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L'incombenza
della Sua venuta
Pagina Uno
01.12.2006
Luigi Giussani
Appunti da una conversazione di Luigi Giussani in occasione
del ritiro d’Avvento dei Memores Domini, 28 novembre 1971
La prima domenica di Avvento ci fa iniziare la nuova vita
della Chiesa, un nuovo anno. Un anno ha una importanza grande nella vita,
perché nella vita di anni ce ne sono ottanta, novanta (ottanta nel migliore dei
casi e novanta se si è eccezionalmente fortunati1). Di questi ottanta o
novanta, quindici, se non venti, sono persi inutilmente, o pressappoco, sono
incoscienti (per chi ha incontrato la comunità cristiana, invece di venti
facciamo diciassette!). Perciò, un anno ha una importanza grande nella vita. E
anche se, da un certo punto di vista, può sembrare artificioso il dividere il
tempo in questo modo, il dare importanza a questa divisione io credo che sia
molto più intelligente che artificioso. La Chiesa aumenta di molto questa
certezza, perché, con l’anno liturgico, seguendo - almeno per noi del mondo
occidentale - i ritmi della natura e paragonando ai ritmi della natura i ritmi
dell’esistenza cristiana (dell’esistenza cristiana come storia e dell’esistenza
cristiana come persona), ritmando così il suo anno sui tempi della natura, che
così immediatamente simboleggiano e segnano i tempi dell’esistenza personale e
i tempi dell’esistenza storica, veramente la Chiesa fa un’opera pedagogica non
indifferente.
Credo che sia molto importante, realmente, questo momento. È
importante, una volta che lo si richiami, molto di più per l’avvenimento d’una
coscienza in noi, d’una vigilanza in noi, che neanche per le parole che
possiamo sentire su di esso. Qualche parola, però, può aiutare la nostra
coscienza. Ma tutto il problema sta nella nostra coscienza.
1. L’incombenza della Sua venuta
La liturgia della prima domenica2 mi pare decisiva al
riguardo. Dal libro del profeta Isaia, capitolo secondo, versetti 1-5: «Visione
che ebbe Isaia, figlio di Amoz, su Giuda e su Gerusalemme [«visione», perciò
intuizione del progetto divino, «su Giuda e su Gerusalemme», sul popolo che è
stato scelto e sul suo insediamento, che, a differenza di ogni insediamento
umano, ha un significato imperituro, perché l’insediamento del popolo di Dio
costituisce il segno, il sacramento, dell’ultimo insediamento umano, che è il
paradiso]. Avverrà che alla fine dei giorni si ergerà il monte del tempio del
Signore sulla cima dei monti, si innalzerà sui colli; verso di esso affluiranno
le genti. Verranno tanti popoli, dicendo: “Venite, saliamo sul monte del
Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci ammaestri sulle sue vie, e
noi cammineremo per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge, e la
parola del Signore da Gerusalemme. Egli giudicherà tra le genti e deciderà tra
tanti popoli. Forgeranno le spade in vomeri, le lance in falci; un popolo non
alzerà la spada contro un altro popolo, non impareranno più l’arte della
guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore»3.
La prima parola che il testo di Isaia ci suggerisce è una
parola che immediatamente deve determinare la coscienza della definitività. La
coscienza della definitività è come la coscienza di noi stessi: è permanente.
Potrebbe essere già un esame di coscienza o un contenuto di contrizione per la
messa di oggi, per questa giornata e per il suo sacrificio. La coscienza della
definitività deve accompagnarci come l’autocoscienza di noi stessi, come la
coscienza di noi stessi, come un’autocoscienza. Infatti, l’autocoscienza è
consapevolezza di qualche cosa di definitivo, perché il nostro io è definitivo.
Ma ancora più definitivo è il significato del nostro io. E il significato del
nostro io è Gesù Cristo e il Suo mistero; perciò la definitività riguarda la
nostra adesione a Lui, la nostra adesione secondo la formula che Lui ha deciso
per la nostra vita (perché non c’è un’altra formula; c’è soltanto, per
aderirGli, la formula che Lui ha deciso per la nostra vita). La coscienza della
definitività è come il sintomo più esatto della vera autocoscienza cristiana,
dell’autocoscienza che ci fa percepire la vita come vocazione.
C’è una parola che immediatamente rende viva la coscienza
della nostra definitività: senza questa parola, la definitività non è viva, può
essere un automatismo già instaurato. Guardate, per favore, che non intendo
fare osservazioni astratte: dico, rilevando la posizione di taluni tra voi, che
la definitività è vissuta come un automatismo. Ed è tentazione di tutti noi,
per tutti noi, il vivere la definitività come automatismo. Senza la parola che
stiamo per dire, la definitività è automatismo. Perciò, come ogni automatismo,
applicato alla vita cosciente, alla vita intelligente, alla vita della
sensibilità, alla vita della libertà e della volontà, fa diventare rigidi. È
una rigidezza che sembra non morderci la coscienza, quando non permette peccati
mortali; ma è una tale rigidezza che non porta nessun segno di Cristo in giro
per il mondo e tanto meno in «casa»4. Oppure, l’automatismo provoca una
rigidezza che, in vario modo, ci rende farisei, vale a dire tende a fare del
nostro atteggiamento il paradigma per gli altri: la misura della nostra
esigenza, che diventa perciò pretesa, è la misura della bontà degli altri, del
valore degli altri, della utilità della casa o della utilità dei rapporti.
Oppure porta a un farisaismo che in fondo - di fronte alle nostre licenze, di
fronte alle libertà che ci prendiamo e che scandalizzano la casa o che
scandalizzano i rapporti o che ci isolano dai rapporti, ci rendono inutili,
futili, vani, senza produttività nei rapporti - ci fa dire: «Beh, cosa c’è di
male?», o: «Io, cosa ci devo fare; in fondo, cosa ci devo fare?»; che, se non è
un modo per giustificarsi teorico, è un modo per giustificarsi di fronte a se
stessi, quasi una scocciatura al pensiero che altri possano eccepire sul nostro
comportamento.
È un automatismo che rende rigido tutto e senza gusto il
vivere spirituale, senza nessun sàpere, senza nessun sapore, la vita del nostro
spirito; oppure è un automatismo farisaico, che fa della nostra pretesa la
misura della convivenza (quando abbiamo voglia di parlare, gli altri devono
parlare, e quando abbiamo voglia di “tenerci” per noi, non devono pretendere
niente; abbiamo il diritto di tacere e di parlare quando e come vogliamo, con
stagnante in fondo all’animo quella caratteristica pretesa, quel senso di
pretesa che, anche se non osiamo esplicitarcelo, gli altri sentono
sensibilmente, come quando ci toccano dentro col gomito e ci vedono la faccia);
oppure è il farisaismo che giustifica, se non teoricamente, almeno ad usum
delphini, per noi stessi, il nostro comportamento. La nostra definitività scade
inevitabilmente in tutto questo che ho detto - perché sto descrivendovi, sto
descrivendoci -, senza la parola che il profeta Isaia, per primo, ci ha
dettato. E la parola è che Cristo, la Sua venuta, è incombente: l’incombenza
della Sua venuta.
Come gioca il vocabolario! Perché «incombenza» vuol dire due
cose: vuol dire un dovere e vuol dire una cosa che ti sovrasta, imminente.
Incombenza vuol dire dovere e vuol dire imminenza. Io voglio sottolineare
anzitutto il secondo aspetto, perché il primo è evidente che ne deriva: una
incombenza, una imminenza, se non è uguale a zero, diventa un dovere, suscita e
impone un dovere.
L’imminenza della Sua venuta, l’incombenza della Sua venuta.
«Fratelli - dice san Paolo nella Lettera ai Romani -, consapevoli del momento
che volge, è tempo che vi destiate dal sonno ormai. Perché la salvezza ci è
molto più vicina ora di quando siamo venuti alla fede. La notte è avanzata, il
giorno è vicino»5, è tempo che vi destiate dal sonno. Dice il Vangelo di
Matteo: «Come in quei giorni non si avvidero di nulla finché venne il diluvio e
li distrusse tutti, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Vigilate, perché
non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà. Questo sappiate: se il
padrone di casa conoscesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe
e non si lascerebbe rompere la casa. Anche voi perciò state pronti, perché
nell’ora in cui non lo pensate, il Figlio dell’uomo verrà»6. È una incombenza,
è una imminenza che ha come significato privilegiato, come significato supremo,
quello letterale: l’incombenza e l’imminenza della morte; perché la morte è il
Figlio dell’uomo che viene, secondo tutta quanta l’ampiezza del significato. Ma
questo non sapere quando la morte viene, questo dovere di stare all’erta,
questa fine dei giorni in cui il Signore «ergerà il monte del tempio suo», il
fatto di non sapere il momento in cui il Signore viene, rende molto più chiaro,
anzi, è l’unico modo per rendere la consapevolezza, la coscienza delle nostre
azioni, tutta quanta protesa o determinata dal significato finale.
Ogni nostra azione, ogni momento è un passo verso il Signore
che viene. Perciò ogni azione e ogni momento è il Signore che viene,
esattamente come ogni azione, ogni momento può essere l’ultimo. Se la paura
fosse dominata dal desiderio, se il timore fosse dominato dall’attesa! Questo è
vivere l’imminenza del Signore che viene, questo è vivere l’incombenza di
Cristo, della venuta di Cristo. Letteralmente ogni azione ha il suo significato
nella venuta Sua, nel senso ristretto della parola, che è la morte.
(continua su comunioneeliberazione.org)
