giovedì 14 marzo 2024

 



ERIK VARDEN. ALLARGARE IL DESIDERIO

Il vescovo norvegese racconta su "Tracce" di Marzo la ricerca dell’amore nel mondo di oggi. La chiave per viverlo. E perché Maria Maddalena sarebbe la «patrona perfetta del XXI secolo»
Anna Leonardi
Se con La solitudine spezzata ci ha portati in un viaggio alla scoperta di Dio come risposta al grido del nostro tempo, con il suo ultimo libro, Chastity (Castità), Erik Varden ci propone un tema audace, che al mondo di oggi può fare l’effetto di una fredda folata proveniente da un’epoca lontana. I due titoli hanno, in realtà, una correlazione molto più profonda di quello che potrebbe sembrare. «La castità è una pienezza», spiega l’autore, monaco trappista e, dal 2020, Vescovo di Trondheim in Norvegia. «È un atteggiamento verso le cose e le persone che sgorga quando il cuore dell’uomo è investito da quell’abbraccio che risana e compie le sue attese più radicali. Per questo è riduttivo far coincidere la castità con un “non fare” e un “non essere”. È uno stato di grazia. E una virtù per tutti». Sono parole che suggeriscono una strada in una società ultrasecolarizzata, dove i rapporti tra le persone possono trasformarsi in una palude, quando ci si usa per riempire un vuoto, e non per condividere una sovrabbondanza.

Le relazioni non sembrano godere di una buona salute oggi. Molte analisi concordano sul diagnosticare nell’individualismo sfrenato la causa principale dei sintomi di sfiducia, incomunicabilità, invidia, solitudine. Cosa ne pensa?
Mi sembra un quadro cupo. Perlomeno parziale. Certo, queste esasperazioni esistono, ma ci sono anche delle tendenze molto sane. Quello che noto durante la mia attività pastorale è una ricerca di socialità, di comunione anche nei contesti più laici. Qui in Norvegia il dato del volontariato è molto in crescita: fiorisce la voglia di fare con l’altro e per l’altro. Questo significa che la tendenza individualistica della postmodernità non è tutto, c’è anche la percezione che stare imprigionati in se stessi non è un cammino che ci porta alla felicità.

Cosa significa in questo contesto parlare di affettività, amore, amicizia?
Oggi trovo cruciale soprattutto comprendere l’amicizia. Siamo in un tempo in cui le relazioni intime sono ridotte a erotismo o sentimentalismo e questo le rende fugaci, provvisorie. L’amicizia ha, invece, un aspetto più razionale, è un’affinità elettiva. È un tipo di relazione dove è più facile sorprendere quell’anelito a trovare un fondamento stabile e in cui si intuisce che la propria personalità può nutrirsi e costruirsi. In fondo, la santità cristiana si identifica come capacità di amicizia. Cristo ci ha detto: «Voi siete miei amici. Vi ho chiamati amici». L’amicizia è un ambito privilegiato dove possiamo allenarci e imparare a vivere tutte le altre relazioni.

Vede testimonianze di questo oggi?
Sì, per questo non mi sento disperato. Forse noi nel Nord Europa, che abbiamo sempre vissuto in anteprima le varie tendenze delle società occidentali, oggi stiamo risalendo la china e vediamo la luce in fondo al tunnel. Anche se molti sembrano bloccati, il desiderio di costruire relazioni e il riconoscersi dipendenti gli uni dagli altri appare come un punto irriducibile, un seme da cui può generarsi una novità che rende il mondo più umano.

Nel suo ultimo libro, Chastity, afferma che dobbiamo «allargare all’infinito il range del nostro desiderio. Solo così impariamo a cercare le risposte adeguate per cui la nostra carne si strugge e a risparmiarci continue frustrazioni». Può approfondire questa dinamica?
Il desiderio è l’espressione del nostro essere stati fatti da Dio. È qualcosa di intrinseco alla natura umana. Siamo abitati da un’eco, una chiamata. È il Signore che fa cantare in noi la somiglianza con Lui. Il desiderio è il motore della mia vita perché la orienta a una pienezza, che è la comunione con Dio vissuta anche nelle relazioni con gli altri. Il nostro peccato è un sabotaggio del desiderio, che si frammenta verso tanti oggetti diversi. Ma se guardiamo dove ci porta quel desiderio profondo, ci accorgiamo della relatività di tutte le cose che non sono sufficienti a compierlo. E, nel contempo, le riconosciamo nel loro valore più vero, perché solo alla luce di ciò che disseta la vita, anche ogni piccola cosa rivela il suo significato.

C’è un episodio nella vita di don Giussani che lo portò a un’intuizione simile. Era una sera d’estate carica di stelle, e lui uscendo dalla sua parrocchia in bicicletta, sorprese due fidanzati abbracciati. Dopo qualche pedalata si fermò e domandò: «Sentite, quello che state facendo, cosa c’entra con le stelle?». Anni dopo, commentando quel momento, disse: «Quella sera sono andato via lieto, perché avevo scoperto cos’era la legge morale: il nesso tra la banalità dell’istante e l’ordine dell’universo».
Mi trovo assolutamente d’accordo con questa sua osservazione. Il nesso con l’interezza di sé e con l’universo è la chiave per vivere l’amore e ogni rapporto con la pazienza e il sacrificio. Per un cristiano niente può essere banale, tutto viene ricompreso, se vissuto alla luce dello scopo ultimo, che è il bene del mondo. Questo brano mi fa venire in mente Jack, l’ultimo romanzo della scrittrice americana Marilynne Robinson, dove il protagonista, il dissennato figlio di un reverendo del Missouri degli anni Cinquanta, una notte incontra Della, una giovane donna. Jack si offre di starle vicino ma a debita distanza, in modo da proteggerla e non metterla a disagio. I due passano la notte a parlare e c’è un momento apicale in cui lei lo guarda come nessuno aveva mai fatto, ai suoi occhi non è uno sconosciuto ma «un’anima, una presenza gloriosa fuori posto nel mondo». Jack si sente guardato – come è veramente – dentro l’essere ed è trascinato, suo malgrado, a diventarne consapevole. Sa che c’è qualcosa in lei che richiama in modo unico qualcosa in lui. Ed è questo il nesso con lo scopo di cui parla Giussani.

Da cosa ripartire quando ci scontriamo con la debolezza e la fragilità, nostra e altrui, e allentiamo questa tensione ultima?
Nel contesto monastico abbiamo due momenti della giornata dedicati all’esame di coscienza. Cosa ne ho fatto delle possibilità a me date per vivere oggi? Come ho vissuto i rapporti con le cose, con i fratelli? Questa autoconoscenza è un passo necessario perché mi fa stare più attento a me stesso e agli altri. E all’impatto che quello che faccio o non faccio può avere sugli altri. I Padri la chiamano “umiltà”, che altro non è che un sano realismo che ci fa dire addio a tutte le immagini che ci costruiamo di noi stessi. Questo è reso più difficile nel mondo virtualizzato in cui viviamo dove concepiamo noi stessi in termini idealizzati. La capacità di guardare a me stesso per come sono è il primo passo per stare davanti all’altro. Di cui inizio a sentirmi responsabile.

Che cosa vuol dire?
Se concepisco me stesso come il sole in un universo fatto di stelle estinte, rimarrò sempre l’unico soggetto di un rapporto. Certo, magari mi accorgo che gli altri esistono, ma non riconosco loro alcun significato. Invece se mi scopro fatto per la relazione, mi scopro anche responsabile di quella relazione. Posso essere fonte di bene per la vita dell’altro, ma posso anche infliggere ferite profonde. Ci sono rapporti – penso a quello tra genitori e figli – dove questo è molto chiaro. È una relazione reciproca dove però potrebbe capitare che un padre o una madre debbano rinunciare all’essere visti, o addirittura accettare un abbandono. È possibile compiere questo sacrificio rimanendo fermi nel proprio proposito d’amore, che significa tenere sempre la porta aperta. Si tratta di un discorso delicato, perché ci può essere la tendenza malsana a sacrificarsi per salvare l’altro. Ricordiamoci che c’è un unico salvatore, e non sono io, e che ci sono rapporti che solo la pazienza può guarire. Questo vale anche per gli sposi. L’essere umano diventa veramente umano quando esprime questo ultimo sentimento di dedizione al bene dell’altro. Invece noi siamo dediti a reclamare i nostri diritti, a cantare le litanie dei nostri traumi.

(continua su tracce.online
https://it.clonline.org/news/chiesa/2024/03/14/eric-varden-allargare-il-desiderio#:~:text=ERIK%20VARDEN.%20ALLARGARE,bisogno%20di%20guardare.

martedì 12 marzo 2024

LA RIVOLUZIONE (E IL SOGNO) DI FRANCO BASAGLIA (Eugenio Borgna)

 

LA RIVOLUZIONE (E IL SOGNO) DI FRANCO BASAGLIA

L'11 marzo sono cento anni dalla nascita del grande neurologo e psichiatra il cui lavoro ha portato, nel 1978, alla chiusura degli ospedali psichiatrici. Ecco come lo ricorda Eugenio Borgna
Eugenio Borgna*
Non ho mai incontrato Franco Basaglia, ne conoscevo le idee, che inizialmente non mi sentivo di condividere. In quegli anni ero direttore di uno dei due manicomi, quello femminile, di Novara. Un manicomio, il nostro, nel quale psichiatre e psichiatri, sorelle religiose e infermiere, collaboravano nel rispetto della libertà e della dignità, delle attese e delle speranze ferite, delle pazienti. Il manicomio era nel cuore della città, e non in periferia, come tutti i manicomi italiani. Non c’erano porte chiuse, non contenzioni, che continuano ad esserci anche oggi in non pochi servizi ospedalieri di psichiatria, non giornate e giornate di esclusione in stanze infelici. Cose, queste, che erano facili in un manicomio femminile, e non lo erano in un manicomio maschile. La follia femminile è più gentile e più mite di quella maschile, la violenza non ne fa parte, e la disponibilità alle cure e alla convivenza sociale è molto più alta. Sono cose, queste, che ho poi constatato nel servizio di psichiatria ospedaliera di Novara, quando i manicomi sono stati chiusi.

Non posso non dire che ho visto poi un manicomio di Milano, e ne sono rimasto angosciato e terrorizzato, comprendendo le ragioni che inducevano Basaglia alla sua coraggiosa e apparentemente temeraria battaglia contro la sopravvivenza dei manicomi italiani, contrassegnati dalla indifferenza alla sofferenza e alla angoscia delle pazienti e dei pazienti. Chiuso nelle mura del manicomio di Novara, non mi accorgevo della insostenibile condizione di vita degli altri manicomi, ho potuto poi conoscere le realizzazioni di Basaglia a Gorizia e a Trieste, e ne sono stato folgorato. Non immaginavo che l’alternativa alle violenze, che constatavo nei manicomi di Milano, fosse solo quella di chiuderli.
Franco Basaglia (Foto Ansa)Franco Basaglia (Foto Ansa)
Lo psichiatra Eugenio Borgna (Foto Marina Lorusso)Lo psichiatra Eugenio Borgna (Foto Marina Lorusso)
Mi chiedevo nondimeno come sarebbero state seguite le pazienti e i pazienti, con le loro angosce e con la loro disperazione. Mi sono riconosciuto negli ideali di Basaglia, il grande respiro non solo umano, e anche spirituale, che li animava, ma le sue idee mi sembravano sogni, o illusioni, e invece hanno cambiato il mondo. Sì, immaginavo che psichiatre e psichiatri giovani, infermiere e infermieri motivati e animati da entusiasmo, assistenti sociali più numerose, e la presenza delle sorelle religiose, come erano a Novara, potessero rinnovare il modo di avvicinarsi alle pazienti e ai pazienti. Sono state illusioni, come constatavo a Milano, e allora non era davvero possibile non giungere alla chiusura degli ospedali psichiatrici: cosa che Basaglia dimostrava a Trieste come possibile, e non utopica.

Ne conseguiva la legge di riforma del 1978 che ne sanciva la definitiva chiusura, e il modo di fare psichiatria cambiava radicalmente. Non più manicomi, stracolmi di pazienti, ma la territorializzazione della psichiatria: ogni ospedale avrebbe avuto servizi psichiatrici, collegati con ambulatori e con comunità di cura, che consentivano di curare, e di prevenire, i disturbi psichici anche nei luoghi di residenza. Una vera rivoluzione, che sembrava impossibile, e che invece si è realizzata.

Il cuore di questa rivoluzione, che ha cambiato il modo di fare psichiatria in Italia, si è rispecchiata nelle conferenze tenute da Basaglia in Brasile, nelle quali in particolare diceva che noi psichiatri non possiamo non andare alla ricerca di un ruolo che ci metta, per quanto è possibile, alla pari con chi sta male, in una dimensione umana, in cui la malattia sia messa fra parentesi, consentendoci di avvicinarci il più possibile alla sofferenza psichica, e di coglierne la fragilità e la umanità.

La psichiatria manicomiale, che non è nemmeno oggi scomparsa dal modo di agire in alcuni luoghi di cura privati, si radicava nella esclusiva attenzione alla malattia, e non alla soggettività, alla interiorità, alla storia della vita, ai sentimenti, delle pazienti e dei pazienti. La sofferenza psichica non è stata più considerata come qualcosa da analizzare con un gelido sguardo clinico, ma come esperienza umana, ferita dall’angoscia e dal dolore, dalla solitudine e dall’isolamento, che ha bisogno di psicofarmaci, ma anche, e soprattutto, di ascolto e di dialogo, di accoglienza e di gentilezza.

I manicomi sono stati chiusi, ed è stata una cosa di straordinaria importanza non solo clinica ma umana; e nondimeno non meno importante è stata in Basaglia la rivalutazione del senso della sofferenza, che è parte della condizione umana, e alla quale noi tutti dobbiamo accoglienza, e rispetto. Sono valori, che non valgono solo nella cura della follia, e sono valori che dovremmo sapere riconoscere nella nostra vita, e non solo in quella incrinata dalla sofferenza psichica.
(continua su il sussidiario.net)

https://it.clonline.org/news/cultura/2024/03/11/anniversario-franco-basaglia-eugenio-borgna#:~:text=LA%20RIVOLUZIONE%20(E,occhi%20delle%20pazienti.