e domandò: «Sentite, quello che state facendo, cosa c’entra con le stelle?». Anni dopo, commentando quel momento, disse: «Quella sera sono andato via lieto, perché avevo scoperto cos’era la legge morale: il nesso tra la banalità dell’istante e l’ordine dell’universo».
Mi trovo assolutamente d’accordo con questa sua osservazione. Il nesso con l’interezza di sé e con l’universo è la chiave per vivere l’amore e ogni rapporto con la pazienza e il sacrificio. Per un cristiano niente può essere banale, tutto viene ricompreso, se vissuto alla luce dello scopo ultimo, che è il bene del mondo. Questo brano mi fa venire in mente Jack, l’ultimo romanzo della scrittrice americana Marilynne Robinson, dove il protagonista, il dissennato figlio di un reverendo del Missouri degli anni Cinquanta, una notte incontra Della, una giovane donna. Jack si offre di starle vicino ma a debita distanza, in modo da proteggerla e non metterla a disagio. I due passano la notte a parlare e c’è un momento apicale in cui lei lo guarda come nessuno aveva mai fatto, ai suoi occhi non è uno sconosciuto ma «un’anima, una presenza gloriosa fuori posto nel mondo». Jack si sente guardato – come è veramente – dentro l’essere ed è trascinato, suo malgrado, a diventarne consapevole. Sa che c’è qualcosa in lei che richiama in modo unico qualcosa in lui. Ed è questo il nesso con lo scopo di cui parla Giussani.

Da cosa ripartire quando ci scontriamo con la debolezza e la fragilità, nostra e altrui, e allentiamo questa tensione ultima?
Nel contesto monastico abbiamo due momenti della giornata dedicati all’esame di coscienza. Cosa ne ho fatto delle possibilità a me date per vivere oggi? Come ho vissuto i rapporti con le cose, con i fratelli? Questa autoconoscenza è un passo necessario perché mi fa stare più attento a me stesso e agli altri. E all’impatto che quello che faccio o non faccio può avere sugli altri. I Padri la chiamano “umiltà”, che altro non è che un sano realismo che ci fa dire addio a tutte le immagini che ci costruiamo di noi stessi. Questo è reso più difficile nel mondo virtualizzato in cui viviamo dove concepiamo noi stessi in termini idealizzati. La capacità di guardare a me stesso per come sono è il primo passo per stare davanti all’altro. Di cui inizio a sentirmi responsabile.

Che cosa vuol dire?
Se concepisco me stesso come il sole in un universo fatto di stelle estinte, rimarrò sempre l’unico soggetto di un rapporto. Certo, magari mi accorgo che gli altri esistono, ma non riconosco loro alcun significato. Invece se mi scopro fatto per la relazione, mi scopro anche responsabile di quella relazione. Posso essere fonte di bene per la vita dell’altro, ma posso anche infliggere ferite profonde. Ci sono rapporti – penso a quello tra genitori e figli – dove questo è molto chiaro. È una relazione reciproca dove però potrebbe capitare che un padre o una madre debbano rinunciare all’essere visti, o addirittura accettare un abbandono. È possibile compiere questo sacrificio rimanendo fermi nel proprio proposito d’amore, che significa tenere sempre la porta aperta. Si tratta di un discorso delicato, perché ci può essere la tendenza malsana a sacrificarsi per salvare l’altro. Ricordiamoci che c’è un unico salvatore, e non sono io, e che ci sono rapporti che solo la pazienza può guarire. Questo vale anche per gli sposi. L’essere umano diventa veramente umano quando esprime questo ultimo sentimento di dedizione al bene dell’altro. Invece noi siamo dediti a reclamare i nostri diritti, a cantare le litanie dei nostri traumi.

(continua su tracce.online
https://it.clonline.org/news/chiesa/2024/03/14/eric-varden-allargare-il-desiderio#:~:text=ERIK%20VARDEN.%20ALLARGARE,bisogno%20di%20guardare.