sabato 27 aprile 2024

Il 25 aprile

 


L'analisi. Il 25 aprile, De Gasperi, e le occasioni mancate

Il 25 aprile, De Gasperi, e le occasioni mancate

Angelo Picariello

giovedì 25 aprile 2024

 

Alla vigilia della Festa della Liberazione, su iniziativa della Fondazione De Gasperi, al cimitero del Verano è stato reso omaggio al monumento funebre dello statista democristiano. Una cerimonia semplice, che ci consente di ricordare oggi – nel pieno di una polemica altamente divisiva – che fu lui, con regio decreto del 22 aprile 1946, da primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata, a formalizzare la proposta di istituire la festa del 25 aprile, e da quale spirito fosse animato. Il presidente della Fondazione Angelino Alfano ha citato l’intervento di De Gasperi al congresso dei comandanti partigiani: «Si devono lasciare cadere i risentimenti e l’odio.

Si deve perdonare», disse. Un auspicio che risuona ancora come inascoltato. L’Italia era in ginocchio e cercava di ripartire con una festa di riconciliazione nazionale. L’eccidio vile e brutale di Giacomo Matteotti, la sostanziale solitudine in cui si era venuto a trovare ci ricordano quante connivenze e iniziali sottovalutazioni permisero al fascismo di insediarsi e diventare dittatura. De Gasperi stesso aveva da farsi perdonare il sostegno che aveva dato al primo governo Mussolini, mai pentitosene abbastanza, motivo di una temporanea rottura con don Sturzo, costretto all’esilio. Si era ancora nella Monarchia, l’assemblea Costituente sarebbe stata eletta due mesi dopo e il 13 marzo 1947 Aldo Moro vi tenne un celebre intervento, sancendo a conclusione dei lavori il carattere marcatamente “antifascista” della Costituzione.

La destra non era presente in Costituente, il Movimento sociale italiano fu fondato dopo, in contemporanea, quasi in alternativa. Vi aderirono ex fascisti ed ex repubblichini che, in misura anche maggiore rispetto agli ex partigiani comunisti, avevano usufruito dell’amnistia Togliatti, provvedimento spesso criticato, finalizzato in realtà a tirare una linea sul passato e avviare su nuove basi la storia repubblicana. Ma a destra questa riconciliazione con la Repubblica italiana non avvenne. Ancora negli anni Settanta Giorgio Almirante sostenne con franchezza e coerenza degne di miglior causa che, se si fossero ripresentate le condizioni, avrebbe rifatto le stesse cose. Ed è noto che esponenti legati o vicini al suo partito tramarono nell’ombra proprio perché quelle condizioni si potessero ripresentare. La storia più recente ci porta alla svolta di Fiuggi, al fascismo proclamato “male assoluto” da Gianfranco Fini, mentre un gruppo di ex dirigenti del Msi e di esponenti più giovani, considerando quella scelta come il “tradimento” di una storia, volle salvare il vecchio simbolo della fiamma tricolore. Che ancora campeggia, in piccolo e in basso, nel simbolo depositato da Fratelli d’Italia per le Europee.

La destra alla guida del governo per la prima volta poteva essere l’occasione per una vera riconciliazione con la Costituzione; invece è in corso un altro processo, con tutta la sua portata divisiva, volto a riformare la Carta in profondità, mentre a destra rimane quel tabù del suo carattere antifascista. Ed è un peccato, perché anche intuizioni eccellenti come il Nuovo piano Mattei per l’Africa, senza fare i conti con la storia, stentano a diventare fattore unificante e di orgoglio dell’intera nazione. Mentre gioverebbe a tutti ricordare, magari il 25 aprile, da quale storia veniva e di quale cultura politica era portatore il fondatore dell’Eni, che fu capo partigiano cattolico, legato a un grande ministro Dc quale Giovanni Marcora, portatore in Africa di una cultura italiana non colonialista e non nazionalista, in piena discontinuità con una storia politica che nel Ventennio aveva evocato l’esatto contrario. (continua su Avvenire)

https://www.avvenire.it/attualita/Pagine/il-25-aprile-de-gasperi-e-le-occasioni-mancate#:~:text=L%27analisi.%20Il,Roberto%20d%27Angelo

martedì 16 aprile 2024

Beatificazione di don Luigi Giussani: si apre la “Fase testimoniale” (Chiesa di Milano)





Beatificazione di don Luigi Giussani: si apre la “Fase testimoniale” L’Arcivescovo terrà la prima sessione pubblica il 9 maggio, solennità dell’Ascensione, presso la basilica di Sant’Ambrogio a Milano, essendo ormai in fase avanzata la ricerca documentale sul Servo di Dio fondatore di Comunione e Liberazione 14 Aprile 2024 Don Luigi Giussani Giovedì 9 maggio, alle ore 17, nella basilica di Sant’Ambrogio, l’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, terrà la Prima Sessione pubblica della Fase testimoniale per la causa di beatificazione e di canonizzazione del Servo di Dio Luigi Giussani. Nel febbraio 2012 la Fraternità di Comunione e Liberazione chiese che si desse inizio al Processo (o Inchiesta diocesana) in vista della beatificazione e canonizzazione del suo fondatore, mons. Luigi Giussani, nato a Desio il 15 ottobre 1922 e morto a Milano il 22 febbraio 2005 in fama di santità. L’allora Arcivescovo di Milano, il Cardinale Angelo Scola, accolse la richiesta e, secondo le norme emanate dalla Santa Sede, avviò la prima fase del Processo, la cosiddetta Fase documentale. Due teologi vennero incaricati di leggere gli scritti editi e di stendere una Dichiarazione che attestasse l’assenza di errori riguardo alla fede e alla morale e che illustrasse il pensiero teologico e la spiritualità del Servo di Dio, come da allora doveva essere chiamato mons. Giussani. Allo stesso tempo venne nominata una Commissione storica, incaricata di raccogliere tutta la documentazione che permettesse di conoscerne la vita. Obiettivo di questa ricerca è quello di rendere fondata con i documenti la pertinenza e la convenienza della beatificazione del Servo di Dio, quale modello convincente di vita cristiana e, in questo caso, sacerdotale. Essendo ormai in fase avanzata questa fase di ricerca documentale, l’Arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ha deciso di dare inizio alla seconda fase dell’Inchiesta canonica, detta Fase testimoniale. «Essa – spiega mons. Ennio Apeciti, responsabile del Servizio diocesano per le Cause dei Santi – ha un volto per certi versi più “processuale”. La Commissione (o Tribunale) nominata dall’Arcivescovo interrogherà alcune decine di persone, che con la loro conoscenza del Servo di Dio ne illustrino la vita, il pensiero, la spiritualità, la fama di santità ed esprimano il loro pensiero sull’opportunità della beatificazione e canonizzazione. Il fine di questa seconda fase è quello da una parte di confrontare quanto conosciuto attraverso i documenti raccolti nella Fase documentale; dall’altra di ascoltare la voce del Popolo di Dio, o almeno di una sua rappresentanza significativa». Terminata la Fase testimoniale, quanto raccolto sarà inviato al Dicastero delle Cause dei Santi in Vaticano, ove verrà verificato il lavoro fatto nella Diocesi di Milano e seguiranno le altre fasi previste dalle norme fino ad arrivare alla eventuale decisione del Santo Padre di dichiarare Venerabile il Servo di Dio. «L’esame attento di un miracolo concesso da Dio per intercessione del Servo di Dio – continua mons. Apeciti -, permetterà al Pontefice di dichiarare Beato mons. Luigi Giussani e un altro miracolo, successivo alla beatificazione, di proclamarlo Santo per la Chiesa». La scelta della data del 9 maggio e del luogo, la basilica di Sant’Ambrogio, per lo svolgimento della Prima Sessione pubblica della Fase testimoniale, è stata fatta dall’Arcivescovo per motivi legati alla figura stessa di don Giussani: «La solennità dell’Ascensione, che ricorre appunto il 9 maggio – spiega ancora mons. Apeciti – era particolarmente cara al sacerdote e la basilica Santambrosiana è sembrata la più adatta a esprimere il legame di un sacerdote ambrosiano con il suo “massimo patrono”. Infine, la vicinanza della Basilica all’Università Cattolica del Sacro Cuore vuole fare memoria del luogo nel quale per molti anni il Servo di Dio formò generazioni di giovani, comunicando loro il suo appassionato amore per la Chiesa».

Apertura della fase testimoniale della causa di beatificazione di don Gi...

venerdì 5 aprile 2024

 PASQUA 2024/ Perché Giovanni capì prima di Pietro che Cristo era risorto?

                                                       


Pubblicazione: 01.04.2024 - Flavia Manservigi

Dopo Maddalena (che Lo vide) Pietro e Giovanni corsero al sepolcro, come nel quadro di Burnand. Ma Giovanni credette per primo

Una mattina come le altre, quella successiva alla Pasqua ebraica: era domenica, ma non ancora il dominĭca (dies) – giorno del Signore. Semplicemente, si trattava del giorno dopo il riposo del sabato, reso forse speciale solo per il fatto di seguire la festa più importante per il popolo ebraico.

Per un gruppo di persone in particolare, quella domenica mattina si ammantava di un velo di dolore acuto, quello che segue la morte di un congiunto, di un amico, che in quel caso poi era anche un Maestro.

Nel cuore degli apostoli non doveva brillare una gran luce: soltanto due giorni prima, il loro Maestro, appunto, era stato torturato e appeso a una croce, come il peggiore dei criminali. Non c’erano risposte a questa morte atroce; a nessuna morte, allora, era mai stato dato alcun senso o alcuna risposta. Si moriva e basta. Si andava nel niente. Polvere eri e polvere ritornerai, senza appello.

 

Maria Maddalena, col cuore pesante, si reca al sepolcro di Gesù, e trova la pietra ribaltata. Il sepolcro vuoto. “Hanno portato via il mio Signore”. Il cuore, già lacerato, si squarcia ancora. Corre dai discepoli (alcuni di loro, oltre che con il dolore, stavano facendo i conti anche con il senso di colpa: Pietro, ad esempio, non Lo ha solo abbandonato; Lo ha anche rinnegato). Ma proprio quel Pietro, mosso dal terrore che sia stato compiuto anche l’ultimo scempio – il furto del corpo – corre, disperatamente, per quanto la sua energia e la sua età gli permettevano. Con lui va anche Giovanni; almeno lui il senso di colpa di averlo abbandonato non lo aveva; ma sicuramente covava nel cuore il dolore sordo di chi ha visto l’amico deposto nel sepolcro, e la pietra chiusa per sempre su tutto quello che Lui era stato.

Arriva prima Giovanni, ma non entra, per rispetto a Pietro. Si abbassa, per dare un primo sguardo a quello che è avvenuto nella tomba. “Vide le bende per terra, ma non entrò”.

Ed ecco anche Pietro, con il fiatone per la fatica e l’angoscia; sembra quasi di vederlo. Anche lui si china: “vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte”.

 

Infine, entra anche Giovanni, e qui accade un fatto straordinario, perché il discepolo amato “vide e credette”.

Vide, vide, vide. Entrambi videro, ma solo uno dei due, alla fine, credette.

Ma cosa vide Giovanni, tanto da giustificare in lui il primo atto di fede in Cristo risorto? Una risposta può venire dal testo originale dei Vangeli, scritti in greco e tradotti spesso con lemmi che non rispecchiano la ricchezza della lingua originaria.

 

Nella traduzione che conosciamo, l’azione visiva dei due apostoli è sempre tradotta con il verbo “vedere”. Ma nel testo originale, a questo atto si associa di volta in volta un verbo diverso, con un significato differente. Il vedere di Giovanni, che, senza entrare nel sepolcro, per primo vede le bende e il sudario, è reso dal verbo blépein, che significa “constatare con perplessità”.

Il vedere le bende da parte di Pietro prima di entrare nel sepolcro è reso dal verbo theorein, che significa “contemplare uno spettacolo”, ma senza capire.

Quando infine Giovanni entra e osserva pienamente ciò che è rimasto nel sepolcro, è utilizzato il verbo eiden, che significa comprendere. Solo in quel momento, Giovanni vede qualcosa di preciso e in base a quel qualcosa comprende, e, dopo aver compreso, crede nella Resurrezione di Gesù.

Ma cosa ha visto Giovanni per giungere a questa conclusione? Il testo italiano dice che vide “le bende per terra”; ma il testo greco usa un’espressione diversa: ta othonia keimena.

Keimena in greco deriva da keimai, che significa “giacere, essere disteso, seduto, steso, orizzontale; si dice di una cosa bassa in opposizione a una elevata, eretta, come per esempio il mare calmo rispetto al mare agitato”.

Quando Giovanni ha assistito alla deposizione di Gesù nel sepolcro, ha visto che quelle bende erano alzate, sollevate, perché contenevano al loro interno il corpo del defunto. Ora Giovanni vede che la posizione delle bende è la stessa, ma esse non contengono più il corpo di Gesù: si sono abbassate, svuotate del loro contenuto, ma sono rimaste nella stessa posizione. Gesù, che è stato avvolto in quel lungo telo, vi è uscito, lasciandolo intatto; le fasce non sono state manomesse, e il corpo che vi era avvolto si è reso come meccanicamente trasparente. Da questo fatto, Giovanni capisce che Gesù è risorto.

 

Pietro non era stato in grado di giungere a questa conclusione perché lui non era al sepolcro; non aveva assistito alla deposizione di Gesù. Giovanni sì; Giovanni era stato con il suo Signore fino alla fine, e aveva visto in che modo il Maestro era stato deposto nella tomba. Per questo capisce. Per questo crede.

(….continua su il sussidiario.net)

 

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Resurrezione (Congdon)