mercoledì 28 maggio 2014








Il prof. Aleksander Filonenko (al centro) e la prof.ssa Elena Mazzola (a sinistra)

martedì 20 maggio 2014

LA RIVOLUZIONE DEL MAIDAN: L’UCRAINA E NOI


Testimonianza del prof. Aleksandr Filonenko
Ordinario di Filosofia dell'Università di Chark’ov, Ucraina
Presentazione della prof.ssa Gemma Barulli

Venerdì 30 Maggio 2014 - ore 19,00

AUDITORIUM “VALENTINO VAILATI” – MANFREDONIA


 


domenica 18 maggio 2014

Senigallia: la mia casa non è nel fango

SENIGALLIA


«La mia casa non è nel fango»


09/05/2014 - In poche ore, tre morti. E cinquemila abitazioni sotto un metro d'acqua. Ma a Luisella e alla sua famiglia accade di ritrovarsi in una "casa" che nessuna alluvione può distruggere. E desiderare di vivere ogni giorno così
Quello che è accaduto alla mia famiglia in questi giorni è così eccezionale che non posso non raccontarlo.
Il 3 maggio sono uscita di casa con mio marito, mia figlia, mio figlio e la sua ragazza per andare al matrimonio di Martina, figlia di nostri cari amici e a noi molto cara. Erano giorni che ci preparavamo a questo bellissimo momento. Purtroppo appena terminata la Santa Messa è arrivata la telefonata che ci informava che in quel giorno avremmo dovuto affrontare altro, non previsto e non desiderato.

A Senigallia è straripato il fiume e la zona in cui abito è stata colpita. Nella città ci sono 5.000 abitazioni allagate. Ci sono stati tre morti; la Madonna della Speranza (protettrice della città) ci ha assistito, altrimenti sarebbero stati certamente di più. Siamo ripartiti subito verso casa, anche perché al piano superiore abita mia madre che è anziana. Ma la strada era sommersa da un metro e mezzo di acqua e non ci siamo potuti neanche avvicinare per tutto il giorno. Abbiamo passato la notte da amici che ci hanno accolto e dato tutto, anche i calzini; mia madre, invece, nella sua abitazione era sola, impaurita, senza telefono e senza luce.

venerdì 16 maggio 2014

Verso le elezioni europee: Sigov

VERSO LE EUROPEE

Sigov: «Siamo il polmone ferito, respirate con noi»

di Luca Fiore
14/05/2014 - Ortodosso, di Kiev, Constantin Sigov è uno degli intellettuali protagonisti della rivolta del Maidan. In vista delle prossime elezioni e del futuro politico (ma non solo) del suo Paese, si è confrontato con il volantino di CL (da "Tracce", maggio 2014)
Constantin Sigov è nato e vive a Kiev. La sua lingua madre è il russo. È un ortodosso del Patriarcato di Mosca. Eppure, filosofo formatosi a Parigi e direttore della casa editrice Duch i Litera, è stato uno degli intellettuali protagonisti della rivolta di Piazza Maidan. In questi mesi si sta spendendo per spiegare le ragioni profonde di quel che sta accadendo in Ucraina.

Qual è l’aspetto che trova più interessante nel documento?
La cosa che mi è parsa più interessante è, da una parte, il doppio tema del valore della persona e della sua relazione con l’altro; dall’altra, l’idea della libertà, come viene espressa nel documento. L’uomo è legato a ciò che crea la realtà, cioè è connesso con il Creatore, e questo lo rende libero dal potere. Questa idea di libertà dà la possibilità di vincere l’isolamento, di sentirsi pronti a dialogare con l’altro, che è ciò che ha dato origine all’Europa, secondo il desiderio dei suoi padri fondatori. È un concetto importante per tutte le generazioni, compresa quella odierna che parteciperà ora alle elezioni. La comprensione dell’altro, del diverso, è il tema chiave.

Oggi l’Ucraina sembra il Paese più europeista d’Europa. Perché?
Proprio perché, in questo momento di profonda crisi politica, la gente ha recepito e vissuto davvero quello di cui ha parlato il primo presidente della Repubblica Ceca, Václav Havel, ne Il potere dei senza potere. L’uomo supera la menzogna dell’ideologia nella vita personale e sociale solo quando scopre l’altro, quando scopre la fiducia e la compassione. Le élites si rendono conto che da sole non possono risolvere i problemi della loro società, che devono prestare attenzione all’altro. Nel nostro caso agli ucraini orientali e occidentali, del Nord e del Sud. Quella straordinaria mistura di apertura, tolleranza, interesse per l’altro che è stata evidente quest’inverno a Kiev e in altre città dell’Ucraina, è un’incredibile esperienza storica che certamente l’Ucraina deve condividere con l’Europa.

Gli ucraini sognano davvero di entrare nell’Unione Europea?
Il rapporto degli ucraini con l’Unione Europea è molto positivo. Io direi che per loro non è un sogno,

Verso le elezioni europee: Weiler

VERSO LE ELEZIONI


Quale Europa cerchiamo?

di Paolo Perego
16/05/2014 - La democrazia vera ha ancora una chance? E cosa possiamo fare noi, nel quotidiano? È possibile non delegare la propria salvezza? Al centro Culturale di Milano, Joseph Weiler in dialogo con Maurizio Ferrera e Bernhard Scholz
Parte dal profeta Michea, Joseph Weiler, per rispondere alla prima di una serie di domande che hanno animato il dibattito “Quale Europa cerchiamo?” proposto dal Centro culturale di Milano nella serata del 15 maggio, nella Sala di via Sant’Antonio a Milano. Weiler è un grande conoscitore dell’Europa: classe 1951, ebreo, detentore della Cattedra European Union Jean Monnet presso la Scuola di Legge dell’Università di New York, oggi è presidente dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, nel fiorentino. «O uomo, Egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; che altro richiede da te il Signore, se non che tu pratichi la giustizia, che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio?». Non evasiva, come risposta, sottolinea il professore americano, rispetto alla provocazione di Bernhard Scholz, presidente della Compagnia delle Opere, seduto al suo fianco al tavolo dei relatori. «Si parla sempre di economia e di politica. Ma la crisi che viviamo, alla voce Europa, lascia intravedere, ancora una volta, una dimensione culturale del problema», aveva detto Scholz: «È già successo in passato, e riaccade ora. Quando grandi parole come “economia” o “politica” vengono idolatrate, allora iniziano ad essere contro lo Stato, la società e la persona. D’altra parte ognuno di noi incide in ogni azione sulla vita sociale. È davvero possibile non delegare la propria salvezza?».

Weiler non ha dubbi: «Se c’è una crisi culturale il primo passo è assumercene la responsabilità». Andare a cercarne le cause in luoghi come la famiglia o l’educazione, per esempio. «Io non vorrei mai vivere in uno Stato dove non ci sono i diritti. Ma la cultura dei diritti stessa può portare a questa idolatria. Chi ha permesso che questo accadesse in Europa?». Il compito del singolo, aggiunge Weiler, è in quella frase del profeta biblico.

«Ma nessun sistema politico starebbe in piedi senza un sistema di regole che dica cosa è giusto e cosa no», obietta subito il terzo relatore, Maurizio Ferrera, docente di Storia politica e firma del Corriere della Sera: «Solo che la gente pensa che non esista una giustizia europea». Esempio su tutti, la disuguaglianza distributiva, ovvero il fatto che ci sono Paesi che stanno meglio e altri peggio. Dove sta la solidarietà del “buon vicinato”, per cui tra prossimi non si tira su il prezzo? «E invece vediamo Paesi che fanno i loro interessi. E la percezione diffusa è che la giustizia che arriva da Bruxelles sia ingiusta».

Weiler si riarma di microfono. «Non si deve delegare, come ha detto Scholz. Ma se non c’è uguaglianza distributiva è perché nessuno mai ha messo in piedi un'Europa fiscale». E racconta del

lunedì 12 maggio 2014

I FATTI


Il segno che si può toccare ciò che si desidera

Noi siamo andati con un pulmino da 20 persone, l’unico che abbiamo trovato. Dovevamo partire in due, ma poi, invitando insegnanti, ragazzi, segretarie, bidelle... Volevano venire tutti! Abbiamo dovuto bloccare le prenotazioni perché non c’erano pullman più grandi. E nella nostra scuola, statale, la circolare è passata solo venerdì. Ma alle 14.30 del sabato eravamo in via della Conciliazione.

Abbiamo capito subito, vedendo tutte quelle persone, che sarebbe stato un incontro fuori dal comune. Ci sono state testimonianze, di tanti per i quali la scuola è una cosa bella, da amare. Il Papa è passato fino in fondo a via della Conciliazione. Che bello il suo sorriso! Che bello vedere le nostre mani tese verso di lui, verso un uomo, il segno che quello che desideriamo si può toccare. È un uomo con uno sguardo che ci insegna ad amare. Proprio questo ha detto il Papa: «Non si cresce da soli, è sempre uno sguardo che ti aiuta a crescere».

Il Papa ha detto che ama la scuola grazie alla sua prima maestra. Ma cos’è la scuola? Ci ha spiazzato con la sua risposta: «Un luogo di incontro. I ragazzi incontrano i professori, i professori i ragazzi e i loro genitori, si incontrano i bidelli, le segretarie, i compagni...». Fare l’appello e dire “presente” significa accorgersi che l’altro c’è. E poi Francesco ci ha di nuovo sorpresi: perché lui ama la scuola? «Perché è apertura alla realtà». Spesso non è così, lo dice anche lui. Ma non è un lamento: «Se non è così bisogna cambiare un po' l’impostazione!». Il segreto? «Imparare ad imparare». Questo fa si che l’insegnante sia interessante per i suoi ragazzi, è segno di una persona aperta alla realtà, ed è ciò che, se si impara, rimane per sempre.

Ancora, che bello quando ci ha ricordato della famiglia e della scuola chiamate a collaborare. E ci ha fatto ripetere un proverbio africano secondo cui per educare un figlio «ci vuole un villaggio». O quando ci ha ricordato la missione della scuola, «sviluppare il senso del vero, il senso del bene e il senso del bello». Con un augurio, quello di trovare «una strada che faccia crescere le tre lingue, che una persona matura deve sapere parlare: la lingua della mente, la lingua del cuore e la lingua delle mani. Pensare quello che tu senti e quello che tu fai; sentire bene quello che tu pensi e quello che tu fai; e fare bene quello che tu pensi e quello che tu senti». Non è stato solo un incontro per la scuola ma una festa vera, buona e bella. Tre cose che vanno veramente insieme. E a Roma, sabato, questo si vedeva.
Grazia, insegnante (L’Aquila)

mercoledì 7 maggio 2014

Uno dei più grandi intellettuali francesi si confronta con il volantino di CL sulle elezioni europee

VERSO LE EUROPEE

Lafforgue: «La verità è che senza Cristo siamo perduti»

di Luca Fiore
07/05/2014 - Il 25 maggio al voto per l'Europarlamento. "Premio Nobel" per la matematica, uno tra gli intellettuali protagonisti del dibattito pubblico francese si è confrontato con il volantino di CL (da Tracce di maggio)
Laurent Lafforgue siede in un piccolo ufficio del Dipartimento di Matematica dell’Università di Milano. Non ha ancora 48 anni, ma ha la faccia e il fisico da ragazzino. Si tratta di una delle menti più acute d’Europa e del mondo. Insignito nel 2002 della Fields Medal, il Premio Nobel per la matematica, Lafforgue non è un intellettuale tutto aule e formule matematiche. Negli ultimi anni è stato protagonista del dibattito sulla scuola pubblica nel suo Paese. E oggi guarda con grande perplessità quel che accade in Europa e nelle sedi dell’Unione Europea. Con lui abbiamo parlato del volantino di Cl.

Che effetto le ha fatto leggere questo documento?Mi fa pensare che, in generale, non esistano istituzioni che vanno in una buona direzione in maniera automatica. Anche se, alla loro origine, sono state create con buone intenzioni. Non c’è modo di creare istituzioni che si possano sostituire alla libertà umana per andare nella direzione del bene. Nel caso lo pensassimo, finiremmo per creare macchine perverse. Lo vediamo nel progetto europeo, che sta realizzando delle aberrazioni sempre più grandi, contrarie allo spirito dei padri fondatori.

Si sente europeo? E in che senso?Sì, in molti sensi. Innanzi tutto sono cristiano, anche se in sé il cristianesimo non è una religione europea. Sono europeo per la cultura. Sono uno scienziato, nel senso che partecipo a una scienza che è stata elaborata per la prima volta in Europa anche se oggi è praticata in tutto il mondo. Sono europeo anche per la cultura letteraria; anche se sono un matematico, sono sempre stato molto interessato alla letteratura e alla filosofia. Ho passato molto più tempo a leggere che a fare della matematica. Ho letto i grandi autori francesi e la grande letteratura nazionale degli altri Paesi europei.

Il volantino riprende l’espressione di Jürgen Habermas rilanciata da Benedetto XVI riguardo la necessità di una forma ragionevole per risolvere i contrasti politici che deve essere un «processo di argomentazione sensibile alla verità». Cosa significa per lei?Oggi nell’ambito giuridico, ad esempio, si concepisce il diritto come una costruzione formale e arbitraria. In questo modo si abbandona deliberatamente la questione della verità. Se si fa questo è perché si è perso “il senso della verità”. Nel mondo moderno l’abbiamo in gran parte perduto, perché cerchiamo la verità con il criterio dell’oggettività perfetta. Vorremmo una macchina che trovi la verità in modo automatico al nostro posto. Siccome non siamo più sensibili alla verità, sentiamo il bisogno di qualcuno che lo sia per noi. Ma non esiste un meccanismo che lo sia: le istituzioni, un regime politico, una costituzione... Oggi vediamo le conseguenze della perdita della sensibilità alla verità e allo stesso tempo non abbiamo ricette per ritrovare questa sensibilità. Noi, in quanto cristiani, cerchiamo di essere umili su questo tema.

In che senso?Il cristianesimo dice che di fronte alla verità siamo molto fragili. Non solamente il nostro senso morale è ferito, siamo peccatori. Ma anche la nostra intelligenza è ferita. E quindi siamo

martedì 6 maggio 2014

In nome di che cosa ci sentiamo fratelli su questa terra?

RUSSIA-UCRAINA
Odessa non è la Crimea: questa guerra riguarda l'Europa
di Vladimir Rozanskij

Continuano gli scontri fra esercito ucraino e forze filo-russe nell'est del Paese. Mosca grida alla "catastrofe umanitaria" e ai rischi per la pace in Europa; Kiev accusa i "terroristi" di voler rovesciare il governo. Nessuno comprende che il popolo ucraino sta cercando se stesso, mentre la comunità internazionale rimane impacciata e lontana.


Mosca (AsiaNews) - Nell'est dell'Ucraina si continua a combattere.  Ieri, in uno scontro a fuoco fra filorussi e forze militari ucraine alla periferia di Slovyansk quattro persone sono morte e 30 sono rimaste ferite. Un elicottero dell'esercito è stato abbattuto, ma i piloti sono sopravvissuti.
Due giorni fa le forze di governo hanno ucciso 20 ribelli e altre decine sono rimasti feriti sempre nella città di Slovyansk. Il 2 maggio, a Odessa, sono state uccise 42 persone e 125 sono rimaste ferite dopo che simpatizzanti filo-russi si sono rifugiati in un edificio che in seguito ha preso fuoco. Più di 30 edifici governativi (amministrazione, polizia, servizi di sicurezza, ecc...) sono nelle mani dei ribelli filorussi nelle regioni di Donetsk e Luhansk.
Mentre Kiev accusa i "terroristi" di voler far cadere il governo legittimo, Mosca denuncia le "forze ultranazionaliste, estremiste e neonaziste" che si rendono colpevoli di "massicce" violazioni dei diritti umani, creando una "catastrofe umanitaria" che minaccia la stabilità e la pace in Europa.  Intanto la comunità internazionale sembra impacciata e povera di fantasia davanti a questi bagliori di guerra, incapace forse di comprendere la posta in gioco: la ricerca di un modello di vita per un popolo che non si sente compreso né dalla Russia, né dall'Europa.

L'esplosione di conflitti sempre più frequenti e preoccupanti nelle regioni orientali dell'Ucraina pongono interrogativi diversi e nuovi riguardo alla crisi di questi mesi, anche se sono evidentemente uno sviluppo della prima fase, che aveva portato alla secessione della Crimea e alla sua annessione alla Federazione Russa.
La protesta iniziata al Maidan di Kiev riguardava il modello di sviluppo del Paese nei prossimi decenni, condizionato dalle scelte politiche di relazione con la Russia e la Comunità europea. Le manifestazioni di piazza sfociarono in una vera sollevazione popolare, in seguito all'incauta ed eccessiva reazione del presidente Janukovich. La violenta repressione del Maidan ha creato, o più esattamente evidenziato, una coscienza di aggregazione politica, ideologica e anche spirituale che non si era mai espressa in questi termini, neanche ai tempi della "rivoluzione arancione". Andando ben oltre le prospettive economiche o strategiche, l'Ucraina si è "scoperta" nella sua identità nazionale, non più solo come "Paese ex-sovietico", ma in forza di un'esperienza ventennale complessa e contraddittoria, ma allo stesso tempo "propria" e originale.
La nuova realtà che si è creata non ha ancora avuto modo di consolidarsi, e i volti "ad interim" del presidente Turchinov e del premier Yatsenjuk non sono in grado di rappresentare in modo esplicito e autorevole le dimensioni reali della vita del popolo ucraino. Si attende chiarezza dalle elezioni di fine maggio, dove si confronteranno forze legate alle nostalgie del passato, alla Russia o ai periodi di un'Ucraina da essa separata, ma anche alle oligarchie post-sovietiche, e forze nuove e più rappresentative delle istanze degli ucraini di oggi, ancora tutte da scoprire.
Non c'è dubbio che gli scontri di questi giorni stanno seguendo una escalation fortemente legata alla scadenza elettorale, per condizionarne gli esiti. In essi si continua a sventolare la bandiera piuttosto illusoria dei "filorussi" contrapposti ai "filoucraini", anche se la posta in gioco è sicuramente più complessa e meno evidente. La scissione crimeana non deve ingannare: tra la penisola sul Mar Nero e le regioni di Donetsk, Charkov e Dnepropetrovsk c'è una differenza profonda. La Crimea non è mai stata un territorio veramente "misto"; è una terra sostanzialmente russa, in cui era anticamente insediata la parte più significativa dell'Orda d'oro dei tartari invasori, oggi ridotti a minoranza residuale e dissidente. Nell'Ucraina orientale convivono russi e cosacchi, turchi e greci, ucraini e polacchi, in proporzioni diverse e incoerenti tra loro, per non parlare della città di Odessa, teatro dell'episodio più tragico e increscioso degli ultimi conflitti; il grande porto di Odessa è il "termine finale" della grande diaspora europea degli ebrei e della cultura yiddish, che a sua volta fu all'origine del nuovo esodo nell'attuale Israele.
Non si possono spiegare le violenze di Slovjansk, Donetsk e Odessa soltanto come provocazione delle milizie spontanee, in cui certamente agiscono numerosi spetsnaz provenienti dalla Russia, o

lunedì 5 maggio 2014

Quando l'uomo è davanti a Dio: lettere inedite di Andreotti ai familiari

Sei lettere inedite di Andreotti ai familiari
«Ho avuto una vita incredibilmente felice». Così Giulio Andreotti definisce la sua esistenza terrena, in una delle sei lettere che scrisse in momenti particolari della sua vita a partire da 1978. Sono lettere indirizzate ai familiari che dovevano essere aperte solo in caso fosse morto improvvisamente, per cause naturali o per un attentato.

La sua prima lettera è datata 10 aprile 1978, ventiseiesimo giorno del sequestro di Aldo Moro, un momento drammatico per Andreotti: «Non avevo mai pensato di scrivere qualcosa per il mio post mortem, ma gli avvenimenti di queste ultime settimane, dando fragilità alla nostra sicurezza, mi inducono a farlo». Le sei lettere da aprire post mortem, che contengono anche alcune disposizioni per il dopo – «Poche, perché ho comandato fin troppo da vivo», scrive Andreotti con la sua nota ironia in quella più recente, datata giugno 2005 – sono state ritrovate e aperte dai figli dopo la sua scomparsa, avvenuta il 6 maggio 2013, all’età di 94 anni. Ma, in quel giorno di lutto i figli non le hanno fatte leggere a nessuno, per non rischiare di alimentare polemiche strumentali: la notizia della scomparsa del politico italiano più longevo e famoso della storia dell’Italia repubblicana stava facendo il giro del mondo, e, agli attestati di stima e affetto che arrivavano anche da tanti Paesi stranieri, si accompagnavano giudizi critici e ricostruzioni storiche faziose sugli oltre sessant’anni di vita politica dello statista democristiano.


Ora, dopo un anno, in linea con lo stile riservato della famiglia Andreotti, è stata inviata copia delle lettere a pochi parenti e amici. La prima lettera, come detto, è del 1978; le altre cinque sono state scritte tra il 1994 e il 2005, nel periodo in cui Andreotti svolge con assiduità il suo lavoro di senatore a vita, affronta i due processi che lo vedono imputato a Perugia e a Palermo, pubblica libri e dirige il mensile internazionale “30Giorni”. E proprio ai giornalisti della rivista («Con i quali – scrive – ho vissuto anni di esaltante collaborazione in uno spirito unitario») è dedicato l’ultimo dei saluti.


È un Andreotti per certi versi sorprendente (anche se solo per chi non lo conosceva bene) quello che ne emerge: solare e lontano mille miglia dallo stereotipo dell’uomo di potere cinico e indecifrabile che gli è stato cucito addosso in tanti anni; lontano da quel senso di angoscia e cupezza che pervade il film Il Divo di Sorrentino. Le lettere sono indirizzate alla moglie Livia, ai figli e ai nipoti, che per Andreotti sono i principali elementi della sua vita «incredibilmente felice», accompagnata da una profonda fede cattolica. Afferma, infatti, nella lettera del 24 settembre 1999, scritta mentre attende con fiducia la sentenza di primo grado di Perugia: «Li affido alla Madonna e ai miei tre punti fermi di spiritualità: santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, padre Pio e il beato Escrivà».


Anche se indirizzate ai familiari le lettere sembrano sempre rivolte a tutti, una sorta di testamento spirituale nel quale emerge l’umanità dello statista, ciò in cui credeva e i suoi riferimenti ideali.

L'UE getti acqua sul fuoco ucraino

L'Ue getti acqua sul fuoco ucraino di Robi Ronza05-05-2014 AA+A++
 
Colloqui di Ginevra 
Parlando ieri alla folla radunata a Roma in piazza San Pietro  per  la preghiera del Regina Coeli, che nel periodo pasquale sostituisce il consueto Angelus, papa Francesco ha definito “grave” la situazione in Ucraina. Tenuto conto che la diplomazia vaticana è forse la più qualificata ed esperta del mondo, e che quindi riguardo alle crisi in atto sulla scena internazionale il Papa dispone di notizie e di valutazioni quanto mai  complete  ed accurate,  non si può che restare colpiti da tale suo giudizio.  Sembra che appunto la diplomazia vaticana si stia specificamente adoperando perché la crisi ucraina non precipiti, e c’è da sperare vivamente che tale suo impegno abbia successo.
Crisi tanto acute non nascono ovviamente dal nulla per perfida volontà di qualche potente… burattinaio.  Alla loro radice non possono che esservi situazioni di effettivo grande disagio o di effettivo grande squilibrio ovvero sia dell’una cosa che dell’altra. Poi però la loro evoluzione dipende sostanzialmente dall’azione delle grandi potenze, se cioè su focolai del genere chi è in grado di farlo versa acqua o versa benzina.  In questo caso c’è chi versa benzina senza risparmio, e sono gli Stati Uniti del presidente Obama,  mentre chi avrebbe tutto l’interesse a versare acqua, ossia l’Unione Europea, non lo fa perché la sua politica estera, non a caso affidata all’inglese Catherine Ashton, è a rimorchio degli interessi nord-atlantici che anche in questo caso non sono quelli dell’Europa.
Come Rodolfo Casadei ha scritto di recente sul settimanale Tempi, “Ferma restando la genuinità del movimento popolare di protesta di Maidan, non c’è dubbio che gli Stati Uniti hanno alimentato le proteste con tutti i mezzi a loro disposizione per infliggere un duro colpo alla Russia di Putin, che nel corso del 2013 li ha sfidati concedendo l’asilo politico al fuggiasco Edward Snowden – l’uomo che ha rivelato l’estensione delle intercettazioni americane – e salvando l’alleato Assad da un intervento militare occidentale. L’America ha fatto fallire l’accordo di compromesso raggiunto fra Yanukovich e Maidan con la mediazione della Unione Europea perché volevano nell’ordine 1)  creare una frattura irreparabile fra Russia e Ucraina; 2) costringere Putin a reazioni difensive che lo compromettessero a livello internazionale; 3) costringere la Germania a una scelta di campo fra il rapporto speciale con la Russia e l’appartenenza all’alleanza occidentale; 4) spegnere sul nascere le ambizioni di Bruxelles di diventare un soggetto geopolitico vero e proprio”. Non ho niente da aggiungere a questo analisi che condivido pienamente. Resta a questo punto da domandarsi fino a quando l’Unione Europea potrà permettersi di non avere una politica estera adeguata e proporzionata al suo peso e alla sua collocazione geopolitica. Una collocazione che fa di essa, con buon pace della Gran Bretagna e dei suoi vicini, non la marca di frontiera dell’area “atlantica” bensì il crocevia di interessi tanto atlantici quanto baltico-danubiani e mediterranei.

Giusta o sbagliata che fosse la situazione fino a quando nel 1991 la “guerra fredda” si concluse con la disfatta dell’Unione Sovietica, a seguito di essa la Russia ha dovuto subire un’imponente e

venerdì 2 maggio 2014

Grillo in crescita: la nuova utopia autoritaria

Grillo in crescita. La nuova utopia autoritaria
 di Stefano Magni02-05-2014 

Il Movimento 5 Stelle, se si votasse oggi, prenderebbe il 27,4% dei voti e sarebbe il secondo partito d’Italia, immediatamente dietro al Partito Democratico, che ha un punto percentuale in più. Lo rileva il sondaggio pubblicato ieri da Tecnè commissionato da TgCom24. Lo stesso rilevamento aggiunge un dato in più: nel corso dell’ultimo mese, il movimento di Beppe Grillo è cresciuto di 6 punti percentuali, mezzo punto solo nell’ultima settimana, mentre il partito di Matteo Renzi perde terreno, lasciando 0,3 punti percentuali solo negli ultimi 7 giorni.
Premesso che i sondaggi vanno presi per quello che sono e che nelle ultime elezioni hanno sbagliato anche di molto, questo 27,4% attribuito al Movimento è comunque un dato che merita un’analisi, perché riflette un’ondata di indignazione, disillusione e scetticismo che è ben visibile, non solo sul Web e sui social network, ma anche nelle relazioni reali, nella cosiddetta “vox populi”, nei movimenti di piazza (come i Forconi) e in tutti i talk show. Nell’immediato si possono individuare almeno tre cause di questa ascesa. La prima è sicuramente la paura dell’euro e dell’Unione Europea in generale, a cui viene attribuita (molto spesso a torto) la causa dell’impoverimento degli italiani, della disoccupazione, della perdita del potere d’acquisto. La seconda è la tendenza a non fidarsi più dei partiti dell’arco costituzionale e una generale disaffezione per la democrazia, rafforzata anche dall’arrivo al potere di ben tre governi consecutivi (Monti, Letta e Renzi) eletti da nessuno. Infine c’è una causa ancor più impalpabile, ma ben visibile, ed è la sfiducia nei confronti degli organi di informazione “ufficiali”, quali giornali, televisioni e organi di comunicazione istituzionali. Si tende a non credere più a nulla di quel che viene vista come una informazione teleguidata dai partiti o da variabili “poteri forti” finanziari e internazionali. E di conseguenza si tende a dar più retta a siti online di informazione “alternativa” o “antagonista”, infarciti delle più bizzarre teorie della cospirazione, senza neppure fare la fatica di andare a verificare le fonti.

giovedì 1 maggio 2014

S.Giovanni Paolo II nel racconto dell'amico Grygiel

San Giovanni Paolo II, un uomo forte perché servo solo della Verità. Il racconto dell’amico filosofo Stanislaw Grygiel

aprile 27, 2014 Annalia Guglielmi
In occasione della canonizzazione (27 aprile), la lunga intervista concessa a Tempi dal pensatore polacco, vicinissimo a Wojtyla fin dagli anni di Cracovia
Incontriamo il professor Stanislaw Grygiel, filosofo ed amico personale di Karol Wojtyla, venerdì 11 aprile a Varsavia, in margine alla conferenza di presentazione dell’edizione polacca del suo libro Dialogando con Giovanni Paolo II, pubblicato in Italia da Cantagalli.
GrygielIl 27 aprile papa Wojtyla sarà fatto santo. Quando e come lo ha conosciuto?
L’ho conosciuto nel 1958, qualche settimana dopo la sua nomina a vescovo ausiliare di Cracovia. Gli chiesi di ammettermi al suo seminario di dottorato in filosofia. Dopo un breve colloquio molto amichevole mi accettò e così mentre ancora studiavo filologia polacca all’università Jaghellonica iniziai il dottorato filosofico all’università di Lublino. Il tema era Sartre e la sua “promessa” di un’etica che non ha mai elaborato.
Karol Wojtyla si dedicò fin dall’inizio ai giovani, soprattutto studenti universitari.  Come era il suo metodo? Cos’era la comunità “L’ambiente”, o la “Famigliola”, come veniva da voi definita?
L’idea di occuparsi pastoralmente dei giovani viene dal cardinale Sapieha, che chiese al giovane sacerdote Jan Pietraszko, che poi divenne vescovo ausiliare di Cracovia, di occuparsi degli universitari, e lo nominò rettore della chiesa di Sant’Anna, che era la chiesa della pastorale universitaria di Cracovia. Fu lui a trovare il modo per svolgere un’opera con i giovani e per i giovani. Wojtyla ha seguito le sue orme. Pietraszko è stato veramente il suo maestro, come scrisse Giovanni Paolo II nel telegramma inviato dopo la sua morte. Pietraszko è Servo di Dio, perché è in corso il processo di beatificazione. Una volta, in presenza di mia moglie Ludmila e mia, il Papa disse al vescovo Jan: «Io imparo la teologia da te».
Il loro metodo era molto semplice: essere presente nelle gioie, nelle difficoltà, in tutti i problemi dei giovani. Per questo la loro pastorale non si limitava alla predicazione. Ovviamente c’erano le prediche, i ritiri spirituali, c’era il confessionale che aveva un posto molto importante. Però la “magna pars” consisteva proprio nell’essere presente. E la presenza di questi due grandi sacerdoti e pastori univa i giovani. Non solo. Univa anche tutti i partecipanti a questo lavoro. Così nasceva già una piccola società, il nucleo di una società nuova. Molto importanti erano anche le vacanze insieme, i ritiri, il mangiare insieme, pregare insieme e insieme lavorare. Tutto qui. Noi imparavamo da loro. Loro imparavano da noi.
giovanni-paolo-ii-canonizzazione-tempi-copertinaChe cos’era per lui la cultura? Come ha educato generazioni di giovani ad avere una libertà di giudizio dentro un regime come quello comunista che opprimeva le coscienze e imponeva la “propria” verità sull’uomo, la storia, la nazione?

L'oro di Dongo nelle mani del PCI

Cultura


Gli inediti
L'oro di Dongo nelle mani del Pci
Latitanti difesi a spada tratta dal Partito comunista, minacciati assalti alle carceri da parte dei partigiani, e sottrazioni alla giustizia di responsabili di delitti efferati: è il quadro impressionante delle illegalità diffuse, nel Comasco, dopo la sparizione del tesoro di Mussolini, il famoso «oro di Dongo», secondo quanto emerge da alcune carte supersegrete che si riteneva fossero andate perdute.


Si tratta di una serie di «riservatissime» inviate al capo del governo dalle massime autorità lariane, verso la fine del 1945, per segnalare l’impotenza dei pubblici poteri, incapaci di restaurare l’ordine. Rapporti allarmati, nei quali sia il questore sia il prefetto della Liberazione, entrambi antifascisti, denunciano pratiche illegali assai estese e le resistenti connivenze ambientali di parte della popolazione con gli «squadroni della morte» che avevano diffuso il terrore tenendo in ostaggio la società civile.


Il questore di Como, l’avvocato Davide Luigi Grassi, liberale, al processo di Padova del 1957 sull’«oro di Dongo» affermò di non disporre di copie di quegli atti ufficiali, i quali però furono trascritti, forse a sua insaputa, da un collaboratore, il capo dell’ufficio politico della Questura lariana Luigi Carissimi-Priori: l’uomo che trafugò anche una copia fotografica del carteggio Churchill-Mussolini.


Carissimi-Priori, prima di morire, consegnò a chi scrive i testi di quei rapporti. Il primo di essi, senza data, e redatto appunto da Grassi, ricostruisce un inedito retroscena sul furto dell’«oro di Dongo». Si tratta di quasi 36 chilogrammi di oggetti aurei, ripescati dal fiume Mera, e depositati insieme a 30 milioni di lire nella filiale della Cariplo di Domaso. Finora si ignorava che la Questura di Como, già il 1° maggio 1945, avesse tempestivamente inviato in alto Lario un funzionario della Banca d’Italia, con scorta armata della polizia, per prelevare il malloppo e chiuderlo nei caveau dell’istituto di emissione. Questa operazione venne però neutralizzata, con un raggiro, dai capi partigiani della 52ª Brigata Garibaldi, vale a dire dagli stessi responsabili della fine di Mussolini.