giovedì 27 febbraio 2014

http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2014/2/27/Ucraina-la-realta-e-la-carezza/print/473707/

UCRAINA: LA REALTA' E LA CAREZZA

"Qui le notizie e i video sulla situazione in Ucraina valicano il confine nazionale senza troppi problemi: il web russo e quello ucraino sono un territorio unico e anche se tanti post sono scritti in ucraino, i russi li capiscono. (...) Un'evidenza: i fatti di Kiev degli ultimi giorni non lasciano tranquilli gli animi nè da una parte nè dall'altra.(...).
(...)Le domande più semplici se le fanno in pochi. Le domande proprio elementari. La prima: che cosa sta succedendo? è eliminata  o almeno soffocata sotto il peso di due macigni: il fatto che qui, da una parte e dall'altra, tutti credono di sapere già perfettamente come stanno le cose (...), e le falsità dei mezzi di comunicazione russi (...).
Ma ci sono altre domande, semplicissime, visto che qui metà della popolazione ha parenti o amici in Ucraina, che io non sentito risuonare quasi mai da parte russa. Domande del tipo: "Come stai? come stanno i tuoi figli? ho visto le foto, sei stato in piazza, ho visto quello che è successo...come va?" E' come se queste domande non trovassero il fiato per uscire, come se non fossero importanti. Sono azzerate. Con tanta gente ho discusso le vicende di Kiev, gente con cui abbiamo amici ucraini comuni, ma a questi amici nessuno ha rivolto questo semplice sguardo umano, questa....carezza(...)"
(Elena Mazzola, Il Sussidiario.net)

In Europa e in Italia la situazione è certamente più tranquilla, non abbiamo i carri armati che invadono le piazze, ma mi sembra che l'ordito della comunicazione privata e pubblica sia ugualmente soffocata o azzerata nei suoi elementi più semplici, come descriveva Elena Mazzola per il suo Paese. L'atteggiamento ideologico e preconcetto da una parte e il disinteresse per la propria vita e quindi per quella degli altri rendono molti preda della rabbia impotente o dell'inerzia."E' come se queste domande non trovassero il fiato per uscire, come se non fossero importanti". Sicchè, quando si ha la fortuna di trovarsi davanti ad una persona o ad un ambito in cui esse invece sono formulate o addirittura diventano la chiave interpretativa per entrare nella complessità del quotidiano, ci si rende conto che si è davanti a qualcosa che è certamente e totalmente umano, ma che è più che umano. E' come una carezza, in un mondo che comprensibilmente conosce solo urla e aggressione.

Gemma Barulli

I cristiani di Raqqa costretti a pagare la 'jiziya' per non essere massacrati

Gruppo jihadista impone regole di sottomissione ai cristiani di Raqqa
di Paul Dakiki
Pagamento della tassa di "protezione", divieto di esibire segni cristiani, o restaurare chiese e monasteri. Il gruppo "Stato islamico dell'Iraq e del Levante" accusato dagli altri oppositori a Damasco di fare il gioco di Assad. Un ultimatum di cinque giorni.


Beirut (AsiaNews) - Un gruppo jihadista legato ad al Qaeda ha diffuso una serie di regole che i cristiani di Raqqa devono seguire per essere "protetti". Fra queste vi sono una tassa, compiere i riti al chiuso, non indossare nessun segno cristiano evidente.
Gli estensori delle regole (che essi chiamano "accordo") sono i membri dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante(Isil), un gruppo che ha radici in al Qaeda dell'Iraq e che vuole costruire un unico califfato che abbraccia tutto il Medio oriente, l'Africa settentrionale, l'Andalusia e l'Italia meridionale, antichi possedimenti arabi e islamici.
Raqqa, città del nord della Siria, aveva 300mila abitanti prima dell'inizio della guerra civile nel marzo 2011. Fra questi, l'1% era cristiano. Ora molti abitanti sono fuggiti e la città è nelle mani dell'Isil, che ha diffuso il testo dell'accordo sui siti jihadisti.
Sotto la minaccia di essere trattati con violenza, i cristiani devono pagare la "jiziya", l'antica tassa obbligatoria per i non musulmani.
I cristiani ricchi dovranno pagare una somma pari al valore di 13 grammi di oro puro (mezza oncia); quelli della classe media metà della somma; quelli della classe povera un quarto.
I cristiani non devono esporre croci o simboli della loro fede in ambienti frequentati dai musulmani e soprattutto al mercato; non devono usare altoparlanti per il richiamo alla preghiera; devono compiere i loro riti a porte chiuse all'interno degli edifici di culto.
Il gruppo esige anche che i cristiani si conformino alle regole sul vestire in modo modesto imposte a tutti gli abitanti.
Ai cristiani è vietato portare armi , come pure restaurare chiese e monasteri della zona. Chi non si attiene a queste regole, avrà il destino assegnato alla "gente della guerra e della ribellione", cioè l'uccisione.
L'Isil fa parte delle frange più estremiste e islamiste dell'opposizione a Bashar Assad. Dal gennaio scorso è in atto una guerra senza quartiere fra i gruppi laici e islamici dell'opposizione, come pure fra quelli islamisti più radicali o meno. Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani, gli scontri fra i due campi hanno causato la morte di almeno 3300 persone, dei quali 924 fra i membri del Siil.
Gli oppositori si stanno coalizzando contro l'Isil, accusato di "fare il gioco di Assad".  Proprio ieri, il Fronte Al-Nusra (Al Qaeda in Siria) ha lanciato un ultimatum di cinque giorni contro l'Isil perché metta fine al conflitto interno, presentandosi davanti a un tribunale religioso.

giovedì 20 febbraio 2014

Il maestro e margherita: prima puntata

 Il romanzo di Bulgakov magistralmente messo in onda: il primo di dieci video (reperibilissimi su you tube). Niente di simile si può reperire attualmente sul grande e piccolo schermo

Dai nuovi 'diritti' alla nostalgia di un oltre possibile


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Editoriale

Vogliono abolire l’uomo



Fernando De Haro


giovedì 20 febbraio 2014

È naturale che produca un brivido lungo la schiena: in Belgio è stata approvata l’eutanasia infantile con il sostegno del 74% della popolazione. Come hanno dimostrato molti pediatri, la legge non è necessaria: la medicina ha i mezzi per evitare la sofferenza attraverso le cure palliative per i malati terminali. Non c’è dubbio che la disumanizzazione stia avanzando in quei paesi che, in teoria, dovrebbero essere l’avanguardia dei diritti fondamentali.
I nuovi diritti (una sorta di supermercato dell’autodeterminazione) sono diventati contrari alla vita. In nome della compassione si autorizza la “dolce morte” per i bambini. E non si tratta di un caso isolato. Non ci vuole un genio per capire che la relazione della Commissione Onu per i diritti dell’infanzia contro la pedofilia nella Chiesa ha un obiettivo preciso: piegare la Santa Sede. Il Vaticano si è sempre opposto al fatto che l’aborto sia riconosciuto come un diritto nell’ambito della salute sessuale e riproduttiva. Il modo in cui si sta svolgendo il dibattito sulla regolamentazione dell’aborto in Spagna mostra fino a che punto i dati oggettivi della realtà (una gravidanza) possono essere visti come nemici della libertà. In Francia solamente il momento di estrema debolezza di Holland e il successo delle manifestazioni di Manif Pour Tous hanno impedito che andasse avanti un riforma della legge sulla famiglia di tipo radicale.
Tutto questo avviene nell’ambito di quel che tradizionalmente è chiamata “vita”. Ma c’entra anche con il grande cambiamento epocale: il rifiuto dell’altro. La xenofobia crescente in Europa è anche espressione di un profondo “deficit antropologico”. Vedremo che risultati avranno partiti come il Fronte nazionale de Le Pen, il Partito per la libertà dell’olandese Geert Wilders o il Partito per l’indipendenza del Regno Unito di Nigel Farage, solo per citarne alcuni, alle prossime elezioni europee.
Sembra che sia destra che a sinistra si stia lottando per la leadership della “abolizione dell’uomo”. Perché è di questo che si tratta, del risultato di una concezione antropologica in cui “l’uomo è l’essere in cui l’agire non deriva dall’essere, ma il cui essere deriva dall’agire” (Finkielkraut).
Cosa dobbiamo fare allora? Rompere definitivamente la nostra carta d’identità di “moderni” per rifugiarci nel lamento o nel sogno di una ricostruzione impossibile? Sarebbe un modo per non fare i conti con quel che sta succedendo. Perché insieme a questi segni di disumanizzazione dell’arte di vivere, appaiono altri segnali di un momento che è necessario salvare. Dopo le ideologie che dagli anni ‘50 hanno dominato l’Europa, l’inizio di questo XXI secolo è molto più concreto. In un contesto sincretista, l’esigenza di significato appare in forme molto differenti e con una forza sconosciuta 20-30 anni fa.
La disumanizzazione non impedisce che ci sia un’apertura, una ricerca e una sincerità nuove. Persino in Spagna, Paese in cui il franchismo, per il suo carattere confessionale, ha lasciato un’eredità nefasta per la religione, si respira in modo diverso. Le produzioni cinematografiche degli ultimi anni ne sono un’espressione (basti pensare al successo che ha avuto “Nebraska” di Alexander Payne, un film che sembrava di nicchia). Riappare con frequenza la figura del padre, la ricerca di una tenerezza che sia definitiva sta diventando ossessiva, il fallimento viene considerato positivo…
Ma c’è di più. Il padre che pensa che la morte di suo figlio sia la soluzione migliore per evitargli la sofferenza; la ragazzina che cercava l’amore della sua vita ed è rimasta incinta e vede nell’aborto una risposta; la madre che da anni cura un malato terminale e che ora non ha più la forza per andare avanti; il vicino che non riesce a sopportare il musulmano o il cristiano che ha sotto casa perché non sopporta se stesso… Tutti loro sono uomini e donne concreti. E in loro l’uomo non è abolito.

mercoledì 19 febbraio 2014

Ucraina: oltre il fuoco di Kiev

UCRAINA

Oltre il fuoco di Kiev

di Luca Fiore
19/02/2014 - La giornata di un prete in mezzo agli scontri. Tra cariche della polizia, bombe molotov e blindati, padre Michajlo Dymyd, "cappellano" di Piazza Maidan, racconta cosa può fare chi crede nella pace
«Chi ha attaccato per primo?». Ride di un riso amaro padre Michajlo Dymyd, sacerdote greco cattolico di Leopoli ribattezzato da Le Monde «il cappellano di Piazza Maidan». «È una domanda alla quale non c’è risposta. Ieri mattina ero a dieci metri dalla linea dei berkut, la polizia speciale, e mi è parso che abbiano attaccato loro. Altri mi hanno detto che tra i berkut si è aperto un varco dal quale sono passati in prima fila i titushka (i criminali comuni al soldo del Governo; ndr) e loro hanno fatto scoppiare gli scontri. Ma non so dirlo con certezza».

Venticinque morti, mille feriti. Nel bollettino di guerra sono contati anche i nove poliziotti uccisi. Kiev ieri si è trasformata in un campo di battaglia. Da una parte i manifestanti e dall’altra i berkut e i titushka, senza divisa e indistinguibili dai manifestanti. Una guerra combattuta con manganelli, molotov, pietre, bombe assordanti, fuochi d’artificio, proiettili di gomma e proiettili veri. A fine giornata arrivano anche i blindati per l’assedio alla piazza. L’avanzata inizia alle 20, attorno ai manifestanti si crea un muro di fuoco che ferma i berkut. Le fiamme vengono alimentate con copertoni d’auto e ogni cosa d’infiammabile che si trova nell’accampamento. Il tutto si svolge a pochi metri dal palco, sotto il quale, a mezzanotte, ci sono 20mila manifestanti. Dal microfono si intona l’inno ucraino, si fanno appelli a resistere, si prega.

Una giornata di caos, dove l’irrazionalità e la violenza hanno trovato spazio su entrambi i fronti. Ma il racconto di padre Michajlo rompe qualsiasi logica di schieramento. A Kiev la distinzione non è più tra chi è con il Governo e chi è contro. Ma chi si oppone alla violenza e chi no. «I manifestanti si stavano avvicinando al Parlamento, per far pressione sui deputati che stavano discutendo sulle riforme istituzionali. Mia figlia di 22 anni è andata a parlare con i berkut, come spesso si fa per convincerli a rinunciare alla violenza. Io sono andato ad accompagnarla. Ma a un certo punto è iniziata la carica della polizia». Il sacerdote fugge insieme alla folla per 200 metri tra i gas lacrimogeni.

«Mi sono fermato dietro un’auto, ho lasciato passare i berkut e mi sono ritrovato alle loro spalle. Ho visto che uno dei titushka stava per essere linciato dai manifestanti e sono riuscito a salvarlo convincendo la gente a lasciarlo andare. Poi ho visto un gruppo di dieci feriti del Maidan attaccati da un gruppo di titushka. Li ho fatti spostare dietro una macchina per ripararsi».

La rivolta è attorno ai palazzi del potere, il Parlamento e la sede del Partito delle regioni, quello di Yanukovic. «A un certo punto mi sono ritrovato a scortare, aiutato dai berkut, un gruppo di quaranta persone che erano minacciate dai titushka. Grazie all’intervento di un parlamentare del Partito delle regioni siamo riusciti a farli entrare in un locale del Parlamento. Abbiamo chiamato i medici per curarli e abbiamo cercato di calmarli. Poi, cinque alla volta, li abbiamo fatti uscire da una porta secondaria. A scortare ogni gruppo eravamo io e un parlamentare. Ci abbiamo messo tre o quattro ore».

A fine giornata padre Michajlo è esausto, la figlia Clementine lo convince ad andarsi a riposare. Trova ospitalità in tarda serata in una chiesa luterana. Qui, viene a sapere che la tenda-cappella al centro di Piazza Maidan è stata bruciata ed è diventata parte della barriera di fuoco dietro la quale si proteggono i ribelli. La cappella era sorta spontaneamente, ma lui, da Leopoli, aveva portato due grandi icone dipinte dalla moglie Ivanka, i paramenti liturgici, e tutto l’occorrente per la liturgia greco-cattolica. Ogni giorno pubblicava su Facebook una “predica dal Maidan”. Ripeteva: «Il male non è dall’altra parte delle barricate, è dentro di noi». A tarda notte arriva la notizia del numero di morti. Venti. Padre Michaylo, che cosa ha nel cuore dopo una giornata così? «Grandissima fiducia in Dio onnipotente».

martedì 18 febbraio 2014

Gli occhi della guerra: strage dei cristiani in Nigeria

Nigeria, che vergogna il silenzio sulla carneficina di cristiani

La scorsa settimana oltre 100 cristiani sono stati uccisi dagli estremisti. Ma nessuno ne parla...


 
“Sono andati a prenderli casa per casa e poi hanno cominciato a sgozzarli o a farli a pezzi” racconta in una drammatica testimonianza uno dei pochi sopravissuti all’ultimo massacro dei tagliagole islamici in Nigeria.
La colpa delle povere vittime era di essere in gran parte cristiani, ma i boia fanno fuori in maniera atroce anche musulmani considerati troppo moderati o collusi.

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Oltre agli uomini nella mattanza sarebbero finite donne e bambine, senza alcuna pietà. Le ragazze più giovani, almeno 24, sono state portate via come schiave del sesso. Il massacro è avvenuto la scorsa settimana in un remoto villaggio nel nord est della Nigeria. Qualcuno dice il 12 febbraio, altri il 15, ma l’unica, terribile, certezza, è che le anime strappate via dalla violenza integralista sono oltre 100.
I carnefici fanno parte del gruppo del terrore Boko Haram, che considera l’Occidente, la sua cultura e le sue tradizioni, a cominciare da quelle cristiane, semplicemente “peccato”. E per questo vogliono un califfato nel nord del paese basato sulla legge talebana, dove non c’è spazio per chi crede in Gesù.
A parte qualche trafiletto o articolo sui giornali l’ennesimo massacro dei cristiani in Nigeria è passato sotto silenzio. Nonostante sia il tassello di una tragedia dimenticata che “gli occhi della guerra” vuole andare a raccontare.
Il problema è che siamo nel pieno del tornado Renzi e chi se ne frega dei soliti cristiani massacrati, per di più, nell’Africa nera, che importa ancora meno. Ben più spazio sui giornali ha ottenuto la provocante boiata olimpica di Luxuria, in nome dei diritti dei gay, a Sochi, che neppure si capisce se è stata veramente arrestata.
Eppure dall’ottobre 2012 in Nigeria, secondo i dati della costola inglese dell'associazione “Aiuto alla chiesa che soffre” sono stati uccisi 791 cristiani colpevoli solo della loro fede. Nella regione del Borno, dove è avvenuta l’ultima strage, 50 delle 52 chiese sono state abbandonate o distrutte. E dal 2007 oltre 700 chiese hanno subito un attacco compresi attentati con macchine minate e terroristi suicidi. Dall’inizio del conflitto armato con Boko Haram hanno perso la vita circa 8mila persone, ma se ne parla poco o a spot.
Chi se ne frega se massacrano i cristiani in Nigeria o da qualche altra parte sperduta del mondo. Noi abbiamo super Renzi e Luxuria che tengono banco e c’è da scommetterci senza spendere una parola per l’ultima strage di Boko Haram in uno sperduto angolo d’Africa.
www.gliocchidellaguerra.it



lunedì 17 febbraio 2014

Al fondo del nulla, il soffio della vita: proiezione del film 'Arca russa'

ilsussidiario.net - il quotidiano approfondito
Cultura

RUSSIA/ "Capire guardando": lo straordinario viaggio nella storia di A. Sokurov



Fabrizio Sinisi


lunedì 17 febbraio 2014

Se c'è una premessa assolutamente imprescindibile per il bellissimo film Arca russa (2002) di Alexsandr Sokurov è che si può voler davvero raccontare soltanto ciò che si ama. Il film nasce infatti dal desiderio di raccontare la storia della Russia moderna: delle sue catastrofi e delle sue risalite, delle sue ecatombi e delle sue rivoluzioni, dei suoi imparagonabili rovesciamenti di prospettiva storica; ma anche del suo carattere e della sua struttura, dei suoi vizi e dei suoi difetti, dei suoi problemi e delle sue intime grandezze. 
Volendo raccontare la storia della "sua" Russia, Sokurov ci introduce ad un concetto più ampio e più vero di "storia": non (solo) una successione di eventi più o meno grandiosi, ma la parabola di un tentativo esistenziale, una costellazione di dettagli, il delinearsi complesso e delicatissimo di una fisionomia – che non si sa se sia "buona" o "cattiva": il punto fondamentale è che sia quella, che sia lei. Sokurov ci fa intravedere una forma d'amore ad un luogo, ad una cultura, ad una tradizione che l'Occidente ha in molte occasioni smarrito: un amore che ama il suo oggetto anche con tutti i suoi difetti e i suoi errori, e tuttavia senza mai prescindere da quelli; un amore in cui la coscienza di un'appartenenza risulta più profonda di un pur legittimo elenco di torti storici. 
Arca russa è un capitolo molto noto nella storia del cinema, e non solo per i suoi pregi estetici, ma anche per una sua evidentissima peculiarità tecnica: il film è infatti tutto un lungo, ininterrotto piano-sequenza – l'inquadratura non "stacca" mai, non c'è montaggio; l'occhio della cinepresa (che è poi la "soggettiva" del protagonista) si apre all'interno del Palazzo dell'Ermitage, per due secoli residenza degli zar e poi – dopo la Rivoluzione d'Ottobre, nel 1917 – grandioso museo internazionale, splendido omaggio all'arte e alla cultura europea. 
Nessuna spiegazione sul perché ci si trovi lì, sul perché di questa bizzarra compresenza di più tempi diversi (sembra che il secolo muti a seconda della stanza o del corridoio in cui ci si trova), nessun motivo logico perché l'unica compagnia di questa strana visita sia quella di un diplomatico francese elegante e capriccioso, il marchese Astolphe de Custine; come la vita, verrebbe da dire: il film si snoda come un'irruzione piena di stupore in un mondo riconoscibile, ma non tutto spiegabile con la logica, in cui il compito unico e principale (proprio per via di questa "non spiegabilità" di fondo) è proprio quello di capire; di capire guardando
L'espediente del piano-sequenza, quindi, da un lato mima la natura del tempo reale, che non si ferma, che non ha stacchi; dall'altro costituisce un invito, allo spettatore e al protagonista (allo spettatore in quanto unico vero protagonista del film), a camminare, a guardare, a vedere: il film introduce quindi ad un cammino del guardare in cui il mistero non è del tutto svelato, ma attraversato, approfondito, lungo quella sorta di icona totalizzante, di figura universale e comprensiva della Russia che è l'Ermitage. 
Non è un caso che le prime parole del protagonista, quasi ancora nel buio della nascita dello sguardo, siano queste: «Apro gli occhi e non vedo niente. Niente finestre, niente porte. Ricordo che è accaduta una disgrazia, e tutti fuggivano per mettersi in salvo, ognuno come poteva. Quanto a me, non ricordo. (…) Tutto questo si recita per me, o sono io che devo interpretare un ruolo? Che genere di spettacolo sarà? Speriamo che non sia una tragedia»: il capire prende le forme di una memoria – è necessario recuperare una memoria, ma la strada della memoria non è una riflessione o uno sforzo intellettuale: è un cammino di conoscenza. E ancora, soprattutto: una "disgrazia" sta all'origine. E sembra proprio questo – il sentimento di una tragedia – stare all'origine di qualsiasi concezione del popolo e della cultura russa. Ma la tragedia non è solo il sinonimo di una catastrofe; essa trova la sua positività nel suo rivelarsi come possibilità di una scoperta, di un cammino appunto. Come è lo stesso Sokurov a dichiarare: «La condizione imprescindibile per una scoperta è la tragedia. Nella vita di un filosofo deve accadere una tragedia che lo riguardi personalmente, che produca in lui una reazione sconvolgente, che lo faccia precipitare nei tormenti di una comune vita umana» – la tragedia diventa quindi lo strumento, drammatico ma proprio per questo disarmante, di un ritrovato rapporto con la realtà. Una concezione del tragico che permette però, nel suo attraversamento, di toccare le cose e l'umano in ciò che esso ha di più resistente, di più profondo e di più vero.

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La proiezione del film "Arca russa" è stato il primo appuntamento del ciclo d'incontri dal titolo "Al fondo del nulla, il soffio della vita: viaggio nella cultura russa", a cura del Centro Culturale di Bari e coordinato dalla prof.ssa Tiziana Liuzzi. Il prossimo appuntamento è mercoledì 19 febbraio, con un incontro dal titolo: "Guerra e pace: lo slancio della vita oltre il nichilismo e il panteismo".



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venerdì 14 febbraio 2014

Bergoglio & Borges

BERGOGLIO & BORGES. Realtà e imprecisioni di un rapporto. Un contributo al “Cortile dei Gentili” che si terrà a Buenos Aires sul più celebre scrittore Argentino

Bergoglio y Borges en 1965, cuando el escritor fue invitado a hablar a los alumos del profesor Jorge Mario Bergoglio. Foto “El Litoral”/Santa Fé
Bergoglio y Borges en 1965, cuando el escritor fue invitado a hablar a los alumos del profesor Jorge Mario Bergoglio. Foto “El Litoral”/Santa Fé
Oggi tutti parlano del rapporto di Sua Santità Francesco con il più importante degli scrittori argentini e la maggioranza suole definirlo amicizia. Associare immagini senza prendere in considerazione la loro cronologia ci può condurre a conclusioni erronee. È vero che Jorge Mario Bergoglio S.J. ha conosciuto Jorge Luis Borges, che in un determinato momento lo ha frequentato e ha avuto la possibilità di un contatto più stretto che la gran maggioranza della gente, però per valutare un rapporto di qualsiasi tipo o stabilire una amicizia di qualsiasi genere, è essenziale ubicarsi in tempo e spazio.
Nel 1965 lo scrittore aveva 66 anni, il gesuita 28. Borges era mondialmente conosciuto e Bergoglio era solo un giovane “maestrino” della Compagnia di Gesù, responsabile di due gruppi di studenti liceali ai quali insegnava Letteratura e Psicologia.
Probabilmente la chiave che gli permise di tener accesso al maestro fu aver conosciuto, attraverso un programma di Radio Nazionale, Maria Esther Vázquez, una scrittrice che era stata alunna e segretaria di Borges. Possiamo supporre che il fatto di “essere gesuita” non sia stato un dato indifferente. Migliaia di professori di Letteratura, e non appena di liceo, ma anche di importanti cattedre universitarie, avrebbero voluto avere tale fortuna e sicuramente un numero impossibile da definire lo ha tentato invano. Per questo torno alla mia supposizione, credo che ciò che ha motivato la condiscendenza dello scrittore sia stato il fatto che era gesuita, più che professore. Voglio immaginare che questa possibilità dell’ineffabile incontro tra l’agnosticismo e la fede possa aver costituito la ragione che indusse lo scrittore ad accettare.
Indubbiamente, a Borges non sfuggirono la dialettica e la simpatia del suo giovane interlocutore, e la proposta di fare alcune lezioni di letteratura gauchesca ad alunni dell’ultimo anno del liceo – cosa che in altri momenti sarebbe parsa una pazzia –, ebbe piuttosto l’aria di un invito all’avventura. Dico questo perché l’ho pubblicato qualche tempo fa.
Arrivò Borges. Bergoglio lo andò a prendere alla vecchia stazione della via Mendoza di fronte alla Posta. Nessun aereo. Le sei lunghe ore di autobus da Buenos Aires sicuramente gli avevano massacrato le reni. Io rimasi un po’ stupito, perché pensavo che un uomo già piuttosto anziano avrebbe dovuto venire in aereo. Bah! Vecchi a metà e vecchi interi viaggiano in autobus, ma io pensavo che non era un mezzo di trasporto appropriato per un candidato al Nobel. Da un altro punto di vista, suppongo che per lui dovette avere molto l’aspetto di un’avventura. Solo, in mezzo al nulla, durante sei lunghe ore. Cosa avrà detto a sua madre? Mezzo cieco tra la gente comune che viaggiava attraverso le province argentine. Cosa avrà detto sua madre a lui? Chi si sarà seduto al suo fianco senza mai saperlo? Un’ avventura da ricordare, senza dubbio. Non so quale fosse il suo cachet, ma sembra strano che non includesse un biglietto aereo. Credo – sinceramente – che Borges guadagnò molto: viaggiare all’interno del paese, in provincia, da solo, deve aver costituito una specie di sfida. Avrà sognato che quell’autobus era quasi come il calesse su cui “il generale Quiroga va in carrozza verso la morte”.
Dovrebbe bastare questo panorama per mostrare le differenze iniziali tra Borges e Bergoglio. E lo dico perché, oggi, molta gente stabilisce quasi una contemporaneità tra l’uno e l’altro, quando in realtà li separavano quasi quattro decenni.
Non stupisce lo zelo con cui Jorge Mario Bergoglio S.J. affrontò questo compito. Qualcosa di sommamente comprensibile in qualsiasi professore che avesse avuto una tale occasione. Ma in lui, come gli è abituale, non fu il prodotto di un raptus o di un’improvvisazione, ma di una preparazione metodica. Noi, i suoi alunni tartassati, già da tempo avevamo a che fare con Borges, i suoi racconti e le sue poesie. Fu forse questa la carta vincente. Borges lo disse in varie occasioni, e anche a me personalmente: quello che lo aveva sorpreso, quasi affascinato, era che adolescenti come noi avessero letto tanto della sua opera. Non c’è da stupirsi del fatto che Borges si rendesse conto che solo grazie a una conduzione sistematica, organizzata, un gruppo di giovani poteva accedere a una lettura di questo tipo. Credo che per lui questo dovesse essere un motivo di particolare soddisfazione perché era prevedibile che lo leggessero, lo studiassero o lo discutessero in ambienti accademici, ma che una manciata di alunni di un liceo di periferia accedesse a quel mondo immetteva qualcosa di misterioso nella loro educazione. Forse questa esperienza poteva, in qualche modo, avvicinare la sua letteratura a quella di Kipling, Stevenson, o altri i cui lettori non avevano limiti di età.
Senza dubbio, durante la visita di Borges a Santa Fe entrambi ebbero più tempo per il dialogo che in qualsiasi momento posteriore. In seguito Bergoglio si sarebbe occupato di soddisfare la richiesta di Borges, di mettere insieme “alcuni scritti di questi ragazzi” per mandarglieli e perché se li facesse leggere. Alcuni giorni dopo arrivò il ringraziamento per la cortesia di cui era stato oggetto durante il suo soggiorno a Santa Fe e l’inattesa richiesta di “scrivere il prologo di questo libro”, un libro che esisteva solo nella mente di Borges e per il quale avrebbe scritto – probabilmente – la sua prefazione più generosa: “Questo prologo non solo lo è di questo libro, ma anche di ciascuna delle ancora indefinite serie possibili di opere che i giovani qui riuniti possono, in futuro, redigere”.
Poi, il tempo. Si sono incontrati di nuovo? Suppongo che sia possibile, ma le circostanze devono essere state molto diverse.
Si può parlare di amicizia tra Borges e Bergoglio? È qualcosa di relativo. Dipenderà dal concetto di amicizia che ciascuno ha. In un mondo in cui l’amiconeria è moneta corrente, il concetto di amicizia sembra esser stato svalutato. Borges aveva amici pubblicamente noti e di certa fama, ma di numero ridotto. Bergoglio ha amici poco noti, e noi non siamo famosi. Però, entrambi li hanno sempre considerati come un circolo raccolto. Chi potrebbe stabilire se in qualche momento essi abbiano incluso l’altro nel proprio circolo? È improbabile, e da qui deriva che l’idea di una amicizia tra loro appaia fittizia. Quello che senza dubbio ci fu – altrimenti, il rapporto non sarebbe mai esistito – è che entrambi ebbero uno speciale rispetto umano e intellettuale per l’altro. Un riconoscimento che è diverso dall’amicizia, ma che – come essa – implica la stima e l’ammirazione.
Attualmente, lo stesso Papa Francesco ha chiesto che si organizzi un “cortile dei gentili” a Buenos Aires intorno alla figura di Jorge Luis Borges. La richiesta va oltre, non è finalizzata al salvataggio di una figura che si è ingigantita con il tempo, né a tessere elogi che si ripetono in ogni occasione. L’idea del Papa è assicurare, come dice Borges in “Everness”, che “Solo una cosa non c’è, ed è la dimenticanza”, e anche che “Dio, che salva il metallo, salva la scoria”, una promessa borgiana carica di speranza ai peccatori.
Traduzione dallo spagnolo di Francesca Casaliggi
– © TERRE D’AMERICA
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mercoledì 12 febbraio 2014

'Al fondo del nulla, il soffio della vita'



Incontro con autori e musica della cultura russa

Benedetto XVI: anniversario della rinuncia al pontificato

BENEDETTO XVI / L’ANNIVERSARIO

Cosa abbiamo imparato da quel gesto

di Ignacio Carbajosa Pérez
10/02/2014 - Era l’11 febbraio 2013 quando papa Ratzinger annunciò la sua rinuncia al ministero petrino. Una scelta che lasciò il mondo a bocca aperta. Dopo un anno la sua decisione continua a sorprenderci e a mostrare tutta la sua fecondità (da Tracce di febbraio)
Lunedì, 11 febbraio 2013. La notizia è più veloce di un fulmine. Papa Benedetto XVI, davanti a un gruppo di Cardinali, ha presentato la sua rinuncia: «Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Il mondo si paralizza per un attimo. Ci troviamo di fronte a uno di quegli eventi che segnano la vita, a tal punto che ognuno di noi ricorda benissimo dove si trovava e che cosa stava facendo quando lo ha raggiunto la notizia.
A un anno da quello storico momento, che cosa ci è rimasto? Che cosa abbiamo imparato da quel gesto di Benedetto XVI? Il primo insegnamento lo ricaviamo dalla lealtà con cui ognuno si pone davanti all’esperienza fatta negli istanti che hanno seguito la notizia. «In quel minuto di silenzio c’era tutto», scriveva Julián Carrón su Repubblica pochi giorni dopo. «Nessuna strategia di comunicazione avrebbe potuto provocare un simile contraccolpo: eravamo davanti a un fatto tanto incredibile quanto reale, che si è imposto con una tale evidenza da trascinare tutti, facendoci alzare lo sguardo dalle cose solite. Che cosa è stato in grado di riempire il mondo intero di silenzio, all’improvviso?». Ci trovavamo davanti all’irruzione, inaspettata, del Mistero di Dio nelle nostre vite, questa volta sotto gli occhi di tutto il mondo. L’avvenimento di Dio nella persona del testimone.

Il gesto del Papa, che contravveniva agli usi e costumi dei grandi statisti (ecclesiastici inclusi), metteva davanti agli occhi di tutti un fattore nuovo. Un fattore con cui, in effetti, non abbiamo a che fare abitualmente, chiusi nelle nostre analisi cervellotiche e preoccupati di non perdere neanche un dato. In realtà il Papa affermava il fattore per antonomasia, quello senza il quale la vita è priva di scopo: il Mistero di Dio che ci ha creato, che ci sostiene e che ha svelato il suo volto buono in Gesù Cristo.
E quel fattore nuovo, «la pietra scartata dai costruttori divenuta la pietra d’angolo» (dal Salmo 118), entrava nel mondo attraverso un gesto di libertà inaudita. Che costringe a fermarsi e ad alzare lo sguardo. «Pieno di stupore», continuava Carrón nell’articolo citato, «sono allora stato costretto a spostare lo sguardo su ciò che lo rendeva possibile: chi sei Tu, che affascini un uomo fino a renderlo così libero da suscitare anche in noi il desiderio di quella stessa libertà?». Lo Spirito di Cristo risuscitato che governa il mondo non si può vedere. Ma si vede la libertà che genera, attraverso la quale possiamo riconoscerlo: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà», ci ha insegnato san Paolo. E questa libertà è uno dei segni inconfondibili della sua Presenza, nei quali il cuore morale capta il segno della Presenza del suo Signore.

Pedro J. Ramírez, direttore del giornale El Mundo, uno degli editorialisti spagnoli più importanti, in quel periodo diceva ai suoi lettori: «Da diversi giorni mi sto domandando perché la rinuncia del Papa mi sta provocando un malessere crescente, anche se non sono un cattolico praticante e in materia di credenze il mio spirito critico ha quasi sempre la meglio sul confortevole patrimonio di un’educazione religiosa pacifica. Sì, è stata una notiziona, ma dopo averne vissute tante in prima linea, per quale motivo mi sento molto più coinvolto da questo passo indietro del capo della Chiesa che dall’elezione e rielezione di Obama, dagli scandali politici (...) e persino dalla situazione economica che ci tiene tutti sulla corda? (...) A poco a poco compariva l’ammirazione per un gesto colmo di lucidità e di senso dei propri limiti, che non ha precedenti omologabili nella storia della Chiesa».
La rinuncia di Benedetto contiene un altro insegnamento, forse meno immediato, ma non meno importante. Nonostante l’esistenza di un lontano precedente, la rinuncia del Papa indicava un modo di esercitare il primato che apriva a una nuova modalità dei rapporti ecumenici. Infatti le Chiese ortodosse hanno sempre guardato con sospetto alla figura del Vescovo di Roma come una specie di monarca, insediato in una posizione gerarchica al di sopra di tutti gli altri vescovi. E certamente le modalità con cui si è esercitato questo ministero durante gli ultimi secoli (in cui gli attacchi alla Chiesa hanno fatto crescere l’unità intorno alla figura del Papa, la devozione per lui e la necessità di un principio forte di autorità) hanno potuto dare questa impressione, rappresentando un ulteriore ostacolo all’unità con gli ortodossi, disposti a riconoscere al Vescovo di Roma un certo primato, anche soltanto quello di primus inter pares (primo tra uguali). Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint aveva già richiesto che si studiassero nuovi modi per esercitare il ministero petrino, consapevole di questo problema ecumenico.

Il gesto di rinuncia di Benedetto XVI conteneva anche un messaggio per l’Ortodossia e per tutta la Chiesa universale: a differenza del dono spirituale trasmesso con il sacramento dell’Ordine (ricevuto pienamente nell’episcopato), i doni ricevuti con il primato non diventano un patrimonio privato della persona. Si assegnano alla persona concreta soltanto nel suo rapporto con la Chiesa universale. Il primato non è un sacramento (che collocherebbe la persona del Papa sacramentalmente al di sopra degli altri vescovi), ma una missione per la Chiesa universale. In questo senso, il gesto di Benedetto ci mostra che, come tutti gli altri vescovi, il Papa può rinunciare al suo servizio quando le circostanze lo rendano necessario.
Se il magistero di papa Ratzinger si era presentato esplicitamente come un servizio alla Parola di Dio (pensiamo a quanto la Scrittura abbia permeato tutte le sue catechesi, i suoi discorsi e documenti), venendo incontro alle reticenze delle confessioni protestanti che accusano il ministero petrino di porsi al di sopra del Vangelo, il suo ultimo gesto rappresentava una mano tesa agli ortodossi, in nome della tanto desiderata unità.
Quest’ultima intenzione non è passata inosservata al successore di Benedetto. Infatti Francesco, dal balcone di Piazza San Pietro, con parole che sono risultate particolarmente significative, si è presentato come il «Vescovo di Roma», vescovo di una Chiesa «che presiede nella carità tutte le Chiese». Successivamente, nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, afferma: «Non credo che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il Papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la necessità di procedere in una salutare “decentralizzazione”» (n. 16).

E dunque si capisce meglio quello che Julián Carrón ci diceva un anno fa: «Non solo la libertà, ma anche la capacità del Papa di leggere il reale, di cogliere i segni dei tempi, grida la presenza di Cristo» (Repubblica). Quella del Papa è una ragione ampliata dalla convivenza con l’avvenimento di Cristo.
Il gesto di libertà e di lettura della realtà del Papa, come i gesti dei profeti di Israele, si offre all’interpretazione degli uomini. È il modo con cui il Mistero di Dio ci chiama, senza forzare la nostra libertà. Come è accaduto al discepolo Giovanni, che quella mattina, davanti a una pesca eccezionale e al volto indistinto di quell’uomo laggiù sulla riva, ha gridato: «È il Signore!». Nella misura in cui ognuno di noi ha ceduto alla grandezza del gesto di Benedetto e ha pronunciato, in un modo o nell’altro, il nome del Signore, ha visto crescere la sua certezza. Soltanto chi ne ha fatto l’esperienza in quegli storici giorni può «trovare quella certezza che ci renda veramente liberi dalle paure che ci attanagliano» (ancora Carrón nell’articolo di Repubblica).
È la certezza nella Presenza del Mistero di Dio che governa la storia, che il gesto del Papa ci ha messo davanti agli occhi. Quella che ci permette di comprendere la novità rappresentata da papa Francesco, superando l’attaccamento alle nostre immagini. L’evangelista Marco ci dice che i discepoli, il giorno dopo quel miracolo in cui Gesù ha dato da mangiare a cinquemila uomini, ebbero di nuovo paura perché «non avevano compreso il fatto dei pani: il loro cuore era indurito» (Mc 6,52). Il gesto di Benedetto ci ha aiutato e ci aiuta a comprendere.

martedì 11 febbraio 2014



COMUNICATO STAMPA
GIORNATA DEL MALATO; BANCO FARMACEUTICO:
IN UN GIORNO RACCOLTI
350
MILA FARMACI
DA DESTINARE AI PIU’ POVERI
Gradnik: “Nonostante la crisi la generosità degli italiani non si smentisce mai”.
Grande successo su scala nazionale per la XIV Giornata di Raccolta del Farmaco
Infatti,nella sola giornata di sabato 8 febbraio sono stati raccolti oltre 350.000
farmaci donatidai cittadini che si sono recati in farmacia. La raccolta si è svolta in oltre
1.200
Comuni e 95 Province italiane e per la prima volta anche a Crotone, Arezzo, Caserta, Ragusa, nella
provincia autonoma di Bolzano e nella Repubblica di San Marino, hanno aderito alla col
letta dei farmaci da automedicazione ben 3.561 farmacie (rispetto alle 3.375 dello scorso
anno). I volontari che hanno fatto un turno in farmacia sono stati oltre 14.000
L’iniziativa è stata organizzata dallaFondazione Banco Farmaceutico onlus  in collaborazione con
CDO Opere Sociali e Federfarma.

Sorprende, dunque, la straordinaria generosità degli italiani che, nonostante le difficoltà
economiche hanno donato oltre 350.000 confezioni di farmaci.
Con questa raccolta la Fondazione Banco Farmaceutico potrà dare una risposta importante al
fabbisogno dei1.576 enti assistenziali
che intervengono su una realtà di circa 600.000 poveri (e non si
tratta solo di immigrati e profughi, ma sempre più di italiani in difficoltà).
A questo straordinario risultato va aggiunta anche la donazione di oltre 546.000 euro
da parte dei farmacisti che hanno aderito alla giornata. Fondamentale il sostegno e il 
supporto da parte delle istituzioni 
(Regioni, Province, Comuni)
che hanno patrocinato, di Assosalute (Associazione nazionale delle industrie farmaceutiche dell’automedicazione) della FOFI(Federazione Ordini Farmacisti Italiani), e di tutte le aziende
farmaceutiche che hanno sostenuto l’iniziativa,
Boehringer Ingelheim
,
EG EuroGenerici
,
DOC Generici
,
Fondazione
Banco Farmaceutico onlus
viale Piceno, 18 · 20129 Milano MI
tel +39 02 70104315 · fax +39 02 700503735
info@bancofarmaceutico.org
www.bancofarmaceutico.org
C.F. 97503510154
MEDIA PARTNERU

Un senso di riconoscenza particolare alla
Presidenza della Repubblica,
alla fondazione
Pubblicità Progresso
che ha concesso il suo Patrocinio, riconoscendo il valore civile
della Giornata di Raccolta, al
Segretariato sociale della Ra,
e a
Mediafriends Onlus
.
In un momento di difficoltà -
ha commentato Paolo Gradnik presidente della Fondazione
– occorre fare rete per sostenere quanti si trovano in stato di povertà e di emarginazione
La Giornata di raccolta è un esempio virtuoso di come si possa secondo il principio
di sussidiarietà dare una risposta concreta ad una nuova povertà quella sanitaria che
sempre più colpisce famiglie italiane ed anziani soli

Sabato scorso –
conclude Gradnik
– abbiamo assistito ad un vero miracolo della solidarietà
ed ancora una volta il cuore degli italiani si è dimostrato grande
”.
L’elenco degli enti assistenziali destinatari dei farmaci è disponibile su
www.bancofar
-
maceutico.org
UFFICIO STAMPA
FONDAZIONE BANCO FARMACEUTICO
Gianluca Scarnicci
cell. +39 320 4343394
Lucia Supino
cell. +39 392 2572093
t. +39 02 70104315
Giuseppe Pallotta
cell. +39 331 9523113
Fondazione
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domenica 9 febbraio 2014

8 febbraio 2014: Banco Farmaceutico a Manfredonia



I volontari fanno il loro turno nella farmacia in piazza Duomo, a Manfredonia, nel giorno della raccolta del farmaco promossa dalla fondazione Banco Farmaceutico (8-2-2014) a favore degli enti che assistono i più bisognosi

martedì 4 febbraio 2014

'Ora la mia Russia spera nella libertà'. Forse dovrebbe leggere (o rileggere) Vasilij Grossman. In ogni caso la libertà è un bene molto scarso, e non viene certo dall'assenza del gulag.

«Ora la mia russia spera nella libertà»
Fu tutta colpa di un libro. Per aver distribuito clandestinamente I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov – una cronaca agghiacciante dei gulag nell’omonima regione – il giornalista e attivista Andrej Mironov fu arrestato dalla polizia segreta russa, il Kgb, e condannato a quattro anni di detenzione e tre di esilio per propaganda sovversiva antisovietica.

Era il 1985 e al potere a Mosca c’era ancora Gorbaciov. Mironov fu spedito in un gulag in Mordovia e rinchiuso in cella di punizione, costretto a mangiare cibi pieni di vermi e a bere acqua sporca. Venne liberato dopo un anno e mezzo, grazie all’intercessione di Reagan e alla Perestrojka che stava facendo il suo corso.

Da allora ha iniziato a lavorare come ricercatore specializzato in diritti umani in diverse zone di conflitto: Nagorno Karabakh, Tagikistan, Afghanistan e soprattutto Cecenia, dove ha provato a organizzare incontri tra rappresentanti ceceni e deputati russi per trovare una soluzione pacifica al conflitto. Un’iniziativa destinata a rivelarsi fallimentare, perché Mosca aveva già deciso di schiacciare l’insurrezione con la forza. Nel 2003 venne aggredito in circostanze misteriose riportando gravi ferite alla testa.

«Alla mia cara amica e collega Anna Politkovskaja è andata molto peggio», chiosa con amarezza, adesso che è tornato in Italia insieme ad Amnesty International e ad altre Ong per denunciare ancora una volta le gravi violazioni dei diritti umani nel suo Paese. Durante la sua recente visita a Firenze, Mironov ci spiega in un ottimo italiano che purtroppo la Russia continua a dover essere identificata con Vladimir Putin e con la polizia politica che sta dietro di lui, con un enorme potere. «Dai tempi dell’Unione Sovietica non è cambiato molto sul piano dei diritti umani e della libertà d’opinione. Non è un caso che, oltre alla Politkovskaja, negli ultimi anni abbiano fatto sparire altri quattro giornalisti della “Novaja Gazeta”, che è l’unico quotidiano che si permette di criticare la politica di Putin».

Da alcuni anni Mironov collabora assiduamente con l’associazione Memorial, la più importante organizzazione russa per i diritti umani, che assiste i familiari delle vittime dei campi di concentramento sovietici. Ma il suo rischioso lavoro di denuncia si concentra soprattutto sul presente: «In Russia continua a esserci un pesante controllo dell’informazione, a tutti i livelli».

Quanto alla Cecenia, altro grande tasto dolente del quale la stampa internazionale ormai non parla più, Mironov ci tiene a sottolineare quanto sia falsa l’immagine di pacificazione che Mosca è riuscita a far passare. «C’è sempre un regno di terrore in Cecenia – spiega – perché non si può stabilizzare un Paese con la repressione e l’assenza di giustizia e diritto. Viceversa ci sono ancora uccisioni extragiudiziali, e le vittime non sono i terroristi ma gli operatori dei diritti umani».

Il dramma ceceno accende l’indignazione di questo anziano giornalista-attivista e il ricordo sempre vivo della sua amica Anna Politkovskaja torna a velargli gli occhi di tristezza. «Anna era una persona straordinaria, che aiutava le persone, che non sapeva dire di no a chi le chiedeva aiuto. La nostra collaborazione era costante e basata su ideali comuni. Mi manca tanto.

Sia le indagini che stava portando avanti prima di morire che gli attentati subiti in precedenza fanno pensare a una precisa volontà di eliminarla da parte del regime». Negli ultimi trent’anni della sua vita quest’uomo ha conosciuto una lunga scia di orrori che parte dagli ultimi gulag del regime sovietico agli orrori interni ed esterni della Russia del Terzo millennio. Ha subito minacce e attentati. Ha visto amici, compagni e colleghi imprigionati, uccisi, spariti nel nulla. Eppure negli ultimi anni è riuscito a intravedere qualcosa che ha riacceso in  lui la speranza in un futuro migliore.

«Vedo che sta crescendo una nuova generazione di ventenni e trentenni, che è finalmente orfana del paternalismo che caratterizzava il regime sovietico e quindi non ha niente da perdere. Una generazione di giovani più liberi perché non si aspettano nulla dal potere, che cercano le notizie su internet invece che ascoltare le tv controllate dallo Stato. Che si è indignata per l’evidente falsificazione dei risultati elettorali, e che per questo è scesa in piazza a protestare. Forse la società civile sta diventando più forte rispetto al passato, e non è più disposta a tollerare un regime autoritario fondato sulla paura».

Riccardo Michelucci

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lunedì 3 febbraio 2014

"Come posso fare un fil su una donna che pensa? ...Io voglio capire. Non posso capire sempre, non posso capire tutto, ma voglio capire, devo. Capire è una mia responsabilità" (Margareth von Trotta)

“Io voglio, io devo capire”

ishot-303Forse davvero solo una donna forte, indipendente, dalla lunga storia di impegno e militanza artistica e intellettuale come Margarethe Von Trotta poteva assumersi il rischio, e l’eventuale onore, di riportare all’attenzione del mondo con tanta forza e un pizzico di impudenza un’altra donna dal carattere fortissimo e dallo spirito libero come Hannah Arendt. Non è certo un caso che molti dei suoi personaggi corrispondano a queste caratteristiche: sia che si tratti dei film più legati all’attualità e alla politica, sia che si faccia riferimento ai personaggi femminili apparentemente meno impegnati, le donne che ritrae non sono mai banali, non sono mai scontate nei pensieri, nei gesti. E certamente non sono donne deboli. Vogliono capire. E quel “voglio capire” che pronuncia Hannah Arendt con grande forza nel film descrive perfettamente la sua filmografia, e lei stessa. Fra i principali registi tedeschi, Margarethe Von Trotta è stata prima attrice, per poi diventare una delle anime del Nuovo Cinema Tedesco negli anni ’70 e ’80, insieme a Werner Herzog e a Reiner Werner Fassbinder. Un cinema impegnato politicamente, il suo, che da sempre alterna film dedicati all’attualità politica a ritratti di grandi personaggi femminili, spesso unendo le due cose. È talmente importante nel panorama intellettuale tedesco che prima di intervistarla è d’obbligo documentarsi seriamente, ed essere pronti a pesare le parole. Ma per approfondire i suoi percorsi, le storie e la Storia che narra non sono certo sufficienti quei pochissimi giorni trascorsi fra la richiesta di intervistarla e l’appuntamento ottenuto. Sorprendentemente pochi, anche considerando l’attenzione che sta attirando su di lei il suo ultimo lavoro, così come sorprendente è la disponibilità di una donna che per prima cosa ammette di aver pensato “oh, no, un’altra intervista…”, ma che si presta a raccontare i percorsi che l’hanno portata a occuparsi di Hannah Arendt. La foga e la passione con cui racconta delle lotte intraprese per riuscire a ottenere i finanziamenti – ha spiegato ridendo che “è stato davvero molto difficile, sono solo una povera regista europea” – alterano a volte il suo italiano impeccabile, vagamente antiquato, che nella foga lascia trasparire con maggiore evidenza il tedesco, sia nel vocabolario che nell’accento. Un italiano che a volte proprio nell’uso improprio di alcune parole inventa termini ancora più efficaci, come quando citando un filmato originale del processo Eichmann parla di uno dei testimoni che si sente male, proprio mentre sta “memorando” la sua storia, e “svanisce”. Una storia impossibile da raccontare, così come è stato per lei impensabile cercare un attore che impersonasse Adolf Eichmann.
Chi avrebbe potuto interpretare Eichmann?
No, ho saputo da subito che non era possibile, ho di proposito escluso immediatamente il ricorso a un attore. Non sarebbe stato giusto. Ho scelto di utilizzare i filmati originali, anche per evitare che l’attenzione del pubblico si concentrasse sulla bravura dell’attore. Per me è importantissimo che chi guarda il film veda il vero Eichmann, l’impersonificazione del male, che invece era così normale, così mediocre, così mostruosamente ordinario.
Ha studiato i filmati del processo?
Il processo Eichmann è durato otto mesi, sono circa 270 ore di riprese, è impossibile guardarle tutte. Non solo per il tempo necessario, è una visione insostenibile. In questo la collaborazione con lo Yad Vashem è stata fondamentale, e avevo anche visto “The Specialist”, il film del regista israeliano Eyal Sivan che ha fatto un lavoro enorme sui filmati originali. E ho studiato, ho studiato tanto.
Non deve essere stato facile prepararsi per questo ultimo film.
La cultura ebraica per me non è una novità, me ne sono già occupata, soprattutto per Rosenstrasse… e ho pianto per delle giornate intere. Per quanto già si sappia della Shoah, quando ci si mette in testa di raccontare quel periodo, quei fatti, e si cerca davvero di capire, è tremendo. Vedere documentari, cercare di sapere, di capire, leggere i grandi scrittori, Elie Wiesel, Primo Levi… le storie che raccontano sono terribili, terribili.
So che l’idea di fare un film su Hannah Arendt non l’ha immediatamente entusiasmata.
Era il 2002, avevo appena finito Rosenstrasse, e un amico mi ha detto che a quel punto dovevo assolutamente fare un film sulla Arendt. La mia prima reazione è stata totalmente negativa, ho pensato “è impossibile, perché devo farlo? Come posso fare un film su una donna che pensa?”
Cosa le ha fatto cambiare idea?
Anche se non volevo, continuavo a pensarci, e a un certo punto ne ho parlato a Pamela Katz, la mia sceneggiatrice. Pam è un’ebrea americana, abbiamo lavorato tanto insieme, ci conosciamo molto bene, e dal momento in cui le ho detto dell’idea mi sono trovata come in un sandwich, fra il mio amico e lei. Ma continuava a sembrarmi troppo: troppo difficile, troppo intellettuale, troppo arrogante… ma ho avuto tempo di pensarci, ci sono voluti otto anni per riuscire a raccogliere abbastanza finanziamenti e iniziare le riprese!
La vita di Hannah Arendt è stata piena di episodi molto forti, che forse sarebbero stati anche più facili da trasporre in un film, ma avete scelto gli anni in cui segue il processo Eichmann e scrive “La banalità del male”. Perché?
Sì, ha avuto enormi difficoltà in tutta la sua vita, e ci sono altre parti della sua storia che varrebbe davvero la pena di raccontare, ma io volevo affondare nella profondità del suo pensiero. Mi interessava provare a guardare la Storia, quella storia, attraverso i suoi occhi.
La Hannah Arendt del film è forse diversa da come la si immagina, non la preoccupa questo?
Era un personaggio vitale e appassionato, e basta leggere le tante lettere che ha scritto per capirlo. Nelle lettere a suo marito, a Martin Heidegger – che ha tentato per lungo tempo di comprendere – nelle lettere a Kurt Blumenfeld, il suo amico israeliano che dopo la pubblicazione de “La banalità del male” è talmente ferito da non volerle più parlare, viene fuori il suo carattere. Ho trovato Lotte Kohler, la sua assistente, che nel film era giovanissima, e ho parlato anche con altri che l’hanno conosciuta bene. Era simpatica, una persona calorosa, generosa nelle amicizie. Non era solo una intellettuale polemica. E ho voluto che fosse Barbara Sukowa a interpretarla, perché sapevo che solo lei sarebbe riuscita. Senza di lei e senza Pam Katz non avrei potuto fare il film.
Il suo film ha risvegliato le polemiche su “La banalità del male”, era quello che voleva?
Non guardo mai indietro, e certamente prima di fare questo film non avevo le idee chiare. So che in Germania, dopo l’uscita del film, i libri di Hannah Arendt sono stati di nuovo venduti molto. Era successo anche con Rosa Luxemburg, e se questo serve a capire meglio la Arendt io sono certamente molto contenta. Sono totalmente concorde con quello che dice lei. E anche io voglio capire. Non posso capire sempre, non tutto, ma voglio capire, devo. Capire è una mia responsabilità.

Ada Treves
, da Pagine Ebraiche febbraio 2014

domenica 2 febbraio 2014

Tra Orwell e Ceausescu


Tra Orwell e Ceausescu

La filosofa contro il gender, nuovo “catechismo” francese

Anche il Monde contro le “buffonate” di un’ideologia fanatica e irreale

La filosofa e storica delle idee politiche Chantal Delsol è intervenuta ieri, sul Monde, sulla questione dei programmi scolastici francesi ispirati alla teoria del gender. Ecco alcuni stralci del suo articolo:

Una faccenda di catechismo a scuola sta facendo rumore nei media. Sembra che un certo numero di famiglie voglia mettere in questione catechismo e relativi dogmi, vale a dire il discorso sul gender… Il cosiddetto discorso sul gender assomiglia talmente a una religione che non ci si può impedire di utilizzare, per descriverne le avventure, un vocabolario religioso. Ha a che fare con l’ideologia, di cui mostra il fanatismo e l’irrealtà. I suoi difensori sono apostoli sovreccitati, mai stanchi, l’insulto sempre alle labbra. I testi governativi che riguardano la scuola precisano che i figli appartengono allo stato. I testi che riguardano il genere, della stessa risma, vorrebbero precipitarci in una società surreale, tra George Orwell e Nicolae Ceausescu, dove nulla ha il suo posto, perché sono il potere e i guardiani dell’ortodossia regnante a decidere dell’ordine del mondo. Tutto questo è così inverosimile, così ridicolo e così grottesco, che senza dubbio se ne occuperanno gli umoristi… I nostri governanti non devono immaginare che ridurranno facilmente le famiglie francesi a credere che ragazzi e ragazze sono diversi solo dove lo decida il ministero, perché nella semplice realtà le cose non funzionano così.
E le famiglie possono anche non essere versate nella metafisica delle sfere, ma non significa che siano idiote, e quando si tratta dei loro figli sono determinate a rifiutare che si facciano loro bere simili buffonate. La differenza sessuale genera gerarchie, discriminazioni e ineguaglianze, e a farne le spese sono sempre le femmine. E’ storia. Bisogna dunque sopprimere le differenze per sopprimere le discriminazioni? (…) Quando invece di ragazzi e ragazze non avremo che un sesso indeterminato, un ‘Tomboy’ (film su una bambina di dieci anni che si finge maschio con i coetanei, ndr) mostrato come modello universale in tutte le scuole della République, allora non ci saranno più discriminazioni, ma nemmeno differenze. L’indeterminazione non è affatto l’ideale da perseguire per impedire le ingiuste diseguaglianze, che si combattono meglio valorizzando le differenze e la loro complementarietà… Di che cosa è il nome questa ideologia che avanza come destino ineludibile o come lo spirito di Hegel? Essa risponde all’ideale di emancipazione che abita la cultura europea fin dalle origini, e le cui manifestazioni concrete punteggiano la nostra storia e la plasmano. L’unica cultura in cui si possono trovare opere come ‘L’asservimento delle donne’ di Stuart Mill o ‘Una stanza tutta per sé’ di Virginia Woolf, con tutte le misure politico-sociali che questo comporta. Eppure, è triste vedere questa bella storia di emancipazione impantanarsi nell’estremismo e nel fanatismo. Come proteggersi dall’estremismo in cui cadono discorsi come quello del gender? Tenendo conto non solo dell’invidiabile emancipazione, ma anche del radicamento necessario che ci àncora alla condizione umana, alla storia, alle esigenze naturali elementari. Sopprimere qualsiasi radice: è quello che avevano tentato i soviet, al punto che Trotsky diceva: ora viviamo in un bivacco. Una società umana non può fare di un bivacco la sua dimora”.
di Chantal Delsol