Eredità.
Gli ultimi mesi di vita di Antonio Rosmini tra fede, filosofia e memoria
Ludovico Maria Gadaleta martedì 1 luglio 2025
Tra gli amici che arrivano a Stresa per l’ultimo incontro,
si ritrovano alcune tra le voci più alte dell’Italia culturale dell’Ottocento,
da Manzoni a Tommaseo e Bonghi
«È già il quarto mese che sono ammalato d’incomodi
intestinali e passo la mia vita oziando tra il letto ed il lettuccio», lamenta
Antonio Rosmini in una lettera all’amico Gustavo Cavour nell’aprile 1855.
Dall’ottobre precedente si trova nuovamente a Stresa,
ristabilito dal grave malessere che lo ha colpito dopo la famigerata cena a
Rovereto, in cui ha scoperto di essere stato avvelenato. Gli antichi problemi
di stomaco e di fegato, troppo trascurati, si sono riacutizzati. E se fino
all’inizio del 1855 la salute gli ha consentito di rispondere alle lettere,
governare l’Istituto e persino proseguire la stesura della Teosofia, adesso
deve sospendere e mettersi a letto. Brevi e occasionali miglioramenti lo illudono
che si tratti di una recrudescenza momentanea, ma a maggio la diagnosi è
chiara: «I medici non danno alcuna speranza», comunica laconico il segretario
don Francesco Paoli.
La notizia si diffonde rapidissima e comincia un profluvio
di lettere. Tutti vogliono notizie, promettono preghiere e suggeriscono rimedi
medici e spirituali. Poi iniziano ad arrivare a Stresa gli amici per l’ultimo
incontro. Fra i primi c’è don Paolo Orsi, antico amico di famiglia, che da
Rovereto giunge per restare fino all’ultimo con lui. Da Torino ecco Pier
Alessandro Paravia, altro compagno di gioventù, adesso affermato docente
universitario. Con lui è il giovane Ruggero Bonghi, destinato a promettente
carriera politica, in passato ospite più volte della comunità religiosa di
Stresa: ha trascritto per i posteri le Stresiane, i preziosi dialoghi di cui
era stato testimone, fra don Antonio e Alessandro Manzoni.
Anche quest’ultimo piomba di corsa a Stresa, in compagnia
del figlio Stefano e di don Alessandro Pestalozza, energico difensore della
filosofia rosminiana nel seminario di Milano e maestro, tra gli altri, di
Antonio Stoppani. Pestalozza singhiozza di nascosto, mentre vede i due amici
abbracciarsi. «Rosmini è sempre Rosmini!», dice don Lisander. «E Manzoni è
sempre Manzoni, e lo sarà anche dopo la mia morte», risponde l’infermo.
«Speriamo che Dio la voglia ancora conservare tra noi, e darle tempo da condurre
a termine tante belle opere, che ha incominciato!», lo incalza lo scrittore.
«No, no; le opere che Dio ha incominciato, sarà Lui a compierle con i mezzi che
sono nelle sue mani, che sono moltissimi e che noi non conosciamo!» ribatte il
filosofo. Arriva anche il Tommaseo, ormai cieco. Prega con fervore il rosario a
fianco di Manzoni. «Cerca di essere fedele a Dio e di avere sempre presente il
grande affare dell’anima. Se salverai la tua anima, avrai salvato tutto», gli
raccomanda Rosmini.
Gli ultimi pensieri di don Antonio sono per l’Istituto della
Carità, la congregazione da lui stabilita nel 1828. Chiede carta, pennino e
calamaio e di suo pugno verga un foglio con cui nomina il vicario che dovrà
governare dopo la sua morte in attesa di eleggere un successore. «Che il
precetto del Signore», ossia la carità di Dio e del prossimo, «risplenda sulla
terra di quella gloria di cui risplende in cielo», comincia il testo. Dopo un
centinaio di opere, è l’ultimo suo scritto autografo.
Quando riceve il Viatico, mezza Stresa è presente, si
accalca in corridoio e sulle scale, commossa. Rizzatosi sul letto, il malato
recita a chiara voce il Confiteor e si fa leggere ad alta voce dal Paoli la
professione di fede. Si sforza di accompagnarla parola per parola a voce
sostenuta; poi, non reggendo alla fatica, continua sommesso. Vuole rendere
davanti a tutti una nuova e solenne testimonianza del suo attaccamento alla
fede cattolica e alla Chiesa, che ha sempre professato con gli scritti, con la
predicazione e con le opere, ma che negli ultimi anni è stato messo in dubbio
da malevoli avversari.
Vengono i maestri rosminiani a congedarsi. «Vedete, miei
cari Figli, come tutto passa, e svanisce… è il tempo del raccolto. Il contadino
che ha sudato e faticato, si conforta alla fine per la messe che raccoglie:
così è di chi serve Dio e lavora per Lui», li conforta. E li invita:
«Sforzatevi di diventare sempre più perfetti e fedeli. Vivete non secondo la
carne, ma secondo lo spirito. Io non vi dimenticherò mai». Nel ricevere poi
l’estrema unzione, chiede perdono ai confratelli «dei difetti commessi nel suo
uffizio; ripete di averli sempre amati come figli; li esorta all’orazione, alla
mortificazione… benedice tutto l’Istituto della Carità. La scena è
commoventissima: molti piangono a calde lacrime, tutti hanno il dolore e la
tenerezza dipinta sul volto», riporta un testimone.
I giorni passano e le condizioni sono sempre più critiche.
Per lettera giunge la benedizione apostolica di Pio IX. I vescovi di Novara e
di Ivrea, Castelli e Moreno, vengono a benedire e ringraziare Rosmini «per le
sante fatiche per noi sostenute». «Ricordatevi di noi quando sarete in paradiso
e pregate per me, per la mia diocesi e per tutta la Chiesa!» gli raccomanda
mons. Moreno. «Grazie, grazie! Lo farò, lo farò!», mormora il malato, confuso
da tante lodi e ormai impacciato nella parola.
(….)
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