La Chiesa del silenzio una pagina da riaprire
SAGGISTICA
La storia dei cristiani sotto i regimi comunisti è un capitolo centrale
ma dimenticato del ’900. Un volume ricostruisce le mosse della
diplomazia pontificia contro la violenta repressione
In chi è meno giovane
l’espressione “Chiesa del silenzio” evoca una stagione di sofferenze e
divisioni implacabili. Nei più giovani, purtroppo, è probabile che non
evochi nulla. Segnaliamo perciò questo volume in edizione bilingue,
italiano e slovacco, pubblicato dal Pontificio Comitato di Scienze
Storiche e dalla Facoltà di diritto canonico San Pio X di Venezia, in
collaborazione con la diocesi di Spis, in Slovacchia: Chiesa del silenzio e diplomazia pontificia 1945-1965/Umlcaná Cirkev a pápežská diplomacia 1945-1965, a cura di Emilia Hrabovec, Giuliano Brugnotto e Peter Jurcaga (Libreria Editrice Vaticana, pagine 450, euro 25,00).
La stagione del dialogo e dell’Ostpolitik verso i regimi comunisti,
coincisa con il periodo postconciliare, ha dovuto stendere molti veli
sulla spietata repressione che negli anni successivi alla Seconda
guerra mondiale il cattolicesimo aveva subito nei paesi sovietizzati
dell’Est europeo. Ma ora che il comunismo in quei paesi e in Russia non
c’è più, non ci sono ragioni per tacere su quanto avvenne: le
incarcerazioni, le torture, i processi, la selvaggia repressione che
mirava a distruggere le Chiese cristiane e soprattutto la Chiesa
cattolica. Questa, infatti, disponeva di un potere e di un audience che
le altre Chiese non avevano, potendo fare riferimento al Vaticano, la
“centrale internazionale della reazione”, come martellava di continuo la
propaganda comunista di allora in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria,
Romania, i quattro paesi presi in considerazione nel libro. Qui la
Chiesa cattolica godeva di un profondo radicamento, o nella sua versione
latina o in quella di rito greco- cattolico. Facevano parzialmente
eccezione solo la Boemia e la Moravia, allora facenti parte della
Cecoslovacchia, dove pesava la tradizione antiromana risalente al
movimento hussita.
La guerra al cattolicesimo divenne perciò implacabile da parte di
regimi comunisti che miravano al controllo totale dello Stato e delle
coscienze. In più il cattolicesimo era una realtà universale, guidata
da un governo autonomo e indipendente – la Santa Sede – che operava
fuori dai paesi a guida comunista, un governo rappresentato in
ciascuna capitale dalle nunziature, canale di collegamento fra i due
mondi contrapposti attraverso il quale passavano denaro, informazioni,
stampati. La chiusura delle nunziature e l’espulsione dei nunzi fu
perciò un provvedimento adottato in tutti questi paesi, non appena vi
presero il potere i comunisti, cui fecero seguito misure legali o
poliziesche che estinsero seminari, case religiose, parrocchie,
scuole. L’obiettivo era zittire il cattolicesimo, ridurlo al silenzio,
spegnerlo fuori e, se possibile, anche dentro il cuore della
popolazione. Parallelamente, erano create associazioni nazionali
allineate al regime nelle quali veniva intruppata quella parte del
clero e del laicato che, per paura o convenienza, era disponibile a
collaborare. I dati riferiti del libro ci dicono, con particolare
riferimento alla Polonia e alla Cecoslovacchia, che solo piccole
minoranze aderirono a queste associazioni.
Ma l’ostacolo maggiore erano i vescovi, alcuni noti anche all’estero.
Molti di essi furono incarcerati, sottoposti a vessazioni di ogni tipo,
processati in pubblico. Le accuse erano tutte politiche: spionaggio,
traffico di valuta estera, tradimento dello Stato, collaborazionismo. Il
più tristemente celebre di tali processi, talmente pretestuosi da
essere bollati con l’espressione di processi-farsa, è quello intentato
in Ungheria contro il primate il cardinale József Mindszenty, che si
concluse nel 1949 con la condanna all’ergastolo. Ma in queste pagine
si ricordano altre figure, non meno eroiche, benché meno conosciute,
come lo slovacco Ján Vojtassák, che all’età di 74 anni fu condannato a
24 anni di detenzione, subendo brutali naltrattamenti. Sconterà 11 anni,
fino alla liberazione, ottenuta nel 1963 grazie alle pressioni della
Santa Sede. Quando uscì dal carcere, aveva 85 anni. Ne visse altri due,
prima di spe- gnersi a Praga, dove era stato comunque internato.
Ancora più selvaggia fu la repressione in Romania a danno della chiesa
greco-cattolica, forzatamente accorpata nel 1948 alla chiesa ortodossa
locale, come era già accaduto due anni prima in Ucraina, il cui
metropolita, il vescovo Josyp Slipyj, poi cardinale, di cui sono appena
uscite in italiano le Memorie,
sconterà 18 anni di gulag in Siberia. I sette vescovi greco-cattolici
romeni morirono tutti in carcere, alcuni a causa di torture fisiche che
ricordano le più feroci persecuzioni dell’Impero romano. Davvero una
pagina degradante per chi la provocò, che resta scolpita nella galleria
degli orrori del secolo appena trascorso.
Dopo la fine del comunismo gran parte di questi processi sono stati
annullati, con piena riabilitazione anche sul piano civile dei
condannati. Ma le sofferenze fisiche e morali inflitte a persone
inermi, molte oggi in via di canonizzazione, rimangono e ci obbligano ad
aggiornare il concetto di martirio. E
tuttavia è necessario precisare che questo libro – dovuto al lavoro di
storici conosciuti come Emilia Hrabovec, Roberto Scagno, Miroslaw
Lenart, András Fejérdy, Somorjai Ádám – non concede nulla
all’agiografia. Della figura di Mindszenty non si tacciono i legami
psicologici e culturali con la vecchia Chiesa di Stato austro-ungarica,
cioè con un mondo ormai tramontato, che non diminuiscono il valore
della sua testimonianza morale (fu quasi il simbolo della Chiesa
martire di quegli anni), ma ne riducono inevitabilmente l’importanza
storica.
Come reagì la
Chiesa a queste persecuzioni? L’azzeramento della gerarchia
ecclesiastica portò alla decisione di dar vita a una Chiesa
clandestina, in grado di operare quando fossero stati impediti i
vescovi ufficiali. Dove e fino a che punto sia arrivato questo
esperimento (certamente avviato in Ungheria e in Slovacchia,
probabilmente anche in Romania) rimane nel dubbio, dato che la
clandestinità e la necessità di eludere ogni
controllo di polizia, imponeva di tenere tutto segreto, di affidarsi
solo all’oralità, senza lasciare nulla di scritto. È sicuro che da Roma
furono concessi ai vescovi poteri straordinari ed è probabile che,
grazie a tali facoltà, sacerdoti e anche qualche vescovo
(probabilmente due in Ungheria) siano stati consacrati nell’anonimato
più assoluto. Forse i documenti vaticani al riguardo, al momento
inaccessibili, potranno dare qualche indicazione più precisa. L’unico
paese in cui la repressione dovette venire a patti con una Chiesa che
si rivelò un ostacolo indigeribile anche per il carro armato comunista
fu la Polonia, grazie soprattutto alla fermezza, non disgiunta da
duttilità, del primate Stefan Wyszynski.
E tuttavia, nonostante la brutalità della repressione, fino al 1947-48 a
Roma si sperò di poter stabilire un qualche modus vivendi con i regimi
comunisti. Johan Ickx, sulla base di documenti vaticani, rivela che Pio
XII autorizzò alcuni gesuiti ungheresi a contattare esponenti
comunisti, anche sovietici, per cercare un’intesa. Il tentativo non
riuscì e dal 1948 fu rottura totale. È allora che si inizia a parlare e
a scrivere di Chiesa del silenzio. Silenzio anche perché a Roma
giungevano notizie frammentarie e imprecise, spesso tramite il canale
delle ambasciate o di diplomatici di paesi terzi, che costringevano a
muoversi quasi alla cieca e rendevano difficile trovare una linea di
condotta condivisa. La politica adottata in Polonia da Wyszynski, che
dopo aver subito internamenti e arresti stabilì un’intesa col regime, a
Roma non trovò tutti consenzienti. «Loro pensano secondo gli schemi –
scrive il primate – e non riescono a capire la complessità della realtà
sociale della Polonia». Sembra che solo in Pio XII abbia trovato
comprensione e approvazione.
A lettura ultimata di questo libro si resta con il desiderio di saperne
di più, di andare avanti, di spalancare una porta che comincia
finalmente ad aprirsi. Sulla Chiesa del silenzio bisogna rompere ormai
il silenzio, a costo di urtare sensibilità e interessi che ancora
pesano nel dibattito pubblico, anche ecclesiale, perché rappresenta
una pagina fondamentale della vicenda postbellica. Una pagina che
appartiene alla grande storia del Novecento (non dimentichiamo che il
comunismo tentò, quasi riuscendoci, di assassinare un papa) e non solo
alla storia della Chiesa.
© RIPRODUZIONE RISERVATA


Il cardinale Jozsef Mindszenty, primate d’Ungheria, uscito dal carcere comunista