Ron: «La mia musica, tra silenzio e pace»
Il legame con l’amico Mario Melazzini e quello con padre
Silvano Fausti, la canzone che «mi ha salvato» e il giudizio sulla musica di
oggi. Il cantautore vincitore di Sanremo ’96, che quest’anno suonerà e
dialogherà con il pubblico del Meeting di Rimini, si racconta
10.07.2025
Massimo Granieri
Sacerdote e insegnante, critico musicale dell’Osservatore
Romano, conduce un programma di musica contemporanea su Radio Vaticana
Avevo quattordici anni quando alla radio intercettai Joe
Temerario di Ron, singolo inedito incluso in una raccolta di successi.
Acquistai quel vinile e lo conservo ancora come una reliquia: memoria di un
imprevisto che allargò gli orizzonti musicali e non solo. Una canzone che
trattava di un dialogo tenero tra padre e figlio e che rivelava a un
adolescente irrequieto un modo costumato di vivere i rapporti familiari. Le
canzoni di Ron aprono finestre sul mondo. È per questo motivo che ho voluto
invitarlo al prossimo Meeting di Rimini per un miniconcerto intervallato da un
dialogo sui brani. Al telefono, mi ha comunicato a sorpresa la volontà di
ampliare la scaletta: «Dai, cantiamo! È quello che mi piace di più, suonare e
cantare». È patrimonio della storia culturale del nostro Paese e messaggero di
una fede illuminata dalla grazia, caratteristica spesso ignorata dall’industria
discografica e derisa dalla critica musicale. Ron parla della musica come di
uno spazio di silenzio e pace, un baluardo contro il frastuono del mondo:
«Viviamo in un mondo malato e chiassoso. Io cerco nuove sonorità, specie ora
che sto riarrangiando molti brani con l’aiuto di un grande pianista e della mia
band. Tutto nasce dal silenzio, dal bisogno di tenermi lontano dal rumore». È
la pace, dunque, la condizione indispensabile per ricrearsi. Lo canta in una
canzone: «Solo nel silenzio non si è soli mai / Porta fino in fondo là dove c’è
Dio / Dove sei te stesso.» (Nel silenzio, dall’album “Adesso” pubblicato nel
1999).
La sua musica è intrecciata alla fragilità della vita. Lo
dimostra il legame con Mario Melazzini, medico e già presidente
dell‘Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla). Quando a
Melazzini fu diagnosticata la sla, la loro amicizia si fece più intensa,
segnata da un’autentica condivisione del dolore. Mise a disposizione la sua
musica per sostenere l’associazione e consolare. Nel 2016 nacque La forza di
dire sì, un album di ventiquattro duetti con artisti italiani – tra cui De
Gregori, Jovanotti, Pino Daniele, Lucio Dalla – per raccogliere fondi e ridare
slancio alla ricerca. Non un gesto di beneficenza di facciata, ma la fioritura
di un’amicizia compassionevole.
Ron parla di Melazzini: «Mario è stato – e lo è ancora – un
vero maestro. È una persona che non abbandona mai nessuno. Mi ammalai anch’io.
Impedito nel fare il mio lavoro, mi resi conto di quanto stavo perdendo. Poi
sono ripartito grazie alla sua vicinanza. In lui ho visto la speranza. Ancora
oggi combatte battaglie importanti, torna a casa arrabbiato, indignato, ma con
un carico di attese, fiducioso». Un altro incontro decisivo fu quello con padre
Silvano Fausti, in un periodo di smarrimento: «Avevo incontrato persone molto
lontane da quello che predicavano. Ne ho sofferto tanto. Proprio in quel dolore
mi sono aggrappato a padre Silvano. Ero deluso, non avevo più voglia di
cantare». Gli ha insegnato la leggerezza, dando spessore spirituale alla sua
ricerca di senso: «Ricordo che quando gli dicevo: “Sai, faccio fatica a
pregare”, padre Silvano rispondeva: “Va bene, non preoccuparti, pregherà Lui
per te”. Era una risposta che mi disarmava e insieme mi sollevava».
Gli chiedo se qualcuno gli abbia mai detto “Sai, quella tua
canzone mi ha salvato” e a lui quale canzone lo ha salvato: «Sì, in tanti me lo
dicono. E c’è stata una canzone che mi ha aiutato davvero. Non l’ho scritta io
ma l’ho cantata e continuerò a suonarla senza stancarmi: si chiama The Road.
Penso che l’adattamento di Lucio Dalla, Una città per cantare, sia riuscito ad
arrivare ancora più in profondità del brano originale» (The Road è del 1972, di
Danny O'Keefe, resa celebre da Jackson Browne, ndr). «Quella canzone mi ha dato
una forza enorme. Io sono quella storia. Ricordo che da ragazzino, a tredici
anni, camminavo in campagna tra girasoli altissimi che sembravano guardarmi
davvero. Mi misi a cantare per loro come se fossero spettatori del mio primo concerto.
Da allora quel desiderio non mi ha mai lasciato. Fare dischi è faticoso, ma
andare in concerto è come respirare aria nuova, come avere ogni volta una
speranza diversa, anche se canto le mie vecchie canzoni».
Il palco è per lui una soglia: «Cantare e suonare in teatro
è una delle cose più belle del mondo. Si respira un’aria speciale, quasi
d’altri tempi. Mi emoziona pensare alla storia di quei luoghi. Mi piace il
silenzio, il rispetto che bisogna riconoscergli. Mi intristisco invece quando
devo cantare in posti inadatti. Ma alla fine è il pubblico che fa la
differenza: senza quel contatto non potrei fare questo mestiere». Gli rammento
la sua primissima esibizione a Sanremo con Nada: «Me lo ricordo benissimo! Era
il mio sogno. Salire su quel palco fu come trasformarmi in un leone. Ho passato
i giorni più belli della mia vita, circondato dai miei idoli». Al Festival,
anni più tardi, lasciò un segno vincendolo con Tosca: «Vorrei incontrarti tra
cent’anni è una canzone diversa. Non ero sicuro che fosse “da Sanremo”. Penso
che senza Tosca il Festival non l’avremmo vinto. Ma lavorare con lei fu
fantastico. È una grande artista».
(…)
Ron: «La mia musica, tra silenzio e pace»
Il legame con l’amico Mario Melazzini e quello con padre
Silvano Fausti, la canzone che «mi ha salvato» e il giudizio sulla musica di
oggi. Il cantautore vincitore di Sanremo ’96, che quest’anno suonerà e
dialogherà con il pubblico del Meeting di Rimini, si racconta
10.07.2025
Massimo Granieri
Sacerdote e insegnante, critico musicale dell’Osservatore
Romano, conduce un programma di musica contemporanea su Radio Vaticana
Ron (©Luciano Pascali)
Ron (©Luciano Pascali)
Avevo quattordici anni quando alla radio intercettai Joe
Temerario di Ron, singolo inedito incluso in una raccolta di successi.
Acquistai quel vinile e lo conservo ancora come una reliquia: memoria di un
imprevisto che allargò gli orizzonti musicali e non solo. Una canzone che
trattava di un dialogo tenero tra padre e figlio e che rivelava a un
adolescente irrequieto un modo costumato di vivere i rapporti familiari. Le
canzoni di Ron aprono finestre sul mondo. È per questo motivo che ho voluto
invitarlo al prossimo Meeting di Rimini per un miniconcerto intervallato da un
dialogo sui brani. Al telefono, mi ha comunicato a sorpresa la volontà di
ampliare la scaletta: «Dai, cantiamo! È quello che mi piace di più, suonare e
cantare». È patrimonio della storia culturale del nostro Paese e messaggero di
una fede illuminata dalla grazia, caratteristica spesso ignorata dall’industria
discografica e derisa dalla critica musicale. Ron parla della musica come di
uno spazio di silenzio e pace, un baluardo contro il frastuono del mondo:
«Viviamo in un mondo malato e chiassoso. Io cerco nuove sonorità, specie ora
che sto riarrangiando molti brani con l’aiuto di un grande pianista e della mia
band. Tutto nasce dal silenzio, dal bisogno di tenermi lontano dal rumore». È
la pace, dunque, la condizione indispensabile per ricrearsi. Lo canta in una
canzone: «Solo nel silenzio non si è soli mai / Porta fino in fondo là dove c’è
Dio / Dove sei te stesso.» (Nel silenzio, dall’album “Adesso” pubblicato nel
1999).
La sua musica è intrecciata alla fragilità della vita. Lo
dimostra il legame con Mario Melazzini, medico e già presidente
dell‘Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla). Quando a
Melazzini fu diagnosticata la sla, la loro amicizia si fece più intensa,
segnata da un’autentica condivisione del dolore. Mise a disposizione la sua
musica per sostenere l’associazione e consolare. Nel 2016 nacque La forza di
dire sì, un album di ventiquattro duetti con artisti italiani – tra cui De
Gregori, Jovanotti, Pino Daniele, Lucio Dalla – per raccogliere fondi e ridare
slancio alla ricerca. Non un gesto di beneficenza di facciata, ma la fioritura
di un’amicizia compassionevole.
Ron parla di Melazzini: «Mario è stato – e lo è ancora – un
vero maestro. È una persona che non abbandona mai nessuno. Mi ammalai anch’io.
Impedito nel fare il mio lavoro, mi resi conto di quanto stavo perdendo. Poi
sono ripartito grazie alla sua vicinanza. In lui ho visto la speranza. Ancora
oggi combatte battaglie importanti, torna a casa arrabbiato, indignato, ma con
un carico di attese, fiducioso». Un altro incontro decisivo fu quello con padre
Silvano Fausti, in un periodo di smarrimento: «Avevo incontrato persone molto
lontane da quello che predicavano. Ne ho sofferto tanto. Proprio in quel dolore
mi sono aggrappato a padre Silvano. Ero deluso, non avevo più voglia di
cantare». Gli ha insegnato la leggerezza, dando spessore spirituale alla sua
ricerca di senso: «Ricordo che quando gli dicevo: “Sai, faccio fatica a
pregare”, padre Silvano rispondeva: “Va bene, non preoccuparti, pregherà Lui
per te”. Era una risposta che mi disarmava e insieme mi sollevava».
Gli chiedo se qualcuno gli abbia mai detto “Sai, quella tua
canzone mi ha salvato” e a lui quale canzone lo ha salvato: «Sì, in tanti me lo
dicono. E c’è stata una canzone che mi ha aiutato davvero. Non l’ho scritta io
ma l’ho cantata e continuerò a suonarla senza stancarmi: si chiama The Road.
Penso che l’adattamento di Lucio Dalla, Una città per cantare, sia riuscito ad
arrivare ancora più in profondità del brano originale» (The Road è del 1972, di
Danny O'Keefe, resa celebre da Jackson Browne, ndr). «Quella canzone mi ha dato
una forza enorme. Io sono quella storia. Ricordo che da ragazzino, a tredici
anni, camminavo in campagna tra girasoli altissimi che sembravano guardarmi
davvero. Mi misi a cantare per loro come se fossero spettatori del mio primo concerto.
Da allora quel desiderio non mi ha mai lasciato. Fare dischi è faticoso, ma
andare in concerto è come respirare aria nuova, come avere ogni volta una
speranza diversa, anche se canto le mie vecchie canzoni».
Il palco è per lui una soglia: «Cantare e suonare in teatro
è una delle cose più belle del mondo. Si respira un’aria speciale, quasi
d’altri tempi. Mi emoziona pensare alla storia di quei luoghi. Mi piace il
silenzio, il rispetto che bisogna riconoscergli. Mi intristisco invece quando
devo cantare in posti inadatti. Ma alla fine è il pubblico che fa la
differenza: senza quel contatto non potrei fare questo mestiere». Gli rammento
la sua primissima esibizione a Sanremo con Nada: «Me lo ricordo benissimo! Era
il mio sogno. Salire su quel palco fu come trasformarmi in un leone. Ho passato
i giorni più belli della mia vita, circondato dai miei idoli». Al Festival,
anni più tardi, lasciò un segno vincendolo con Tosca: «Vorrei incontrarti tra
cent’anni è una canzone diversa. Non ero sicuro che fosse “da Sanremo”. Penso
che senza Tosca il Festival non l’avremmo vinto. Ma lavorare con lei fu
fantastico. È una grande artista».
(…)
https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/intervista-ron-ospite-meeting-rimini-2025#:~:text=Inevitabile%20un%20giudizio%20sulla%20musica%20italiana%20di%20oggi%3A%20%C2%ABHo%20sempre%20avuto%20curiosit%C3%A0%20verso%20i%20giovani.%20La%20musica%20cerca%20sempre%20nuove%20strade.%20A%20volte%20manca%20un%20po%E2%80%99%20di%20sostanza%20nei%20testi%2C%20ma%20%C3%A8%20normale%20perch%C3%A9%20gli%20autori%20sono%20giovani.%20Non%20voglio