«Ora la mia russia spera
nella libertà»
Fu tutta colpa di un libro. Per aver distribuito clandestinamente I racconti di Kolyma
di Varlam Šalamov – una cronaca agghiacciante dei gulag nell’omonima
regione – il giornalista e attivista Andrej Mironov fu arrestato dalla
polizia segreta russa, il Kgb, e condannato a quattro anni di detenzione
e tre di esilio per propaganda sovversiva antisovietica.
Era il 1985 e al potere a Mosca c’era ancora Gorbaciov. Mironov fu spedito in un gulag in Mordovia e rinchiuso in cella di punizione, costretto a mangiare cibi pieni di vermi e a bere acqua sporca. Venne liberato dopo un anno e mezzo, grazie all’intercessione di Reagan e alla Perestrojka che stava facendo il suo corso.
Da allora ha iniziato a lavorare come ricercatore specializzato in diritti umani in diverse zone di conflitto: Nagorno Karabakh, Tagikistan, Afghanistan e soprattutto Cecenia, dove ha provato a organizzare incontri tra rappresentanti ceceni e deputati russi per trovare una soluzione pacifica al conflitto. Un’iniziativa destinata a rivelarsi fallimentare, perché Mosca aveva già deciso di schiacciare l’insurrezione con la forza. Nel 2003 venne aggredito in circostanze misteriose riportando gravi ferite alla testa.
«Alla mia cara amica e collega Anna Politkovskaja è andata molto peggio», chiosa con amarezza, adesso che è tornato in Italia insieme ad Amnesty International e ad altre Ong per denunciare ancora una volta le gravi violazioni dei diritti umani nel suo Paese. Durante la sua recente visita a Firenze, Mironov ci spiega in un ottimo italiano che purtroppo la Russia continua a dover essere identificata con Vladimir Putin e con la polizia politica che sta dietro di lui, con un enorme potere. «Dai tempi dell’Unione Sovietica non è cambiato molto sul piano dei diritti umani e della libertà d’opinione. Non è un caso che, oltre alla Politkovskaja, negli ultimi anni abbiano fatto sparire altri quattro giornalisti della “Novaja Gazeta”, che è l’unico quotidiano che si permette di criticare la politica di Putin».
Da alcuni anni Mironov collabora assiduamente con l’associazione Memorial, la più importante organizzazione russa per i diritti umani, che assiste i familiari delle vittime dei campi di concentramento sovietici. Ma il suo rischioso lavoro di denuncia si concentra soprattutto sul presente: «In Russia continua a esserci un pesante controllo dell’informazione, a tutti i livelli».
Quanto alla Cecenia, altro grande tasto dolente del quale la stampa internazionale ormai non parla più, Mironov ci tiene a sottolineare quanto sia falsa l’immagine di pacificazione che Mosca è riuscita a far passare. «C’è sempre un regno di terrore in Cecenia – spiega – perché non si può stabilizzare un Paese con la repressione e l’assenza di giustizia e diritto. Viceversa ci sono ancora uccisioni extragiudiziali, e le vittime non sono i terroristi ma gli operatori dei diritti umani».
Il dramma ceceno accende l’indignazione di questo anziano giornalista-attivista e il ricordo sempre vivo della sua amica Anna Politkovskaja torna a velargli gli occhi di tristezza. «Anna era una persona straordinaria, che aiutava le persone, che non sapeva dire di no a chi le chiedeva aiuto. La nostra collaborazione era costante e basata su ideali comuni. Mi manca tanto.
Sia le indagini che stava portando avanti prima di morire che gli attentati subiti in precedenza fanno pensare a una precisa volontà di eliminarla da parte del regime». Negli ultimi trent’anni della sua vita quest’uomo ha conosciuto una lunga scia di orrori che parte dagli ultimi gulag del regime sovietico agli orrori interni ed esterni della Russia del Terzo millennio. Ha subito minacce e attentati. Ha visto amici, compagni e colleghi imprigionati, uccisi, spariti nel nulla. Eppure negli ultimi anni è riuscito a intravedere qualcosa che ha riacceso in lui la speranza in un futuro migliore.
«Vedo che sta crescendo una nuova generazione di ventenni e trentenni, che è finalmente orfana del paternalismo che caratterizzava il regime sovietico e quindi non ha niente da perdere. Una generazione di giovani più liberi perché non si aspettano nulla dal potere, che cercano le notizie su internet invece che ascoltare le tv controllate dallo Stato. Che si è indignata per l’evidente falsificazione dei risultati elettorali, e che per questo è scesa in piazza a protestare. Forse la società civile sta diventando più forte rispetto al passato, e non è più disposta a tollerare un regime autoritario fondato sulla paura».
Era il 1985 e al potere a Mosca c’era ancora Gorbaciov. Mironov fu spedito in un gulag in Mordovia e rinchiuso in cella di punizione, costretto a mangiare cibi pieni di vermi e a bere acqua sporca. Venne liberato dopo un anno e mezzo, grazie all’intercessione di Reagan e alla Perestrojka che stava facendo il suo corso.
Da allora ha iniziato a lavorare come ricercatore specializzato in diritti umani in diverse zone di conflitto: Nagorno Karabakh, Tagikistan, Afghanistan e soprattutto Cecenia, dove ha provato a organizzare incontri tra rappresentanti ceceni e deputati russi per trovare una soluzione pacifica al conflitto. Un’iniziativa destinata a rivelarsi fallimentare, perché Mosca aveva già deciso di schiacciare l’insurrezione con la forza. Nel 2003 venne aggredito in circostanze misteriose riportando gravi ferite alla testa.
«Alla mia cara amica e collega Anna Politkovskaja è andata molto peggio», chiosa con amarezza, adesso che è tornato in Italia insieme ad Amnesty International e ad altre Ong per denunciare ancora una volta le gravi violazioni dei diritti umani nel suo Paese. Durante la sua recente visita a Firenze, Mironov ci spiega in un ottimo italiano che purtroppo la Russia continua a dover essere identificata con Vladimir Putin e con la polizia politica che sta dietro di lui, con un enorme potere. «Dai tempi dell’Unione Sovietica non è cambiato molto sul piano dei diritti umani e della libertà d’opinione. Non è un caso che, oltre alla Politkovskaja, negli ultimi anni abbiano fatto sparire altri quattro giornalisti della “Novaja Gazeta”, che è l’unico quotidiano che si permette di criticare la politica di Putin».
Da alcuni anni Mironov collabora assiduamente con l’associazione Memorial, la più importante organizzazione russa per i diritti umani, che assiste i familiari delle vittime dei campi di concentramento sovietici. Ma il suo rischioso lavoro di denuncia si concentra soprattutto sul presente: «In Russia continua a esserci un pesante controllo dell’informazione, a tutti i livelli».
Quanto alla Cecenia, altro grande tasto dolente del quale la stampa internazionale ormai non parla più, Mironov ci tiene a sottolineare quanto sia falsa l’immagine di pacificazione che Mosca è riuscita a far passare. «C’è sempre un regno di terrore in Cecenia – spiega – perché non si può stabilizzare un Paese con la repressione e l’assenza di giustizia e diritto. Viceversa ci sono ancora uccisioni extragiudiziali, e le vittime non sono i terroristi ma gli operatori dei diritti umani».
Il dramma ceceno accende l’indignazione di questo anziano giornalista-attivista e il ricordo sempre vivo della sua amica Anna Politkovskaja torna a velargli gli occhi di tristezza. «Anna era una persona straordinaria, che aiutava le persone, che non sapeva dire di no a chi le chiedeva aiuto. La nostra collaborazione era costante e basata su ideali comuni. Mi manca tanto.
Sia le indagini che stava portando avanti prima di morire che gli attentati subiti in precedenza fanno pensare a una precisa volontà di eliminarla da parte del regime». Negli ultimi trent’anni della sua vita quest’uomo ha conosciuto una lunga scia di orrori che parte dagli ultimi gulag del regime sovietico agli orrori interni ed esterni della Russia del Terzo millennio. Ha subito minacce e attentati. Ha visto amici, compagni e colleghi imprigionati, uccisi, spariti nel nulla. Eppure negli ultimi anni è riuscito a intravedere qualcosa che ha riacceso in lui la speranza in un futuro migliore.
«Vedo che sta crescendo una nuova generazione di ventenni e trentenni, che è finalmente orfana del paternalismo che caratterizzava il regime sovietico e quindi non ha niente da perdere. Una generazione di giovani più liberi perché non si aspettano nulla dal potere, che cercano le notizie su internet invece che ascoltare le tv controllate dallo Stato. Che si è indignata per l’evidente falsificazione dei risultati elettorali, e che per questo è scesa in piazza a protestare. Forse la società civile sta diventando più forte rispetto al passato, e non è più disposta a tollerare un regime autoritario fondato sulla paura».
Riccardo Michelucci