giovedì 1 ottobre 2015

Centrafica: una testimonianza di pace in un Paese dilaniato dalla guerra


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mons. Dieudonné Nzapalainga
mons. Dieudonné Nzapalainga


Padre Federico Trinchero* Bangui (RCA)

In Centrafrica di leoni, da tempo, non ce ne sono più. Non è quindi una meta particolarmente ambita per chi ama un safari tra bestie feroci e paesaggi mozzafiato. Ma se foste in questi giorni qui a Bangui – la capitale di un paese che è grande due volte l’Italia, ma che vi sfido ad indicare rapidamente sulla carta geografica – potreste vedere con i vostri occhi un leone che si aggira tra le macerie di un paese che quasi non c’è più. Il poco che c’era è andato distrutto. Il leone in questione porta uno zucchetto viola e indossa una talare nera. Ha una semplice croce al petto. E non ruggisce affatto, ma stringe le mani a tutti, fossero anche ancora un po’ sporche di sangue. Non importa se siano di cristiani o di musulmani. È l’unico che riesce a stingerle entrambe senza farsi del male, senza fare del male. Il leone è mons. Dieudonné Nzapalainga, il giovane arcivescovo di Bangui.

Da ormai cinque giorni la città di Bangui è paralizzata. Sono ripresi gli scontri che avevano incendiato il paese tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, in seguito ad un colpo di stato, l’ennesimo, fallito. Gli scontri sono stati violenti, incredibilmente violenti: gente sgozzata, case incendiate, saccheggi, barricate sulle strade. Chi abita qui non è molto stupito. Si sapeva bene che la pace non era ancora arrivata e che sotto la cenere c’erano carboni ben accesi. Ed è bastata una scintilla per scatenare di nuovo l’inferno.


L’arcivescovo di Bangui – già qualcuno lo diceva e in questi giorni c’è un’ulteriore conferma – è l’unica autorità credibile del paese. Ed è probabilmente anche l’unica che potrebbe spegnere l’incendio. In queste ore si aggira per i quartieri di Bangui, la ‘ville morte’ come ripetono alla radio. Forse è l’unica persona – ad eccezione dei soldati e dei ribelli – che ha il coraggio di uscire, su di un veicolo e senza armi. Non ha scorta né giubbotto anti-proiettile, anche se in alcuni zone si spara ancora. Conduce lui stesso la macchina. Passa di quartiere in quartiere, di parrocchia in parrocchia, di campo profughi in campo profughi. Solo per lui anche i ribelli più irriducibili quasi s’inchinano e levano le barricate che bloccano le strade e lo lasciano passare. “Devo anche io fare il mio lavoro!”, spiega sorridendo a chi fa un po’ di storie e crede di fare un lavoro più utile di quello del vescovo; e le barricate si aprono per poi chiudersi di nuovo.

È quale sarà mai il lavoro dell’arcivescovo di Bangui? Passa in ogni  luogo dove c’è qualcuno che soffre, dove c’è qualcuno che è fuggito, dove c’è qualcuno che piange un morto. Chiede a tutti di smetterla di odiarsi; e poi incoraggia e prega. Se porta una notizia è perché l’ha verificata di persona. Dice a tutti di stare in casa – per chi ce l’ha ancora – e di non uscire, perché ancora la città non è sicura. Ma lui invece esce. E semina pace in un paese che sembra quasi non crederci più. Sarà forse questa la ‘chiesa in uscita’ che vuole papa Francesco? Se riuscirà a venire qui, tra esattamente due mesi come ha promesso, troverà ad accoglierlo un suo degno collaboratore.

Nzapalainga’ in sango, la lingua del Centrafrica, significa ‘Dio sa’. Che Dio esista non è per i centrafricani una cosa sulla quale discutere animatamente come si fa in Europa da secoli. Ma che Dio sappia veramente cosa stia succedendo in questo paese, qualcuno comincia a metterlo in dubbio. Ma tutti sanno, e non mettono in dubbio, che uno dei suoi migliori e più coraggiosi ambasciatori sta passando tra di loro. E gli hanno stretto tutti la mano.

* missionario carmelitano scalzo a Bangui, Repubblica Centrafricana