giovedì 25 gennaio 2018

ZAZ - Si jamais j'oublie (Clip officiel)

Shoa, Intervista di TV2000 a Liliana Segre

Shoah, Liliana Segre: "Saremo dimenticati come migranti annegati" 
 
"Stiamo morendo tutti, ormai siamo rimasti pochissimi, le dita di una mano, e quando saremo morti proprio tutti, il mare si chiuderà completamente sopra di noi nell'indifferenza e nella dimenticanza" dice la neo senatrice a vita e sopravvissuta ad Auschwitz in una intervista a Tv2000 Tweet Liliana Segre, una vita per la memoria e la libertà Liliana Segre senatrice a vita Sopravvisse ad Auschwitz 23 gennaio 2018 "Noi testimoni della Shoah stiamo morendo tutti, ormai siamo rimasti pochissimi, le dita di una mano, e quando saremo morti proprio tutti, il mare si chiuderà completamente sopra di noi nell'indifferenza e nella dimenticanza. Come si sta adesso facendo con quei corpi che annegano per cercare la libertà e nessuno più di tanto se ne occupa". Lo ha detto la neo senatrice a vita e sopravvissuta ad Auschwitz, Liliana Segre, in un'intervista a 'Bel tempo si spera' su Tv2000, in onda domani, 24 gennaio alle ore 8. La Segre, una delle ultime sopravvissute italiane al campo di concentramento di Auschwitz è stata nominata, nei giorni scorsi, senatrice a vita dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Intervistata da Lucia Ascione nella sua abitazione milanese, riporta alla luce i momenti drammatici dell'Olocausto, dalle leggi razziali del '38, la deportazione ad Auschwitz, la sopravvivenza nella sezione femminile del campo, la liberazione, gli anni del silenzio e quelli, invece, della testimonianza. Giovedì 25 gennaio Liliana Segre sarà presente al Quirinale alla celebrazione del 'Giorno della Memoria'. "Il mio silenzio - ha detto la Segre - è durato 45 anni. Sono dovuta diventare nonna. È stata una completezza, una grande esperienza di vita e mi ha dato la forza di aprirmi dopo questo silenzio pesantissimo. Ma finalmente, e devo dire è stata una grande liberazione, ci sono stati dei fatti che piano piano mi hanno portato a diventare una testimone della Shoah". "La notte nel lager - ha ricordato la Segre - si sentivano le grida di coloro che stavano andando al gas. Si sentiva il richiamo delle mamme che stavano perdendo i bambini in tutte le lingue d'Europa e dei mariti che avevano perso le mogli. E noi sapevamo dove stavano andavano". "Io ho voluto sempre vivere - ha proseguito la Segre - Io non sono in vita perché ho voluto vivere, perché tutti volevano vivere. E cos'è la spinta alla vita, lo vediamo negli ospedali. Quando uno sceglie il suicidio si discute su questo libero arbitrio. Ma in realtà quanti sono quelli che staccano la spina all'ospedale? Quelli che già sapendo che il giorno dopo saranno operati che avranno una cosa dolorosissima da affrontare, quanti sono quelli che staccano la spina ? La spina alla vita è connaturata in noi, da quando usciamo dall' utero gridando, fino all'ultimo minuto della vita uno è in vita. E io ai ragazzi a cui parlo regolarmente dico sempre la vita è stupenda, di amarla e non perdere un minuto di questa vita. Non c'è solo l'orrore di Auschwitz per fortuna, infatti quella si chiamava morte. La vita può avere dei risvolti stupendi e la spinta che c'è dentro ogni essere umano alla vita è grandissima". -
 
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L'Europa per Papa Francesco (A.Spadaro)

MONDO
di Francesco non è una «cosa»
Anticipazione
Come la diplomazia del dialogo di papa Bergoglio sta cambiando la politica globale. L’Europa?
È un «processo», «si fa»
Integrare, dialogare, generare sono i tre verbi che Francesco ha usato per lanciare «la sfida di “aggiornare” » l’idea stessa di Europa alla luce di un «nuovo umanesimo ». Tre verbi, tre processi. Questa dinamica inclusiva allarga «l’ampiezza dell’anima europea». Francesco sa che quest’anima nasce dall’incontro di civiltà e di popoli. Sa dunque che l’Europa è «più vasta degli attuali confini dell’Unione»: gli oltre cinquecento milioni di europei, rappresentati dai ventotto paesi membri dell’Unione europea, non esauriscono l’Europa, che è chiamata a diventare luogo vitale di «nuove sintesi».
Perché l’Europa non è una «cosa», ma un «processo». Non è un sostantivo, ma un verbo. L’Europa non «è», ma «si fa». A questo punto è chiaro, con assoluta evidenza, perché il papa abbia scelto l’Albania e la Bosnia come prime tappe dei suoi viaggi nel vecchio continente: non ha scelto il luogo dell’anima definita dal centro. Per Francesco la definizione viene dalle richieste di accesso, dalle possibilità aperte nel futuro, dalle pressioni ai lati e ai fianchi.

martedì 16 gennaio 2018

Omelia di Papa Francesco in Cile

SANTA MESSA PER LA PACE E LA GIUSTIZIA
OMELIA DEL SANTO PADRE
Parque O’Higgins (Santiago del Cile)
Martedì, 16 gennaio 2018


«Vedendo le folle» (Mt 5,1). In queste prime parole del Vangelo che abbiamo appena ascoltato troviamo l’atteggiamento con cui Gesù vuole venirci incontro, il medesimo atteggiamento con cui Dio ha sempre sorpreso il suo popolo (cfr Es 3,7). Il primo atteggiamento di Gesù è vedere, guardare il volto dei suoi. Quei volti mettono in movimento l’amore viscerale di Dio. Non sono state idee o concetti a muovere Gesù... sono stati i volti, le persone; è la vita che grida alla Vita che il Padre ci vuole trasmettere.
Vedendo le folle, Gesù incontra il volto della gente che lo seguiva e la cosa più bella è vedere che la gente, a sua volta, incontra nello sguardo di Gesù l’eco delle sue ricerche e aspirazioni. Da tale incontro nasce questo elenco di beatitudini che sono l’orizzonte verso il quale siamo invitati e sfidati a camminare. Le beatitudini non nascono da un atteggiamento passivo di fronte alla realtà, né tantomeno possono nascere da uno spettatore che diventa un triste autore di statistiche su quanto accade. Non nascono dai profeti di sventura che si accontentano di seminare delusioni. Nemmeno da miraggi che ci promettono la felicità con un “clic”, in un batter d’occhi. Al contrario, le beatitudini nascono dal cuore compassionevole di Gesù che si incontra con il cuore compassionevole e bisognoso di compassione di uomini e donne che desiderano e anelano a una vita beata; di uomini e donne che conoscono la sofferenza, che conoscono lo smarrimento e il dolore che si genera quando “trema la terra sotto i piedi” o “i sogni vengono sommersi” e il lavoro di tutta una vita viene spazzato via; ma che ancora di più conoscono la tenacia e la lotta per andare avanti; ancora di più conoscono il ricostruire e il ricominciare.

Ricoeur: l'Europa smemorata



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RICOUER
L’Europa smemorata
Inedito
Di fronte al fenomeno delle migrazioni, il filosofo francese invitava l’Occidente a ricordare la propria storia di accoglienza e integrazione
La cultura europea presa nel suo insieme è forse la sola che ha assunto il compito considerevole di coniugare in modo così costante convinzioni e critica. Così il cristianesimo, a differenza dell’islam, ha dovuto sempre venire a patti con il suo avversario razionalista e interiorizzare la critica in auto-critica. In un certo senso la crisi non è un accidente contingente, meno ancora una malattia moderna: è costitutiva della coscienza europea. L’eterogeneità delle tradizioni fondatrici e la discordanza tra convinzioni e critica mi hanno indotto a pronunciare la parola fragilità.
È su questa fragilità dello spazio d’esperienza dell’Europa che vorrei insistere prima di rivolgermi verso quella della coscienza del futuro. In effetti si passa facilmente dalla fragilità alla patologia. Quest’ultima si presenta come una crisi della memoria e della tradizione. Crisi della memoria: tocchiamo qui un paradosso sconcertante; spesso le regioni, le nazioni o i popoli soffrono a volte di un eccesso di memoria, altre di un difetto di memoria. Nel primo caso, illustrato tragicamente dall’ex Jugoslavia, ogni comunità vuole ricordarsi solo delle epoche di grandezza e gloria, e per contrasto solamente delle umiliazioni subite. Nel secondo caso, quello dell’Europa occidentale post-staliniana, il rifiuto della trasparenza equivale a una volontà di oblio e conduce a una fuga davanti alla colpa. Ciò che è comune a questi due fenomeni, in apparenza opposti, è un rapporto pervertito con la tradizione. Strappata dalla dialettica prima evocata tra lo spazio d’esperienza e l’orizzonte dell’attesa, la tradizione si riduce a un deposito sedimentato e pietrificato che gli uni esaltano e gli altri si sforzano di nascondere e seppellire.
Ma la crisi della memoria e della tradizione non avviene senza una crisi della proiezione verso il futuro; a volte l’orizzonte d’attesa si svuota di ogni contenuto, di ogni scopo degno di essere perseguito; così si riscontra un po’ dappertutto il diffondersi della diffidenza nei confronti di ogni previsione a medio termine e a maggior ragione nei confronti di ogni profezia a lungo termine; ma i fatti, all’opposto, si lasciano ugualmente osservare: in assenza di un progetto accessibile, ci si rifugia nelle utopie di sogno che distruggono ogni ragionevole e tenace volontà di riforme. Questa doppia patologia che riguarda tanto il futuro quanto il passato si riflette a sua volta in un impoverimento del presente, compresa, come ho suggerito prima, la capacità d’iniziativa, d’intervento nel corso delle cose. È così che si assiste qui e là a una privatizzazione dei desideri e dei progetti, a un culto del consumerismo a corto raggio; all’origine di questo movimento di ripiegamento si percepisce senza fatica un disimpegno nei confronti di ogni responsabilità civica. Gli individui dimenticano che la nazione non esiste che in virtù di un voler vivere insieme sostenuto e ratificato da un vecchio tacito contratto tra i cittadini di uno stesso popolo e di una stessa nazione. L’individualismo, che sovente si deplora senza analizzarlo, è senza dubbio l’effetto del movimento di ritiro fuori da questo voler vivere insieme e fuori dal contratto civico che ratifica quest’ultimo. Qui ancora, la patologia del legame sociale non fa che rendere visibile l’estrema fragilità di quello. Concluderò questa riflessione sulla crisi della coscienza storica in Europa sottolineando il fe- nomeno sul quale Koselleck mette fortemente l’accento, cioè la perdita di ogni senso della storia, di ogni orientamento nel tempo storico. Se alcuni parlano di epoca post-moderna, l’espressione è giustificata, nella misura in cui si può identificare la modernità all’idea razionale di progresso. In fondo non soffriamo meno della cancellazione dell’idea di progresso ricevuta dall’epoca dei Lumi che della secolarizzazione che patisce l’Europa cristiana, se non addirittura dell’allontanamento assai marcato dalla sorgente greca ed ebraica della nostra cultura privata e pubblica. È in questo modo che il crollo dell’idea di progresso conduce per contrasto ad aumentare uno dopo l’altro il sentimento di aleatorietà, o quello di un destino opprimente, quando non conduce a cedere alla seduzione esercitata su di noi dalle idee di caos, di differenza e di erranza.
Quest’ultimo termine dovrà allertarci qui e ora quando ci riferiamo alle migrazioni. Perché le migrazioni riuscite che hanno fatto l’Europa e alle quali ho fatto già una prima allusione, sono state il contrario di un’erranza; o piuttosto vi sono forme di erranza che sono state intercettate e interrotte da lenti e penosi tentativi di acculturazione dei barbari da cui tutti discendiamo in qualche grado, negli spazi culturali stabiliti dall’Impero romano, poi dall’Europa cristiana, dal Rinascimento, dalla Riforma e dall’Europa dei Lumi. Sono queste le componenti di ciò che abbiamo prima chiamato spazio d’esperienza. Prima di essere degli spazi di sedimentazione, furono degli spazi d’integrazione, di stabilizzazione. Ed è per questo che si pone la questione di sapere se, per riprendere una formula di Habermas, il progetto dei Lumi è oggi esaurito o, risalendo più in alto nel passato, se l’eredità greco-romana e l’eredità giudeo-cristiana sono ancora suscettibili d’essere riattivate. Una tradizione non resta vivente se non è sempre reinterpretata. Questa osservazione si applica tanto alle tradizioni cristiane quanto alle eredità greco-romane, medievali così come alle tradizioni ricevute dall’epoca dei Lumi. La critica stessa è una tradizione tra le altre, incorporata nelle convinzioni ereditate e richiesta a una cultura continuamente rinnovata. Inoltre, alla luce della critica storica, una tradizione si rivela essere portatrice di promesse non adempiute, cioè impedite e rimosse dai nuovi attori della storia. Si può dire, senza paradosso eccessivo, che gli uomini appartenenti a epoche passate erano portatori di attese, sogni, utopie che non sono sta- ti soddisfatti e che importa liberare e incorporare alle nostre proprie attese, per fornirgli un contenuto e, oso dire, un corpo. In breve, occorre accedere a una concezione aperta della tradizione. Più esattamente, occorre riaprire il passato e liberare il suo carico di futuro. Non vi è qui una forma di migrazione nell’incompiuto del passato? Quest’ultima suggestione ci permette di dire una parola sulla terapia del futuro. Liberare le promesse non mantenute del passato è già una parte della terapia, nella misura in cui ciò di cui soffre la nostra capacità di proiezione nel futuro è una mancanza di contenuto. In questo senso, innovazione e tradizione sono le due facce di uno stesso fenomeno costitutivo della coscienza storica. Ma concordo volentieri che non è sufficiente attingere al passato e trattare le tradizioni come risorse vive piuttosto che come depositi per alimentare il nostro slancio verso il futuro. Qui vorrei insistere su un aspetto del problema che tocca la questione della migrazione in quanto aspetto del cambiamento culturale. L’invenzione maggiore alla quale oggi siamo invitati riguarda l’integrazione le une con le altre delle attitudini nei confronti del futuro che sono sempre minacciate di dissociarsi: che si tratti di prospettive tecnologiche, di anticipazioni economiche, di risoluzioni di problemi morali inediti posti dalle minacce all’eco-sistema, dalle possibilità d’intervento nel patrimonio genetico umano, dalla sovrabbondanza dei segni in circolazione eccedenti la nostra capacità di integrazione. Dico che questo problema d’integrazione tocca il fenomeno della migrazione, nella misura in cui le migrazioni riuscite del passato sono consistite anch’esse in una integrazione progressiva di valori eterogenei, a uno spazio culturale di accoglienza che si è arricchito esso stesso delle invasioni che hanno nell’immediato minacciato la sua coesione. Amerei aggiungere a queste due componenti della terapia del passato di cui stiamo parlando, l’integrazione delle promesse liberate dal peso di un passato morto e la nostra capacità di progettare l’avvenire e l’integrazione in uno stesso orizzonte d’attesa di modalità eterogenee d’anticipazione. Questa terza componente è la più difficile da apprezzare nel suo giusto valore; voglio parlare della dimensione utopica. Si può diffidare delle utopie, in ragione della loro rigidità dottrinale, del loro disprezzo nei confronti delle prime misure concrete da prendere in direzione della loro realizzazione. Ma i popoli non possono più vivere senza utopia, così come gli individui senza sogno.
(Traduzione di Riccardo De Benedetti © Comité éditorial Fonds Ricoeur)
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martedì 9 gennaio 2018

Cattolici ed Elezioni

CATTOLICI & ELEZIONI/ Davide Prosperi (Fraternità Cl): in politica servono testimoni per cogliere veri bisogni

Cattolici in politica: Davide Prosperi (vice presidente Fraternità Cl): "in politica servono testimoni, nuovi sostegni alla famiglia e alla scuola". L'intervento verso le Elezioni 2018
Giovani ed Elezioni, la crisi della politica (LaPresse)Giovani ed Elezioni, la crisi della politica (LaPresse)
Con il messaggio di fine anno del Presidente Sergio Mattarella è stato posto l’accento sull’invito sempre più urgente ai giovani e alla società intera di prendere sul serio l’appuntamento delle Elezioni per evitare che si consumi la frattura definitiva tra la politica, il bene comune e la vita difficile e complessa di tutti i giorni. Come dialogo su questi temi, il quotidiano “Avvenire” ha invitato tutti i principali Movimenti ecclesiali e vari rappresentanti del mondo cattolico a suggerire una possibile strada da seguire per la politica italiana: tra gli altri, il Vicepresidente della Fraternità di Comunione e Liberazione Davide Prosperi ha risposto direttamente nel merito della vicenda illustrando alcuni punti dirimenti delle sfide che chiamano tutti, non solo i cattolici, con le prossime Elezioni Politiche e Regionali. Illustrando quali possibile ricette “realizzarli” che le forze politiche dovrebbero inserire negli imminenti programmi elettorali, Prosperi ritiene che occorra sempre di più investire molto di più sul processo educativo, migliorando il sistema di istruzione: «penso alla formazione professionale, a politiche di diritto allo studio e contro l’abbandono scolastico, al sostegno della scuola paritaria che sta svolgendo un ruolo indispensabile insieme alla scuola statale. Inoltre occorre sostenere le startup innovative e offrire incentivi all’occupazione giovanile. È una scommessa che vale più del calcolo dei rischi. Sono tutte cose che all’estero sono praticate da anni e hanno prodotto solo bene, essendo il motore dello sviluppo dell’intera società».

Assemblea Nord Europa con Carron

Assemblea Nord Europa. «Se tutte le cose parlano dell'Amato»

A Reading, a ovest di Londra, per un weekend con Julián Carrón. Arrivano dai Paesi più secolarizzati. Si racconta la paura di alzarsi la mattina, la noia anche quando tutto va bene. O la gioia che fa iniziare una nuova scuola... Ecco cosa è successo
Luca Fiore
«Possiamo lamentarci delle difficoltà in cui siamo o essere grati di avere l’occasione di verificare se in qualunque situazione Cristo può riempire il nostro cuore. È una scelta libera: recriminare o godersi le circostanze. Sta ad ognuno di noi decidere».
Nella sala del De Vere Wokefield Estate, nella campagna attorno a Reading, a ovest di Londra, c’è ancora l’albero di Natale. Il weekend è quello dell’Epifania e sono arrivati in 400 (con cento bambini e quindici baby sitter al seguito) per passare tre giorni di convivenza con don Julián Carrón. Vengono da Gran Bretagna, Irlanda, Olanda, Svezia, Danimarca, Finlandia, Malta e Lussemburgo: la frontiera dell’Europa secolarizzata. Per la maggior parte sono italiani espatriati, ma ormai “gli indigeni” sono molti: diventati del movimento attraverso il marito, la moglie o in mezzo alle circostanze più varie. Alcuni molti anni fa, altri da poche settimane.

giovedì 4 gennaio 2018

A.Apperfiefeld: intervista

Aharon Appelfeld. Che cosa mi ha reso protagonista

È morto a 85 anni il grande scrittore israeliano. La Bibbia, il suo popolo, il senso religioso come tensione vissuta dall'uomo che è polvere. Qui un'intervista che rilasciò aTracce alla vigilia del Meeting di Rimini del 2008
Camillo Fornasieri
Aharon Appelfeld, uno dei più grandi e autentici scrittori del nostro tempo, è un assoluto protagonista, perché testimone di come un uomo, a cui è stato tolto tutto, può ritrovare questo tutto possedendolo in un modo nuovo, imprevisto, attraversando la dolorosa esperienza del subire il progetto di chi vuole rendere l’io “nessuno”.
In questi giorni è uscito Storia di una vita, edito da Guanda, che ha iniziato la ripubblicazione di diversi suoi libri. Sua la lectio magistralis d’inaugurazione della Fiera del Libro di Torino. Pubblicato in più di trenta lingue in 26 Paesi, Appelfeld - per anni docente all’università Ben-Gurion a Beer-Sheva, a sud di Israele - non è uomo di public relations. Non è «scrittore della Shoah», come improvvidamente è stato definito, ma persona dalla commovente bontà, intelligenza e umanità unite a una straordinaria capacità di scrittura, a cui si dedica otto ore al giorno.
Per Appelfeld la sua stessa vita, la memoria delle cose e delle persone diviene verità raccontata come coscienza della propria biografia e di un mondo. Nato nel 1932 a Czernowitz in Bucovina, Ucraina, dopo l’uccisione della madre, a otto anni viene deportato col padre nei campi di concentramento. Da solo riesce a fuggire e vive per cinque anni nei boschi della Germania, tra una banda di ladri-assassini e una casa di prostitute russe. Custodisce con orgoglio, lui bambino biondo, il segreto di essere ebreo, mentre vede l’umano e un mondo intero «andare verso la fine», come disse nello scorso ottobre al Centro Culturale di Milano.
Nella sua casa in Mevassereth, che significa “annuncio di Sion”, a 9 chilometri da Gerusalemme, ci accoglie confidandoci di voler raccontare al Meeting cos’è per lui il senso religioso: una tensione vissuta dall’uomo che è polvere, un nulla, ma che è stato fatto poco meno di un Dio.

mercoledì 3 gennaio 2018

Il nome di Gesù rimosso dal Natale

Il nome di Gesù rimosso dal Natale «Scandalo» che dobbiamo trasmettere
Le nostre voci C aro Avvenire, ho letto l’articolo di Umberto Folena su i Novelli Erodi, e vorrei riportare un fatto che ho vissuto alla recita di Natale dei miei nipotini, prima e terza elementare, e anche delle altre classi, in occasione delle vacanze natalizie.
Ogni classe ha fatto un canto, i bambini sono stati molto bravi, canzoncine che parlavano di amore, di pace e altri buoni sentimenti, ma non è stata mai pronunciata la parola Gesù Bambino, cioè il vero senso del Natale che si stava festeggiando.
Questo viene giustificato per un presunto rispetto verso i bambini di altre fedi ma, parlando con i genitori di questi bambini, mi hanno risposto che non si sarebbero sentiti offesi se fosse stato cantato il vero significato del Natale, cioè la nascita di Gesù Bambino.
Io mi sono sentita molto amareggiata nel constatare quanta ipocrisia ci sia stata da parte degli insegnanti che hanno preparato la festa. Una madre di sei figli e dieci nipoti.
Gemma Giannini