mercoledì 2 luglio 2025

Accolti e accompagnati

 



Accolti e accompagnati

Da più di trent’anni Famiglie in cammino offre un’ipotesi di speranza a genitori feriti dalla perdita prematura di un figlio. Don Giancarlo Greco ripercorre gli inizi e l’origine di un metodo

 

Nel marzo del 1991 a Rimini alcuni genitori, segnati dalla perdita prematura dei figli, si incontrano casualmente durante gli Esercizi spirituali della Fraternità di Comunione e Liberazione. Dialogano, si raccontano le difficoltà di convivere con un dolore così grande. Soprattutto esprimono il desiderio di aiutarsi. Racconta don Giancarlo Greco: «In quei giorni incontrai a colazione in albergo Giorgio Targa, Giorgio Macchi e Marcello Crolla. Da poco tempo avevano perso drammaticamente i loro figli. Iniziammo un dialogo che continuò nei mesi successivi. Cominciammo a ritrovarci a Busto Arsizio, dove ero parroco. Ricordo i primi incontri: erano sfogo, rabbia, pianti. Poi pian piano si chiarì lo scopo del nostro ritrovarci e stare insieme: vivere il dolore alla luce dell’esperienza cristiana. Quindi partendo da un’ipotesi positiva: la speranza di chi non si rassegna alla perdita».

Ne nasce una piccola fraternità, benedetta anche da don Giussani l’anno successivo. Scriverà infatti il sacerdote brianzolo il 17 febbraio del 1992, in una lettera autografa a loro indirizzata: «Io mi sento piccolo di fronte al cuore grande con cui voi, accettando da Dio una ferita che non si rimargina se non in Cielo, volete farne per la terra un solco di seminagione buona, da testimoniare e per confortare. Dio vi benedica, attraverso le trame misteriose del Suo Volere». Ancora: «Ritengo, il vostro, il modo più profondo e rasserenante per risentire la presenza delle persone carissime che sono già penetrate nel Mistero di Cristo che è eterna felicità».

Famiglie in cammino prende così forma. Nel corso degli anni, il gruppo si struttura in modo spontaneo, diventando riferimento per centinaia di famiglie in Italia. Oggi sono circa 150 i nuclei familiari coinvolti, che si ritrovano regolarmente per momenti di preghiera, dialogo, convivenze, scambi di esperienze. Gli incontri, mensili o periodici a seconda delle città, sono accompagnati da sacerdoti e amici del movimento di Comunione e Liberazione, ma aperti a chiunque si senta interpellato da un dolore così acuto.

«Quello che divenne poi un metodo», racconta ancora don Giancarlo, «fu iniziare a giudicare e a condividere il dolore nell’ottica della speranza cristiana. Non fu difficile accorgersi, nel tempo, che nel nostro ritrovarci non c’era solo il dolore da mettere a tema, bensì la totalità della vita». Le testimonianze sono tante. Come quella di Marisa e Marcello, genitori di Mirko, morto a 15 anni. Le loro parole sono diventate quasi una sorta di manifesto per tutti loro. «Noi abbiamo il dovere e il diritto di continuare ad avere speranza. Chiuderci in un cuore arrugginito sarebbe come far morire di nuovo i nostri figli. Invece è più umano e più saggio aprire il nostro cuore e chiedere aiuto al Signore perché possiamo, giorno dopo giorno, continuare a guardare alla nostra realtà. La vita deve continuare ad avere un senso, nutrito dalla speranza».

Quando Stefano – dopo la morte improvvisa del figlio adolescente – si chiude in sé stesso, un collega di lavoro gli parla di questo «gruppo di amici che vive una cosa simile. Perché non provi a incontrarli?». Lui non ne vuole sapere. Il dolore è una cosa privata, da gestire da soli. Figurarsi poi se di mezzo c’è la Chiesa, il luogo più lontano da lui. Ma le settimane passano, il vuoto resta. E una domanda inizia a farsi spazio. «Se loro avessero trovato davvero il modo di sopravvivere a questa atrocità?». Così decide di conoscerli. Una cena semplice, ma è l’inizio di un cammino nuovo. «La condivisione è fondamentale, perché partiamo tutti da un dolore talmente straziante da sembrare unico e inconsolabile. Ma poi il tempo passa e il desiderio, tutto umano, è quello di una quotidianità che non sia disperata. Io ho incontrato dentro Famiglie in cammino una compagnia di amici che sa di cosa parlo quando dico che mio figlio mi manca; una compagnia che ha raccolto i cocci della mia umanità e mi ha insegnato a riconoscere che mio figlio non era una cosa mia, creata da me, ma un dono».

 

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Don Giancarlo Greco ne è convinto: «Cosa c’è più grande di un figlio? Il sentimento lo vorrebbe sempre con sé, dimenticando però che il figlio non è una proprietà. La ragione, illuminata dalla fede, ci dice che non siamo i creatori della vita; siamo depositari di doni e di compiti. E quando qualcosa ci è tolto dobbiamo farne memoria. Questi anni di accompagnamento a Famiglie in cammino sono stati per me una grazia, quella di vedere il dolore non più vissuto come castigo o punizione, ma come possibilità di trasfigurazione in bene». Quando dice così, pensa a tanti esempi concreti. Come la famiglia di Francesca, mancata a 12 anni per un grave incidente d’auto. I genitori, distrutti, incrociano casualmente Famiglie in cammino e ne nasce un percorso di fede che li ha portati ad aprirsi all’adozione di altri due figli.

Agli inizi di questa storia ci sono state alcune famiglie toccate da eventi particolarmente difficili, come i genitori di Lidia Macchi (uccisa il 5 gennaio del 1987), le famiglie Targa, Colombo, Varrà e anche Pietro Molla, marito di Santa Gianna Beretta Molla e padre di Mariolina, morta a sei anni. Scrisse Pietro in una lettera: «Sono parte anche io di Famiglie in cammino. A tutti voi carissimi il mio affettuosissimo augurio di vivere la certezza che i nostri figli in Paradiso ci accompagnano sempre con il loro amore, la loro protezione e ci chiedono di essere sereni e sicuri che li incontreremo ancora visibilmente e per sempre».

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Anche Serena e il marito Teodoro sono in ricerca. Conoscevano già Famiglie in cammino, ma la loro adesione è diventata totale con la morte del figlio Misael. In questi anni, hanno trasformato il loro dolore in arte e poesia, e in testimonianza viva per altri genitori. «Ecco, in cammino. Non è certo facile pensare di andare avanti dopo la morte di un figlio. Misa è mancato nel 2016 per un glioblastoma, dopo tante sofferenze. Come si fa ad accettare e capire le ragioni di certe malattie, degli incidenti, del suicidio o addirittura di insensati omicidi? Accettare la croce, come l’ha accettata Gesù, non è un fatto semplice. Le domande sono aperte ma ora abbiamo una strada, tanti amici che sono con noi». Quando questi genitori si riuniscono, recitano insieme: “Adesso ci sei vicino in modo diverso da prima ma infinitamente più di prima. E ci guardi con la stessa pietà e con lo stesso sguardo di Colui in cui sei”. Chiosa Serena: «Vogliamo che tutti i genitori colpiti da questa sofferenza possano vivere questa certezza. Vogliamo che sappiano che esiste un luogo dove questo dolore si può consegnare, può essere accolto e accompagnato». Ecco perché Famiglie in cammino è ancora una realtà viva, dopo oltre trent’anni. Per la fedeltà a una storia, cristiana, che ha saputo trasformare il dolore nella più alta forma di carità.

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/famiglie-in-cammino-don-giancarlo-greco#:~:text=CHIESA,forma%20di%20carit%C3%A0.


martedì 1 luglio 2025

Eredità. Gli ultimi mesi di vita di Antonio Rosmini tra fede, filosofia e memoria

 


Eredità. Gli ultimi mesi di vita di Antonio Rosmini tra fede, filosofia e memoria

Ludovico Maria Gadaleta martedì 1 luglio 2025

 

Tra gli amici che arrivano a Stresa per l’ultimo incontro, si ritrovano alcune tra le voci più alte dell’Italia culturale dell’Ottocento, da Manzoni a Tommaseo e Bonghi

   

«È già il quarto mese che sono ammalato d’incomodi intestinali e passo la mia vita oziando tra il letto ed il lettuccio», lamenta Antonio Rosmini in una lettera all’amico Gustavo Cavour nell’aprile 1855.

 

Dall’ottobre precedente si trova nuovamente a Stresa, ristabilito dal grave malessere che lo ha colpito dopo la famigerata cena a Rovereto, in cui ha scoperto di essere stato avvelenato. Gli antichi problemi di stomaco e di fegato, troppo trascurati, si sono riacutizzati. E se fino all’inizio del 1855 la salute gli ha consentito di rispondere alle lettere, governare l’Istituto e persino proseguire la stesura della Teosofia, adesso deve sospendere e mettersi a letto. Brevi e occasionali miglioramenti lo illudono che si tratti di una recrudescenza momentanea, ma a maggio la diagnosi è chiara: «I medici non danno alcuna speranza», comunica laconico il segretario don Francesco Paoli.

 

La notizia si diffonde rapidissima e comincia un profluvio di lettere. Tutti vogliono notizie, promettono preghiere e suggeriscono rimedi medici e spirituali. Poi iniziano ad arrivare a Stresa gli amici per l’ultimo incontro. Fra i primi c’è don Paolo Orsi, antico amico di famiglia, che da Rovereto giunge per restare fino all’ultimo con lui. Da Torino ecco Pier Alessandro Paravia, altro compagno di gioventù, adesso affermato docente universitario. Con lui è il giovane Ruggero Bonghi, destinato a promettente carriera politica, in passato ospite più volte della comunità religiosa di Stresa: ha trascritto per i posteri le Stresiane, i preziosi dialoghi di cui era stato testimone, fra don Antonio e Alessandro Manzoni.

 

Anche quest’ultimo piomba di corsa a Stresa, in compagnia del figlio Stefano e di don Alessandro Pestalozza, energico difensore della filosofia rosminiana nel seminario di Milano e maestro, tra gli altri, di Antonio Stoppani. Pestalozza singhiozza di nascosto, mentre vede i due amici abbracciarsi. «Rosmini è sempre Rosmini!», dice don Lisander. «E Manzoni è sempre Manzoni, e lo sarà anche dopo la mia morte», risponde l’infermo. «Speriamo che Dio la voglia ancora conservare tra noi, e darle tempo da condurre a termine tante belle opere, che ha incominciato!», lo incalza lo scrittore. «No, no; le opere che Dio ha incominciato, sarà Lui a compierle con i mezzi che sono nelle sue mani, che sono moltissimi e che noi non conosciamo!» ribatte il filosofo. Arriva anche il Tommaseo, ormai cieco. Prega con fervore il rosario a fianco di Manzoni. «Cerca di essere fedele a Dio e di avere sempre presente il grande affare dell’anima. Se salverai la tua anima, avrai salvato tutto», gli raccomanda Rosmini.

 

Gli ultimi pensieri di don Antonio sono per l’Istituto della Carità, la congregazione da lui stabilita nel 1828. Chiede carta, pennino e calamaio e di suo pugno verga un foglio con cui nomina il vicario che dovrà governare dopo la sua morte in attesa di eleggere un successore. «Che il precetto del Signore», ossia la carità di Dio e del prossimo, «risplenda sulla terra di quella gloria di cui risplende in cielo», comincia il testo. Dopo un centinaio di opere, è l’ultimo suo scritto autografo.

 

Quando riceve il Viatico, mezza Stresa è presente, si accalca in corridoio e sulle scale, commossa. Rizzatosi sul letto, il malato recita a chiara voce il Confiteor e si fa leggere ad alta voce dal Paoli la professione di fede. Si sforza di accompagnarla parola per parola a voce sostenuta; poi, non reggendo alla fatica, continua sommesso. Vuole rendere davanti a tutti una nuova e solenne testimonianza del suo attaccamento alla fede cattolica e alla Chiesa, che ha sempre professato con gli scritti, con la predicazione e con le opere, ma che negli ultimi anni è stato messo in dubbio da malevoli avversari.

 

Vengono i maestri rosminiani a congedarsi. «Vedete, miei cari Figli, come tutto passa, e svanisce… è il tempo del raccolto. Il contadino che ha sudato e faticato, si conforta alla fine per la messe che raccoglie: così è di chi serve Dio e lavora per Lui», li conforta. E li invita: «Sforzatevi di diventare sempre più perfetti e fedeli. Vivete non secondo la carne, ma secondo lo spirito. Io non vi dimenticherò mai». Nel ricevere poi l’estrema unzione, chiede perdono ai confratelli «dei difetti commessi nel suo uffizio; ripete di averli sempre amati come figli; li esorta all’orazione, alla mortificazione… benedice tutto l’Istituto della Carità. La scena è commoventissima: molti piangono a calde lacrime, tutti hanno il dolore e la tenerezza dipinta sul volto», riporta un testimone.

 

I giorni passano e le condizioni sono sempre più critiche. Per lettera giunge la benedizione apostolica di Pio IX. I vescovi di Novara e di Ivrea, Castelli e Moreno, vengono a benedire e ringraziare Rosmini «per le sante fatiche per noi sostenute». «Ricordatevi di noi quando sarete in paradiso e pregate per me, per la mia diocesi e per tutta la Chiesa!» gli raccomanda mons. Moreno. «Grazie, grazie! Lo farò, lo farò!», mormora il malato, confuso da tante lodi e ormai impacciato nella parola.

 

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https://www.avvenire.it/agora/pagine/rosmini-tra-fede-filosofia-e-memoria#:~:text=Eredit%C3%A0.%20Gli,Diego%20Motta