venerdì 11 luglio 2025

Ron: «La mia musica, tra silenzio e pace»


 

Ron: «La mia musica, tra silenzio e pace»

Il legame con l’amico Mario Melazzini e quello con padre Silvano Fausti, la canzone che «mi ha salvato» e il giudizio sulla musica di oggi. Il cantautore vincitore di Sanremo ’96, che quest’anno suonerà e dialogherà con il pubblico del Meeting di Rimini, si racconta

 

10.07.2025

Massimo Granieri

Sacerdote e insegnante, critico musicale dell’Osservatore Romano, conduce un programma di musica contemporanea su Radio Vaticana

Avevo quattordici anni quando alla radio intercettai Joe Temerario di Ron, singolo inedito incluso in una raccolta di successi. Acquistai quel vinile e lo conservo ancora come una reliquia: memoria di un imprevisto che allargò gli orizzonti musicali e non solo. Una canzone che trattava di un dialogo tenero tra padre e figlio e che rivelava a un adolescente irrequieto un modo costumato di vivere i rapporti familiari. Le canzoni di Ron aprono finestre sul mondo. È per questo motivo che ho voluto invitarlo al prossimo Meeting di Rimini per un miniconcerto intervallato da un dialogo sui brani. Al telefono, mi ha comunicato a sorpresa la volontà di ampliare la scaletta: «Dai, cantiamo! È quello che mi piace di più, suonare e cantare». È patrimonio della storia culturale del nostro Paese e messaggero di una fede illuminata dalla grazia, caratteristica spesso ignorata dall’industria discografica e derisa dalla critica musicale. Ron parla della musica come di uno spazio di silenzio e pace, un baluardo contro il frastuono del mondo: «Viviamo in un mondo malato e chiassoso. Io cerco nuove sonorità, specie ora che sto riarrangiando molti brani con l’aiuto di un grande pianista e della mia band. Tutto nasce dal silenzio, dal bisogno di tenermi lontano dal rumore». È la pace, dunque, la condizione indispensabile per ricrearsi. Lo canta in una canzone: «Solo nel silenzio non si è soli mai / Porta fino in fondo là dove c’è Dio / Dove sei te stesso.» (Nel silenzio, dall’album “Adesso” pubblicato nel 1999).

La sua musica è intrecciata alla fragilità della vita. Lo dimostra il legame con Mario Melazzini, medico e già presidente dell‘Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla). Quando a Melazzini fu diagnosticata la sla, la loro amicizia si fece più intensa, segnata da un’autentica condivisione del dolore. Mise a disposizione la sua musica per sostenere l’associazione e consolare. Nel 2016 nacque La forza di dire sì, un album di ventiquattro duetti con artisti italiani – tra cui De Gregori, Jovanotti, Pino Daniele, Lucio Dalla – per raccogliere fondi e ridare slancio alla ricerca. Non un gesto di beneficenza di facciata, ma la fioritura di un’amicizia compassionevole.

Ron parla di Melazzini: «Mario è stato – e lo è ancora – un vero maestro. È una persona che non abbandona mai nessuno. Mi ammalai anch’io. Impedito nel fare il mio lavoro, mi resi conto di quanto stavo perdendo. Poi sono ripartito grazie alla sua vicinanza. In lui ho visto la speranza. Ancora oggi combatte battaglie importanti, torna a casa arrabbiato, indignato, ma con un carico di attese, fiducioso». Un altro incontro decisivo fu quello con padre Silvano Fausti, in un periodo di smarrimento: «Avevo incontrato persone molto lontane da quello che predicavano. Ne ho sofferto tanto. Proprio in quel dolore mi sono aggrappato a padre Silvano. Ero deluso, non avevo più voglia di cantare». Gli ha insegnato la leggerezza, dando spessore spirituale alla sua ricerca di senso: «Ricordo che quando gli dicevo: “Sai, faccio fatica a pregare”, padre Silvano rispondeva: “Va bene, non preoccuparti, pregherà Lui per te”. Era una risposta che mi disarmava e insieme mi sollevava».

Gli chiedo se qualcuno gli abbia mai detto “Sai, quella tua canzone mi ha salvato” e a lui quale canzone lo ha salvato: «Sì, in tanti me lo dicono. E c’è stata una canzone che mi ha aiutato davvero. Non l’ho scritta io ma l’ho cantata e continuerò a suonarla senza stancarmi: si chiama The Road. Penso che l’adattamento di Lucio Dalla, Una città per cantare, sia riuscito ad arrivare ancora più in profondità del brano originale» (The Road è del 1972, di Danny O'Keefe, resa celebre da Jackson Browne, ndr). «Quella canzone mi ha dato una forza enorme. Io sono quella storia. Ricordo che da ragazzino, a tredici anni, camminavo in campagna tra girasoli altissimi che sembravano guardarmi davvero. Mi misi a cantare per loro come se fossero spettatori del mio primo concerto. Da allora quel desiderio non mi ha mai lasciato. Fare dischi è faticoso, ma andare in concerto è come respirare aria nuova, come avere ogni volta una speranza diversa, anche se canto le mie vecchie canzoni».

Il palco è per lui una soglia: «Cantare e suonare in teatro è una delle cose più belle del mondo. Si respira un’aria speciale, quasi d’altri tempi. Mi emoziona pensare alla storia di quei luoghi. Mi piace il silenzio, il rispetto che bisogna riconoscergli. Mi intristisco invece quando devo cantare in posti inadatti. Ma alla fine è il pubblico che fa la differenza: senza quel contatto non potrei fare questo mestiere». Gli rammento la sua primissima esibizione a Sanremo con Nada: «Me lo ricordo benissimo! Era il mio sogno. Salire su quel palco fu come trasformarmi in un leone. Ho passato i giorni più belli della mia vita, circondato dai miei idoli». Al Festival, anni più tardi, lasciò un segno vincendolo con Tosca: «Vorrei incontrarti tra cent’anni è una canzone diversa. Non ero sicuro che fosse “da Sanremo”. Penso che senza Tosca il Festival non l’avremmo vinto. Ma lavorare con lei fu fantastico. È una grande artista».

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Ron: «La mia musica, tra silenzio e pace»

Il legame con l’amico Mario Melazzini e quello con padre Silvano Fausti, la canzone che «mi ha salvato» e il giudizio sulla musica di oggi. Il cantautore vincitore di Sanremo ’96, che quest’anno suonerà e dialogherà con il pubblico del Meeting di Rimini, si racconta

 

10.07.2025

Massimo Granieri

Sacerdote e insegnante, critico musicale dell’Osservatore Romano, conduce un programma di musica contemporanea su Radio Vaticana

Ron (©Luciano Pascali)

Ron (©Luciano Pascali)

Avevo quattordici anni quando alla radio intercettai Joe Temerario di Ron, singolo inedito incluso in una raccolta di successi. Acquistai quel vinile e lo conservo ancora come una reliquia: memoria di un imprevisto che allargò gli orizzonti musicali e non solo. Una canzone che trattava di un dialogo tenero tra padre e figlio e che rivelava a un adolescente irrequieto un modo costumato di vivere i rapporti familiari. Le canzoni di Ron aprono finestre sul mondo. È per questo motivo che ho voluto invitarlo al prossimo Meeting di Rimini per un miniconcerto intervallato da un dialogo sui brani. Al telefono, mi ha comunicato a sorpresa la volontà di ampliare la scaletta: «Dai, cantiamo! È quello che mi piace di più, suonare e cantare». È patrimonio della storia culturale del nostro Paese e messaggero di una fede illuminata dalla grazia, caratteristica spesso ignorata dall’industria discografica e derisa dalla critica musicale. Ron parla della musica come di uno spazio di silenzio e pace, un baluardo contro il frastuono del mondo: «Viviamo in un mondo malato e chiassoso. Io cerco nuove sonorità, specie ora che sto riarrangiando molti brani con l’aiuto di un grande pianista e della mia band. Tutto nasce dal silenzio, dal bisogno di tenermi lontano dal rumore». È la pace, dunque, la condizione indispensabile per ricrearsi. Lo canta in una canzone: «Solo nel silenzio non si è soli mai / Porta fino in fondo là dove c’è Dio / Dove sei te stesso.» (Nel silenzio, dall’album “Adesso” pubblicato nel 1999).

 

La sua musica è intrecciata alla fragilità della vita. Lo dimostra il legame con Mario Melazzini, medico e già presidente dell‘Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla). Quando a Melazzini fu diagnosticata la sla, la loro amicizia si fece più intensa, segnata da un’autentica condivisione del dolore. Mise a disposizione la sua musica per sostenere l’associazione e consolare. Nel 2016 nacque La forza di dire sì, un album di ventiquattro duetti con artisti italiani – tra cui De Gregori, Jovanotti, Pino Daniele, Lucio Dalla – per raccogliere fondi e ridare slancio alla ricerca. Non un gesto di beneficenza di facciata, ma la fioritura di un’amicizia compassionevole.

 

Ron parla di Melazzini: «Mario è stato – e lo è ancora – un vero maestro. È una persona che non abbandona mai nessuno. Mi ammalai anch’io. Impedito nel fare il mio lavoro, mi resi conto di quanto stavo perdendo. Poi sono ripartito grazie alla sua vicinanza. In lui ho visto la speranza. Ancora oggi combatte battaglie importanti, torna a casa arrabbiato, indignato, ma con un carico di attese, fiducioso». Un altro incontro decisivo fu quello con padre Silvano Fausti, in un periodo di smarrimento: «Avevo incontrato persone molto lontane da quello che predicavano. Ne ho sofferto tanto. Proprio in quel dolore mi sono aggrappato a padre Silvano. Ero deluso, non avevo più voglia di cantare». Gli ha insegnato la leggerezza, dando spessore spirituale alla sua ricerca di senso: «Ricordo che quando gli dicevo: “Sai, faccio fatica a pregare”, padre Silvano rispondeva: “Va bene, non preoccuparti, pregherà Lui per te”. Era una risposta che mi disarmava e insieme mi sollevava».

 

Gli chiedo se qualcuno gli abbia mai detto “Sai, quella tua canzone mi ha salvato” e a lui quale canzone lo ha salvato: «Sì, in tanti me lo dicono. E c’è stata una canzone che mi ha aiutato davvero. Non l’ho scritta io ma l’ho cantata e continuerò a suonarla senza stancarmi: si chiama The Road. Penso che l’adattamento di Lucio Dalla, Una città per cantare, sia riuscito ad arrivare ancora più in profondità del brano originale» (The Road è del 1972, di Danny O'Keefe, resa celebre da Jackson Browne, ndr). «Quella canzone mi ha dato una forza enorme. Io sono quella storia. Ricordo che da ragazzino, a tredici anni, camminavo in campagna tra girasoli altissimi che sembravano guardarmi davvero. Mi misi a cantare per loro come se fossero spettatori del mio primo concerto. Da allora quel desiderio non mi ha mai lasciato. Fare dischi è faticoso, ma andare in concerto è come respirare aria nuova, come avere ogni volta una speranza diversa, anche se canto le mie vecchie canzoni».

 

Il palco è per lui una soglia: «Cantare e suonare in teatro è una delle cose più belle del mondo. Si respira un’aria speciale, quasi d’altri tempi. Mi emoziona pensare alla storia di quei luoghi. Mi piace il silenzio, il rispetto che bisogna riconoscergli. Mi intristisco invece quando devo cantare in posti inadatti. Ma alla fine è il pubblico che fa la differenza: senza quel contatto non potrei fare questo mestiere». Gli rammento la sua primissima esibizione a Sanremo con Nada: «Me lo ricordo benissimo! Era il mio sogno. Salire su quel palco fu come trasformarmi in un leone. Ho passato i giorni più belli della mia vita, circondato dai miei idoli». Al Festival, anni più tardi, lasciò un segno vincendolo con Tosca: «Vorrei incontrarti tra cent’anni è una canzone diversa. Non ero sicuro che fosse “da Sanremo”. Penso che senza Tosca il Festival non l’avremmo vinto. Ma lavorare con lei fu fantastico. È una grande artista».

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https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/intervista-ron-ospite-meeting-rimini-2025#:~:text=Inevitabile%20un%20giudizio%20sulla%20musica%20italiana%20di%20oggi%3A%20%C2%ABHo%20sempre%20avuto%20curiosit%C3%A0%20verso%20i%20giovani.%20La%20musica%20cerca%20sempre%20nuove%20strade.%20A%20volte%20manca%20un%20po%E2%80%99%20di%20sostanza%20nei%20testi%2C%20ma%20%C3%A8%20normale%20perch%C3%A9%20gli%20autori%20sono%20giovani.%20Non%20voglio