mercoledì 29 gennaio 2014

La "febbre di vita" di don Giussani

La riflessione di Costantino Esposito per introdurre l'incontro di domani sera nell'aula magna del Politecnico di Bari



martedì 28 gennaio 2014

Comunità aggreganti o individui isolati

La buona città dei «diversi» e la Babele delle caste
 

Luigino Bruni

 


Comunità, una delle parole più ricche fondamentali e ambivalenti del nostro vocabolario civile, sta subendo una mutazione radicale. La comunità vera è sempre stata una realtà tutt’altro che romantica, lineare, semplice, perché in essa si concentrano le passioni più forti e profonde dell’umano, luogo di vita e di morte. Gerusalemme è chiamata "città santa", ma è Caino il fondatore della prima città e il mito fa nascere Roma (e tante altre città) da un fratricidio.

La comunità può essere raccontata senza pericolose riduzioni ideologiche solo se abitiamo e non rifiutiamo questa sua ambivalenza originaria. Ce lo suggerisce la stessa radice latina del termine: communitas, cum-munus, poiché il munus è, ad un tempo, il dono e l’obbligo, ciò che è donato e ciò che deve essere dato o restituito, l’atto gratuito ma anche i munera, cioè i compiti, gli obblighi e le obbligazioni, la gratuità che evolve nel doveroso.

È questa stessa tensione semantica e sociale che ritroviamo nel bene comune e nei beni comuni, che vivono e non muoiono finché la trama dell’obbligo si intreccia con l’ordito della gratuità. Se invece questa tensione vitale si spegne, e restano solo i (presunti) doni o solo gli obblighi, le patologie relazionali sono sempre sull’uscio (se non già dentro casa), il dono diventa faccenda irrilevante per la vita sociale, e gli obblighi si trasformano in lacci.
Una delle ragioni più profonde della dualità generativa della comunità è la sua natura non-elettiva: le persone con le quali siamo legati e allacciati nelle comunità non le scegliamo, se non in minima parte. Il cum non lo creiamo noi con le nostre scelte, ma ci precede, è più grande di noi. I nostri compagni di comunità ce li troviamo accanto, alcuni non ci piacciono, molti non li sceglieremmo come amici; eppure sono inevitabilmente lì, noi dipendiamo da loro e loro da noi.

La non-elettività e l’interdipendenza sono la sostanza della comunità, e accomunano tra di loro la classe scolastica, i luoghi di lavoro o la comunità cittadina. Il compagno di classe, la collega, il vicino di casa condizionano la mia vita per il solo fatto di insistere sul mio stesso terreno, anche quando cerco di evitarli, e anche se non li amo, li ignoro o li combatto. Così possiamo utilizzare la stessa espressione "comunità" per chiamare famiglia, scuola, impresa, il nostro Paese, finché ci sentiamo dentro gli stessi cum e gli stessi munera.
La non-elettività della comunità inizia già nella prima comunità originale, la famiglia. Non scegliamo né i genitori, né i figli, né fratelli e sorelle. E anche se è vero che scegliamo la moglie o il marito, è ancora più vero che ciò che negli anni dell’innamoramento scegliamo dell’altro coesiste con tutta una parte dell’altro che non abbiamo scelto, perché sconosciuta a entrambi.

Una parte non scelta che cresce negli anni, fa fiorire l’innamoramento in agape, e dà una dignità immensa all’amore coniugale fedele, perché la fedeltà più preziosa e costosa è quella alla parte non conosciuta e non scelta dell’altro (e di se stessi). In generale, i rapporti che nascono elettivi (amicizia, innamoramento …) diventano capaci di generare buone comunità quando si aprono alla dimensione non elettiva degli amici e di accogliere i non-amici. Altrimenti restano consumo, che può anche nutrire ma che non genera.

I gruppi umani dove esercitiamo le dimensioni più significative della nostra umanità non sono elettivi, non li scegliamo. È nella convivenza quotidiana con questa non-elettività che apprendiamo i codici relazionali e spirituali cruciali della vita, combattiamo il narcisismo (che oggi è pandemia sociale) e diventiamo adulti. Un apprendistato permanente, che assume un valore altissimo quando si resta, per una misteriosa fedeltà a se stessi, in comunità nelle quali non ci si riconosce più, quando arriva una sorta di "risveglio" e si ha l’impressione forte di aver sbagliato comunità e quasi tutto. A chi riesce a restare, dopo questi risvegli dolorosi, può accadere che da figli di quella comunità si ritrovino madri e padri di essa.

La diversità è il lievito della comunità. Senza di esso la vita comunitaria non si eleva, il suo pane quotidiano resta azzimo. Oggi è molto forte la tendenza a creare comunità elettive, a uscire cioè da comunità non scelte e a entrare in comunità scelte. Con un ruolo decisivo del web, stiamo assistendo al proliferare delle cosiddette "comunità di senso", quei gruppi che nascono attorno a interessi comuni, dal cibo agli hobbies, dagli interessi letterari all’amore per alcune specie di animali, e molto altro, e spesso anche molto buono. Nuove "comunità" di simili, spesso senza corpo, che sostituiscono le comunità corpose di dissimili che sono in rapido dissolvimento. Si fugge dalle nuove diversità difficili dei nostri quartieri multietnici, e ci si ripara da quella diversità non scelta creando altre comunità.

È questa un’espressione del cosiddetto "comunitarismo", un eterogeneo movimento che ha nella costituzione di "comunità di simili" la sua cifra tipica. Scuole, condomini, quartieri, web-communities, luoghi nei quali si cerca di costruire comunità senza le "ferite" delle diversità sotto casa. Ma uno dei grandi messaggi che ci arriva dalla sapienza millenaria della nostra civiltà è l’insufficienza delle "comunità di simili" per la costruzione di una buona vita. Se continueremo ad abbandonare le comunità naturali, e quindi i territori e i corpi politici, precipiteremo presto in una forma di neo-feudalesimo castale, che era la condizione in cui si trovava l’Europa dopo il crollo dell’impero romano. Uno scenario che si sta già compiendo nei tanti "Davos" del capitalismo finanziario, dove nuove caste, totalmente separate e immuni dalle comunità, ci governano ma non ci vogliono né possono vedere e toccare.
Quando imprenditori manager e finanzieri non toccano più i corpi delle comunità vitali e meticce, producono danni immensi, a volte fatali per le comunità dei nuovi intoccabili e fuori-casta. Nel vecchio feudalesimo i pochi ricchi vivevano in rocche fortificate, e attorno a essi scorribande, degrado, deserto. Può non essere lontano il giorno in cui questi nuovi feudatari e bramini usciranno dalle loro roccheforti, e fuori non troveranno più strade, sicurezza, beni comuni, e neanche eliporti sgombri dove atterrare.

Un grande racconto fondativo sul decadimento della comunità dei diversi nelcomunitarismo dei simili è la Torre di Babele (Genesi 11). La comunità salvata e rinata dopo il diluvio si radunò in un solo luogo, con una sola lingua, con una alta torre. Dopo ogni "diluvio" (crisi epocale) è sempre forte nelle comunità la tentazione di chiudersi tra simili, di espellere i diversi, di non disperdersi sulla terra. Dove non c’è diversità, promiscuità, contaminazione non c’è fecondità: i figli non nascono, le comunità diventano incestuose, e presto scompaiono.

La comunità senza diversità si trasforma presto in una forma di fondamentalismo, di idolo a se stessa. È stata la convivenza conviviale e litigiosa delle nostre città di diversi a generare quell’architettura, arte, cultura, economia che a distanza di secoli continua ad amarci, nutrirci e a salvarci. Questa Europa post-feudale della cittadinanza e delle diversità oggi è minacciata dalle nuove Babele della finanza e delle rendite, chiuse nelle loro cittadelle fortificate. Noè il giusto aveva costruito un’arca (barca-cesto) per salvare la varietà e molteplicità delle specie e dei viventi, una varietà-diversità che gli uomini radunati a Babele volevano, e vogliono, eliminare.

La dispersione del comunitarismo di Babele è la pre-condizione per l’edificazione delle mille comunità popolate da molteplici lingue, colori, varietà, diversità, bellezza: «Sia data gloria a Dio per la varietà delle cose» (Gerard M. Hopkins).
l.bruni@lumsa.it

Luigino Bruni

sabato 25 gennaio 2014

Giornata Del Banco Farmaceutico


   

COMUNICATO STAMPA
SOCIALE: SABATO 8 FEBBRAIO
LA XIV GIORNATA DI RACCOLTA DEL FARMACO
Quest’anno lo slogan dell’iniziativa è:
“DONA UN FARMACO A CHI NE HA BISOGNO”
Sabato 8 febbraio 2014
si terrà in tutta Italia la
XIV Giornata di Raccolta del Farmaco
.
Recandosi nelle farmacie che aderiscono all’iniziativa, si potrà
acquistare e donare farmaci da automedicazione che verranno destinati alle persone in stato di povertà
su tutto il  territorio nazionale.
La Giornata è realizzata dalla Fondazione Banco Farmaceutico onlus in collaborazione con
Federfarma e  CDO Opere Sociali e si terrà in oltre 3400 farmacie distribuite in 94 province e
in più di 1.200 comuni.
Quest’anno la raccolta si svolgerà per la prima volta anche a Crotone, Arezzo, Caserta, nella provincia autonoma di Bolzano e nella Repubblica di San Marino.
Sabato 8 febbraio, nelle farmacie che esporranno la locandina della Giornata di Raccolta
del Farmaco, oltre 14.000 volontari  accoglieranno i cittadini che vorranno aderire all’iniziativa.
 A beneficiare della raccolta saranno le oltre 600.000 persone che quotidianamente vengono assistite
 dai1.506 enti assistenziali  convenzionati con la Fondazione Banco Farmaceutico in tutta Italia.
In 13 anni, durante la Giornata di Raccolta del Farmaco, sono stati raccolti oltre 3.050.000 farmaci,
per un controvalore commerciale superiore ai 20 milioni di euro.
La Giornata di Raccolta del Farmaco si svolge sotto l’Alto Patronato della Presidenza della
Repubblica e grazie al sostegno di ASSOSALUTE  (Associazione nazionale delle industrie
farmaceutiche dell’automedicazione) di FOFI  (Federazione Ordini Farmacisti Italiani), del
le aziende che hanno risposto all’appello di Banco Farmaceutico con proprie donazioni:
Fondazione
Banco Farmaceutico onlus
viale Piceno, 18 · 20129 Milano MI
tel +39 02 70104315 · fax +39 02 700503735
info@bancofarmaceutico.org
www.bancofarmaceutico.org
C.F. 97503510154
MEDIA PARTNER
A Manfredonia la Giornata del Banco Farmaceutico si svolgera' presso la farmacia Guerra, in piazza Duomo

Vita di Don Giussani




Giovedì 30 gennaio 2014, alle ore 19.00, al Politecnico di Bari, Alberto Savorana presenterà il libro da lui stesso scritto 'Vita di don Giussani'. Modera l'incontro il Prof. Costantino Esposito, docente di Filosofia presso l'Università di Bari


venerdì 24 gennaio 2014

'Minà mi ha aperto gli occhi'

SEMI DI PACE

Mina che mi ha aperto gli occhi

di Carlo Giorgi | gennaio-febbraio 2014
Un murale dedicato al giovane copto Mina Danial.
Se c’è un aspetto positivo della rivoluzione egiziana è che, per la prima volta nella storia, ha dato l’occasione ai giovani copti di far sentire liberamente  la propria voce. Consentendo ad una nuova generazione di musulmani e cristiani di trovarsi fianco a fianco, condividendo il sogno e la battaglia per uno Stato più moderno e giusto.
In questo senso il quotidiano egiziano Al Ahram ha pubblicato ultimamente una storia che merita di essere raccontata. Si tratta dell’amicizia di due giovani: Tarek el-Taybe, 25 anni, fondamentalista musulmano, e Mina Danial cristiano di 22 anni.
Tarek e Mina si incontrano per la prima volta il 28 gennaio 2011, il famoso «venerdì della rabbia» giorno delle prime manifestazioni oceaniche, dei primi scontri tra esercito e sostenitori del presidente Hosni Mubarak da una parte e gli oppositori del regime dall’altra. Piazza Tahrir, da grande svincolo stradale del Cairo, si è trasformata in un campo di battaglia: fumogeni e bandiere, gente che si aggrega e scappa da ogni parte, spari e cariche delle forze di sicurezza. Nella concitazione degli scontri, un proiettile colpisce Mina ad una gamba. «Sei ferito?», gli domanda Tarek trovandoselo di fianco casualmente e vedendolo in difficoltà. «Sì, ma è una cosa da poco…», gli risponde ridendo Mina. «Non è vero! – esclama Tarek – Devi farti controllare la ferita! » ed insiste, pur non conoscendolo, per portarlo subito in ospedale. Basta questo: i due diventano amici inseparabili, un’amicizia istintiva, di pancia, che nasce dalla solidarietà spontanea di Tarek e dal vedersi fianco a fianco, impegnati sulla stessa barricata. Quando Tarek e Mina si incontrano però, non possono minimamente sospettare di essere «irrimediabilmente» separati; letteralmente agli antipodi per visione del mondo, convinzioni religiose e storia personale.
Tarek da parte sua era conosciuto tra gli amici come «il salafita», uno che fino a quel momento aveva sempre semplicemente odiato i cristiani. «Ho iniziato a frequentare la scuola salafita all’età di 13 anni – racconta -. Secondo quel che ho sempre pensato, i cristiani erano eretici e diventare loro amico costituiva un grave peccato. I primi tempi della nostra amicizia non osavo manifestare queste mie convinzioni a Mina. Quando lui mi diceva che mi voleva bene gli avrei dovuto rispondere che lo odiavo… Erano idee fanatiche ben radicate in me, per toglierle di mezzo c’è voluto del tempo».
Mina invece nasce nella cittadina di Sanabo, governatorato di Assiut, Alto Egitto. È il più giovane di sette fratelli e, la sua, è l’unica famiglia cristiana in una via interamente musulmana. Fin da bambino rivela un carattere d’oro, sorride sempre, riesce a farsi voler bene da tutti. Nel villaggio purtroppo però la convivenza tra credenti di fedi diverse peggiora anno dopo anno. Cresce il fanatismo islamico e la piccola comunità cristiana viene attaccata senza motivo. Tanto che, quando Mina ha due anni, la famiglia Danial decide di partire, trovando rifugio ad Ezzbet El-Nakhl, sobborgo povero del Cairo. Una periferia urbana segnata dalla miseria, fatta di case malandate e strade dove i bambini giocano tra pozzanghere e immondizia. È proprio la povertà del Cairo e la conoscenza diretta dei diseredati, che fa crescere in Mina un forte desiderio di giustizia, spingendolo ad un impegno civile e politico sempre maggiore. Si iscrive alla facoltà di Economia. È affascinato dalla figura di Che Guevara, dal mito socialista della giustizia sociale. In lui si fa strada l’idea che in Egitto i poveri siano in fondo una «palla presa a calci nella partita tra islamisti e liberali»; e che l’unico modo per migliorare la loro condizione, sia che cristiani e musulmani non si combattano a vicenda ma rivendichino uniti i propri diritti. Aderisce al gruppo giovanile Giustizia a libertà. È l’ultimo giorno del 2010. La rivoluzione egiziana deve ancora scoppiare e una bomba esplode di fronte alla chiesa dei Due Santi, ad Alessandria, causando 25 morti. Mina prende un’automobile nella notte e corre ad Alessandria. Vede i corpi straziati, rimane profondamente colpito. Per una settimana si rifiuta di mangiare. È pronto per impegnarsi con tutte le sue forze nella rivoluzione, che scoppia solo pochi giorni dopo, quando incontra Tarek in piazza Tahrir.
L’amicizia di Tarek e Mina dura solo pochi mesi; mesi intensi di sit-in, proteste, manifestazioni e tante occasioni per parlare e stare insieme. Il 9 ottobre del 2011, Mina viene ucciso nella strage di Maspero, diventando un’icona della rivoluzione egiziana,tanto che  il suo volto si trasforma in un logo, in un simbolo utilizzato anche dai Fratelli Musulmani. Nella camera mortuaria di Mina, dopo ore di veglia, quando anche la fidanzata e i parenti se ne sono andati, l’ultimo ad andarsene è proprio Tarek. Lo devono trascinare via: «I Fratelli musulmani sono tutti ipocriti – si sfoga Tarek -: pubblicamente lo indicano come un martire ma lontano dai microfoni parlano di lui come di un eretico!».
Dal momento della morte di Mina, Tarek cambia, abbandona i salafiti e oggi si considera un musulmano moderato, fiero di avere molti amici cristiani. «Mina mi ha aperto a una nuova prospettiva, insegnandomi cosa sia l’umanità - confessa -, ha aperto i miei occhi e ho visto finalmente cosa sono i cristiani: persone buone, gentili, caritatevoli e non dei corrotti, come sostengono gli estremisti…». Come Mina, che era amato da tutti e la cui storia ha lasciato il segno in tante persone. «Come può un uomo commuovere tanti cuori se Dio stesso non lo ama?», si domanda Tarek.



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situazione delle carceri: intervento di don Filippo Santoro, vescovo di Taranto (2 Parte)


La condizione delle carceri: intervento di don Filippo Santoro, vescovo di Taranto (1 parte)








giovedì 23 gennaio 2014

Gli scontri a Kiev: una testimonianza

Cari amici italiani,

Sono grato per le vostre preghiere e per l’attenzione agli avvenimenti nel nostro paese!

Qualche parola sulla situazione a Kiev. Solo fatti:

Nella via Grushevskogo, che porta al Parlamento, sono già due notti che si susseguono scontri tra le forze speciali di Stato, “Berkut”, e gruppi di manifestanti di orientamento radicale. I manifestanti lanciano cocktail molotov, i Berkut lanciano fumogeni e granate stordenti, sparano con proiettili di gomma. Attorno ai “punti caldi” si sono radunate alcune migliaia di persone, che o si coinvolgono nello scontro, o aiutano i feriti, o semplicemente osservano la situazione, o ancora con urla e pianti chiedono al presidente di coinvolgersi e fermare il conflitto. Da entrambe le parte ci sono persone che soffrono, e io non mi prendo il diritto di dare un giudizio generale ai comportamenti di entrambe le parti.

Ma io non posso tacere quando:

1. I corpi speciali sparano ai giornalisti: alcuni giornalisti si trovano in ospedale + alcuni sono stati trattenuti e non vengono rilasciati
2. Davanti ai miei occhi le forze speciali trattengono uno dei manifestanti, che si era arrampicato sull’arco dello stadio della Dinamo. Alla vista di tutti lo prendono e iniziano a picchiarlo con i manganelli e prendendolo a calci.
3. Davanti ai mei occhi i “Berkut” picchiano uno dei manifestanti, lo spogliano completamente (ci sono -12 gradi) e lo spingono verso gli altri manifestanti, ridendo e mostrando il dito medio
4. I “Berkut” preferiscono agire di notte, cosi che i kieviani non facciano in tempo a difendersi e soccorrere i feriti. Aiutare non per ragioni di ordine politico ma il valore dell’umanità.
5. Ai “Berkut” è stato rilasciato un permesso scritto che consente l’uso di armi, e nel caso di situazione di necessità gli è consentito di aprire il fuoco sulla popolazione pacifica. Per ora tale misura è solo per spaventare i manifestanti, ma che cosa avverrà poi….
6. Stanotte per Kiev giravano gruppi di gente (si riconoscono per la caratteristica di portare tutti abiti sportivi e tute da ginnastica) con manganelli, che fermano i manifestanti, li picchiano o li portano da altre parti. Le stesse persone spaccano le macchine con esposte le bandiere ucraine a manganellate.
Alcuni manifestanti hanno fermato alcuni di questi soggetti. Li hanno portati al quartiere generale del Maidan dove hanno confessato davanti a una telecamera che gli sono stati promesse 220 grivne (20 euro), a molti di loro hanno distribuito droghe leggere e gli hanno concesso assoluta libertà di movimento.
7. Nelle ultime 24 ore sono scomparse senza lasciare traccia alcuni dei manifestanti piu attivi
8. Sui cellulari di alcuni cittadini manifestanti inziano ad arrivare messaggi anonimi con minacce: “siete registrati come partecipanti a disordini di massa”
9. Stanotte su un giornale ufficiale sono state pubblicate alcune leggi di orientamento dittatoriale, approvate dai deputati del parlamento il 16.1 per alzata di mano (!!!!), la votazione è stata fatta in 5 secondi

L’unica minaccia fatta agli abitanti del mio paese e della mia città è un potere criminale, pronto a versare sangue e terrorizzare la popolazione con qualsiasi mezzo. Ma noi continuiamo pacificamente a difendere il nostro diritto di vivere in uno stato dove la vita di un uomo e la sua libertà sono al di sopra di tutti. Ogni giorno siamo sempre più uniti, e allo stesso tempo sempre più grati del vostro sostegno.


(Alex Sigov)

mercoledì 22 gennaio 2014

L'America Latina rinnova quest'anno i suoi Presidenti (Alver Metalli)

Quelli che vogliono restare: Evo, Dilma e Santos; quelli che vogliono tornare, Vázquez, e quelli che vogliono arrivare, Larrañaga, Neves e Zuluaga. Foto: Illustrazione Ippoliti
Sette paesi del continente latinoamericano apriranno le urne ai loro concittadini per eleggere il presidente nel corso del 2014. Un numero considerevole, per estensione e popolazione coinvolta. In ordine di apparizione, i sette paesi sono: El Salvador, Costa Rica, Panama, Colombia, Brasile, Bolivia e Uruguay.
I primi ad andare alle urne, dunque, saranno i salvadoregni, domenica 2 febbraio. La continuità politica del governo degli ex-guerriglieri del FMLN è in discussione; le inchieste realizzate a gennaio da diversi istituti di sondaggio danno sostanzialmente favorito il partito ARENA con il 35.3 per cento contro il 32.7 del FMLN, mentre la terza coalizione, chiamata “Unidad”, occupa la terza posizione nel gradimento dei salvadoregni con il 14.4 per cento di consensi. Quanto ai candidati individualmente presi, cioè separati dal partito di appartenenza, Norman Quijano dell’oppositore ARENA raccoglie sostanzialmente la stessa percentuale (35.3%), Salvador Sánchez Cerén un punto meno rispetto ai voti del FMLN (31.8%), e Tony Saca di “Unidad” il 16%.
Costa Rica e Panama voteranno rispettivamente il 2 febbraio e il 4 maggio, in Colombia le elezioni saranno invece il 25 maggio e si decideranno tra Juan Manuel Santos, attuale primo cittadino, e Oscar Iván Zuluaga, candidato di Álvaro Uribe, già presidente dal 2002 al 2010. Molto dipenderà dai negoziati in corso a Cuba, il cui esito, anche parziale, lancerà il presidente in carica verso il secondo mandato.
Il Brasile fa continente a sé. Il vento di poppa non spinge più come prima l’economia del gigante latinoamericano ma anche così Dilma Rousseff, del Partito dei lavoratori, resta favorita nelle elezioni del 5 ottobre anche se il margine si è ridotto considerevolmente dopo le proteste di piazza di giugno scorso, alla vigilia della visita papale a Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù. L’erede di Lula ha di fronte Aécio Neves, del Partido della Social Democracia Brasileña (PSDB), e Eduardo Campos o Marina Silva, del Partido Socialista che per il momento precede con una intenzione di voto favorevole del 50 per cento circa.
Evo Morales tenterà di essere confermato per un terzo mandato dai boliviani il 5 ottobre, grazie ad una discussa sentenza del Tribunale costituzionale che l’ha abilitato a presentarsi derogando al limite costituzionale che ne stabilisce due consecutivi. Il grimaldello che ha consentito a Morales di ottenere la deroga è tutto nel suo primo mandato, iniziato nel 2006, che, appunto, ha riformato la costituzione tre anni dopo e che Evo Morales ha richiesto e ottenuto che non venisse computato come concluso e consumato. I sondaggi lo danno come favorito, ancor più dopo la “doppia tredicesima” erogata in novembre ai lavoratori boliviani per celebrare la crescita del 6,5 per cento del prodotto nazionale bruto (PBI).
L’Uruguay chiuderà la maratona elettorale latinoamericana il 26 ottobre. La coalizione di sinistra Frente Amplio è saldamente al timone della piccola nazione sudamericana dal 2004, prima con il socialista Tabaré Vázquez, poi con l’ex-tupamaro José Pepe Mujica. Il primo è tornato prepotentemente in pista ed i sondaggi indicano che al momento è il favorito degli uruguayani che lo preferiscono a Jorge Larrañaga, il rivale del Partito nazionale.
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Quelli che vogliono restare: Evo, Dilma e Santos; quelli che vogliono tornare, Vázquez, e quelli che vogliono arrivare, Larrañaga, Neves e Zuluaga. Foto: Illustrazione Ippoliti

venerdì 17 gennaio 2014

Emergenza Filippine: diario dal campo



Emergenza Filippine – Diario dal campo: Il bilancio di due mesi di aiuti
Home > Notizie > Emergenza Filippine – Diario dal campo: Il bilancio di due mesi di aiuti
Pubblicata il 2 dicembre 2013
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A due mesi dal tifone Haiyan che ha colpito le Filippine, prosegue la raccolta fondi di Fondazione AVSI per sostenere le vittime, con l’aiuto delle Suore Domenicane della Beata Imelda, da quarant’anni nell’arcipelago.
Suor Margherita Dalla Benetta è la direttrice della Domenican School of Calabanga, una scuola sostenuta da AVSI che accoglie più di 800 bambini a pochi chilometri da Manila. Suor Margherita e i suoi collaboratori sono attivi sin dalle prime ore successive alla tragedia per aiutare le vittime del tifone. In due mesi, grazie anche al sostegno dei donatori e alla campagna Emergenza Filippine è stato possibile:
  • Inviare viveri e medicine di prima necessità alle famiglie più severamente colpite dal tifone
  • Dare assistenza finanziaria per i ripari e ricostruire 8 case distrutte da Haiyan
  • Organizzare la distribuzione di materiale scolastico per circa 1300 studenti
  • Provvedere all’assistenza psicologica di 150 giovani con disturbi causati dal trauma
  • Accogliere per circa tre mesi alcuni studenti rimasti senza casa

2 dicembre 2014

mercoledì 15 gennaio 2014

Mi percepivo una 'cosa' e mi sono scoperta una 'persona'





Chi sono io per valere un prezzo così alto? Sono stata pagata con il sangue di trecento frustate e con la pena di sei anni di carcere. La mia pace può forse costare quanto i tormenti di un uomo buono? Ero un’impiegata commerciale in una grande compagnia petrolifera ma il mio stipendio e la mia istruzione non erano sufficienti a comprarmi la dignità. Vivevo sottomessa a Dio, a mio padre e ai fratelli, al capoufficio. Non uscivo sola di casa, non guidavo, non potevo decidere nulla, non mostravo il mio volto. Vivevo come esiste una cosa. Ero una cosa.
Qualche mese fa un collega di lavoro ha cominciato a guardarmi con occhi diversi. Da principio pensavo che mi desiderasse come si vuole una donna ma poi ho capito che nel suo sguardo c’era qualcosa di più, la capacità di vedere in me una persona. Abbiamo cominciato a parlarci, non con la voce ché sarebbe stato uno scandalo, ma attraverso una chat, benché le nostre scrivanie fossero una di fronte all’altra. Ci scambiavamo parole con la tastiera e sguardi oltre il divisorio che ci separava.
La prima cosa che ho imparato è stata come ripulire la cache dopo ogni conversazione; la seconda, iniziare a pensare a me stessa come a qualcosa che ha un valore, un essere unico e irripetibile, che poteva essere amato e non solo avuto e usato. Non mi sono innamorata di lui, mi sono innamorata del suo sguardo su di me.
Nella chat che utilizzavamo non eravamo soli, c’erano molti altri suoi amici, uomini e donne che ho imparato a conoscere e nei quali ritrovavo lo stesso modo di trattarmi, persone alle quali potevo mostrare il mio vero volto, quello dell’anima, non quello che ero solita nascondere sotto il velo. Il desiderio di conoscere l’origine di quel modo di essere divenne pressante.
arabia-saudita-donne-velo-islamico-hÈ stato così che mi si è mostrato lo sguardo che sta prima di ogni altro sguardo, il volto che sta alla radice di ogni volto, gli occhi che soli possono guardare alla miseria dell’uomo senza averne schifo, l’amore che fa consistere ogni cosa.
La cosa che ero è diventata persona, il nulla che sono è divenuto prezioso. La vita ha trovato la pace di un senso. Non potevo continuare a vivere come prima e ho chiesto di diventare cristiana. Sono stata battezzata con l’acqua del dispenser in pausa pranzo.
Credevo, con questo passo, di essere arrivata al termine del mio cammino, di aver posato il primo piede in paradiso ma mi sbagliavo, è stato l’inizio di un inferno. La mia nuova vita non sopportava più di rimanere costretta nelle regole di prima. Avrei voluto buttare il velo, uscire da sola, frequentare i miei fratelli cristiani, vivere la mia fede alla luce del sole ma non potevo perché la mia famiglia mi avrebbe denunciata alla polizia religiosa e fatta arrestare. Non ero uscita dalla gabbia dell’islam per finire in una prigione di Khobar. Mi sembrava tutto una grande presa in giro: liberata per diventare prigioniera. Forse che il Signore Gesù mi aveva trovata con l’unico scopo di consegnarmi agli aguzzini? No, non poteva essere. L’unica mia speranza era di fuggire per sempre dall’Arabia Saudita.
Parlai a lungo con il mio collega di questo progetto e, alla fine, questi si risolse di aiutarmi. Trovò una famiglia in Libano disposta ad accogliermi, comprò il biglietto aereo, falsificò i miei documenti aggiungendo l’autorizzazione di mio padre a lasciare il paese, organizzò ogni cosa del dettaglio. Alla fine, con il cuore in gola, salii sul volo per Beirut. Lui rimase e fu arrestato; per aver organizzato la mia fuga, per aver falsificato i documenti fu condannato a trecento frustate e sei anni di carcere.
Ora vivo in Svezia, da sola, in un piccolo appartamento; faccio l’impiegata commerciale in un’azienda che esporta legno, vado al lavoro, torno a casa, sbrigo le faccende e il giorno dopo sono di nuovo in ufficio. Non porto più il velo e la domenica vado a Messa ma non passa giorno senza che mi domandi se questa mia vita valga la crocifissione del mio amico.
12 maggio 2013 – Il tribunale di Khobar (Arabia Saudita) ha condannato un cristiano libanese, residente in Arabia, a sei anni di carcere e 300 frustate per aver svolto una parte attiva nella conversione al cristianesimo di una donna saudita sua collega di lavoro. La donna, con l’aiuto di un altro collega, è poi fuggita prima in Libano e poi in Svezia per sottrarsi alla vendetta della famiglia. Il collega che l’ha aiutata è stato, a sua volta, condannato a 200 frustate e due anni di carcere.