La prudenza
Una virtù scomparsa?
Pietro del
Pollaiolo - "Prudenza".
Un patrimonio dimenticato
Nell’immaginario odierno la prudenza è associata soprattutto a un procedere
lento e circostanziato (come nel caso della guida automobilistica) o a una
indecisione di fondo per evitare rischi o, peggio ancora, a una forma di viltà
o di pavidità che impedisce di prendere posizione[1].
Valutazioni che sono in gran parte eredità del pensiero moderno.
Per gli antichi invece la prudenza era considerata la virtù più bella a
disposizione dell’uomo e guida di tutte le altre (auriga virtutum),
perché consente di riconoscere l’obiettivo fondamentale della vita nella
situazione concreta, ma soprattutto individua i mezzi adeguati per poterlo
conseguire. I greci la indicavano con phronēsis (saggezza), un
termine che faceva originariamente riferimento al diaframma (frēn), sede
del respiro, del sentire e dell’attività conoscitiva propria dell’anima, la
dimensione più intima dell’uomo[2].
La persona saggia ha la ragione in buona salute e perciò può governare se
stessa. Per Aristotele, il compito della saggezza è di educare la sensibilità,
l’energia indispensabile per compiere il bene (Topica, V, 8; 138 b 2-5):
è il compito essenziale della ragione pratica (Etica Nicomachea, VI, 5).
Per questo la saggezza è il perno della vita morale, perché scopo di questa
disciplina, aggiunge sempre Aristotele, non è di conoscere il bene, ma di
essere buoni. Cicerone traduce phronēsis con prudentia,
definendola «la scienza delle cose che si devono cercare o fuggire» (De
officiis, I, 153).
Come si può notare anche da questa semplice ricognizione, non solo la
saggezza-prudenza, ma la stessa filosofia morale si presentano con
caratteristiche ben diverse dall’approccio intellettualistico proprio
dell’epoca moderna, alla ricerca di regole e definizioni precise, svuotando in
tal modo la ragione pratica della dimensione affettiva. Emblematica a questo
riguardo è la posizione di Kant: ragione ed emozioni sono nemici dichiarati;
per questo la scelta del bene deve prescindere da ogni aspetto passionale ed
essere compiuta sulla base della pura ragione. E il motivo di tale contrasto è
enunciato con chiarezza: «Essere soggetti a emozioni e passioni è ben sempre
una malattia dell’animo, perché ambedue escludono il dominio della ragione»[3].
È una posizione antitetica a quella di san Tommaso: «Il modo della virtù, che
consiste nella perfetta volontà, non può essere senza passione, non perché la
volontà dipenda dalla passione, ma perché a una volontà perfetta in una natura
passibile necessariamente consegue la passione» (De Veritate, q. 26, a.
7, ad 2; cfr a. 1).
Tommaso, iniziando la seconda parte della Somma Teologica,
nota che «le considerazioni generiche in campo morale sono meno utili, perché
le azioni (umane) sono particolari» (Sum. Theol. II-II, prol.). Per
vivere bene si deve sapere come concretamente agire, e soprattutto essere
sufficientemente motivati a farlo. Per questo senza la prudenza non si può
parlare di morale.
Cos’è la prudenza?
Tommaso riprende l’etimologia del termine da Isidoro da Siviglia: prudenza
come porro videns, capacità di guardare avanti, lontano, di
prevedere e provvedere, vedere il possibile punto di arrivo di un pensiero o di
una scelta, mediante confronti (collatio) con quanto accaduto nel
passato (cfr Sum. Theol. II-II, q. 47, a. 1). Tale significato
prospettico trova conferma dal fatto che la parola latina prudens è
la forma contratta di providens (provvidenza): il prudente è
provvidente, colui che vede prima, guarda oltre la situazione puntuale.
Il compito specifico della prudenza è soprattutto quello di prefigurare il
percorso adeguato per raggiungere il fine. Non stabilisce il fine ultimo, il
bene da compiersi, che non è oggetto di deliberazione (cfr Sum. Theol. I-II,
q. 57, a. 5), ma ne predispone i mezzi.
Da qui l’importanza fondamentale della prudenza nel processo del
discernimento per compiere in maniera corretta decisioni importanti per la
propria vita[4].
Il suo legame con la provvidenza mostra anche la sua dimensione religiosa, di
partecipazione alla sapienza divina, che fornisce luce e forza per compiere il
bene. Tommaso precisa che in questo difficile compito possiamo essere aiutati
da un prezioso dono della Spirito Santo, il consiglio, che fornisce luce
all’intelletto e forza alla volontà: «La prudenza, che implica la rettitudine
della ragione, viene potenziata ed aiutata in quanto è regolata e mossa dallo
Spirito Santo. E questo compito appartiene al dono del consiglio. Quindi il
dono del consiglio corrisponde alla prudenza, come suo aiuto e coronamento» (Sum.
Theol. II-II, q. 52, a. 2).
Questa docilità libera dall’ansia di ritenere che tutto sia affidato alle
proprie forze, disperando di migliorare. Curiosamente però Tommaso nota che
questo necessario completamento per la deliberazione era stato riconosciuto con
chiarezza già da Aristotele: «Il Filosofo stesso notava [Etica Eudemia,
7, 14] che coloro i quali sono mossi per istinto divino non hanno bisogno di
deliberare secondo la ragione umana, ma devono seguire l’istinto interiore:
perché sono mossi da un principio superiore alla ragione umana» (Sum. Theol. I-II,
q. 68, a. 1). (………)
(fonte: Giovanni Cucci su La Civiltà Cattolica, Quaderni 2022 ) continua