venerdì 5 dicembre 2025

L'incombenza della Sua venuta Pagina Uno


 

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L'incombenza della Sua venuta

Pagina Uno

01.12.2006

Luigi Giussani

 

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani in occasione del ritiro d’Avvento dei Memores Domini, 28 novembre 1971

La prima domenica di Avvento ci fa iniziare la nuova vita della Chiesa, un nuovo anno. Un anno ha una importanza grande nella vita, perché nella vita di anni ce ne sono ottanta, novanta (ottanta nel migliore dei casi e novanta se si è eccezionalmente fortunati1). Di questi ottanta o novanta, quindici, se non venti, sono persi inutilmente, o pressappoco, sono incoscienti (per chi ha incontrato la comunità cristiana, invece di venti facciamo diciassette!). Perciò, un anno ha una importanza grande nella vita. E anche se, da un certo punto di vista, può sembrare artificioso il dividere il tempo in questo modo, il dare importanza a questa divisione io credo che sia molto più intelligente che artificioso. La Chiesa aumenta di molto questa certezza, perché, con l’anno liturgico, seguendo - almeno per noi del mondo occidentale - i ritmi della natura e paragonando ai ritmi della natura i ritmi dell’esistenza cristiana (dell’esistenza cristiana come storia e dell’esistenza cristiana come persona), ritmando così il suo anno sui tempi della natura, che così immediatamente simboleggiano e segnano i tempi dell’esistenza personale e i tempi dell’esistenza storica, veramente la Chiesa fa un’opera pedagogica non indifferente.

Credo che sia molto importante, realmente, questo momento. È importante, una volta che lo si richiami, molto di più per l’avvenimento d’una coscienza in noi, d’una vigilanza in noi, che neanche per le parole che possiamo sentire su di esso. Qualche parola, però, può aiutare la nostra coscienza. Ma tutto il problema sta nella nostra coscienza.

1. L’incombenza della Sua venuta

La liturgia della prima domenica2 mi pare decisiva al riguardo. Dal libro del profeta Isaia, capitolo secondo, versetti 1-5: «Visione che ebbe Isaia, figlio di Amoz, su Giuda e su Gerusalemme [«visione», perciò intuizione del progetto divino, «su Giuda e su Gerusalemme», sul popolo che è stato scelto e sul suo insediamento, che, a differenza di ogni insediamento umano, ha un significato imperituro, perché l’insediamento del popolo di Dio costituisce il segno, il sacramento, dell’ultimo insediamento umano, che è il paradiso]. Avverrà che alla fine dei giorni si ergerà il monte del tempio del Signore sulla cima dei monti, si innalzerà sui colli; verso di esso affluiranno le genti. Verranno tanti popoli, dicendo: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci ammaestri sulle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge, e la parola del Signore da Gerusalemme. Egli giudicherà tra le genti e deciderà tra tanti popoli. Forgeranno le spade in vomeri, le lance in falci; un popolo non alzerà la spada contro un altro popolo, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore»3.

La prima parola che il testo di Isaia ci suggerisce è una parola che immediatamente deve determinare la coscienza della definitività. La coscienza della definitività è come la coscienza di noi stessi: è permanente. Potrebbe essere già un esame di coscienza o un contenuto di contrizione per la messa di oggi, per questa giornata e per il suo sacrificio. La coscienza della definitività deve accompagnarci come l’autocoscienza di noi stessi, come la coscienza di noi stessi, come un’autocoscienza. Infatti, l’autocoscienza è consapevolezza di qualche cosa di definitivo, perché il nostro io è definitivo. Ma ancora più definitivo è il significato del nostro io. E il significato del nostro io è Gesù Cristo e il Suo mistero; perciò la definitività riguarda la nostra adesione a Lui, la nostra adesione secondo la formula che Lui ha deciso per la nostra vita (perché non c’è un’altra formula; c’è soltanto, per aderirGli, la formula che Lui ha deciso per la nostra vita). La coscienza della definitività è come il sintomo più esatto della vera autocoscienza cristiana, dell’autocoscienza che ci fa percepire la vita come vocazione.

C’è una parola che immediatamente rende viva la coscienza della nostra definitività: senza questa parola, la definitività non è viva, può essere un automatismo già instaurato. Guardate, per favore, che non intendo fare osservazioni astratte: dico, rilevando la posizione di taluni tra voi, che la definitività è vissuta come un automatismo. Ed è tentazione di tutti noi, per tutti noi, il vivere la definitività come automatismo. Senza la parola che stiamo per dire, la definitività è automatismo. Perciò, come ogni automatismo, applicato alla vita cosciente, alla vita intelligente, alla vita della sensibilità, alla vita della libertà e della volontà, fa diventare rigidi. È una rigidezza che sembra non morderci la coscienza, quando non permette peccati mortali; ma è una tale rigidezza che non porta nessun segno di Cristo in giro per il mondo e tanto meno in «casa»4. Oppure, l’automatismo provoca una rigidezza che, in vario modo, ci rende farisei, vale a dire tende a fare del nostro atteggiamento il paradigma per gli altri: la misura della nostra esigenza, che diventa perciò pretesa, è la misura della bontà degli altri, del valore degli altri, della utilità della casa o della utilità dei rapporti. Oppure porta a un farisaismo che in fondo - di fronte alle nostre licenze, di fronte alle libertà che ci prendiamo e che scandalizzano la casa o che scandalizzano i rapporti o che ci isolano dai rapporti, ci rendono inutili, futili, vani, senza produttività nei rapporti - ci fa dire: «Beh, cosa c’è di male?», o: «Io, cosa ci devo fare; in fondo, cosa ci devo fare?»; che, se non è un modo per giustificarsi teorico, è un modo per giustificarsi di fronte a se stessi, quasi una scocciatura al pensiero che altri possano eccepire sul nostro comportamento.

È un automatismo che rende rigido tutto e senza gusto il vivere spirituale, senza nessun sàpere, senza nessun sapore, la vita del nostro spirito; oppure è un automatismo farisaico, che fa della nostra pretesa la misura della convivenza (quando abbiamo voglia di parlare, gli altri devono parlare, e quando abbiamo voglia di “tenerci” per noi, non devono pretendere niente; abbiamo il diritto di tacere e di parlare quando e come vogliamo, con stagnante in fondo all’animo quella caratteristica pretesa, quel senso di pretesa che, anche se non osiamo esplicitarcelo, gli altri sentono sensibilmente, come quando ci toccano dentro col gomito e ci vedono la faccia); oppure è il farisaismo che giustifica, se non teoricamente, almeno ad usum delphini, per noi stessi, il nostro comportamento. La nostra definitività scade inevitabilmente in tutto questo che ho detto - perché sto descrivendovi, sto descrivendoci -, senza la parola che il profeta Isaia, per primo, ci ha dettato. E la parola è che Cristo, la Sua venuta, è incombente: l’incombenza della Sua venuta.

Come gioca il vocabolario! Perché «incombenza» vuol dire due cose: vuol dire un dovere e vuol dire una cosa che ti sovrasta, imminente. Incombenza vuol dire dovere e vuol dire imminenza. Io voglio sottolineare anzitutto il secondo aspetto, perché il primo è evidente che ne deriva: una incombenza, una imminenza, se non è uguale a zero, diventa un dovere, suscita e impone un dovere.

L’imminenza della Sua venuta, l’incombenza della Sua venuta. «Fratelli - dice san Paolo nella Lettera ai Romani -, consapevoli del momento che volge, è tempo che vi destiate dal sonno ormai. Perché la salvezza ci è molto più vicina ora di quando siamo venuti alla fede. La notte è avanzata, il giorno è vicino»5, è tempo che vi destiate dal sonno. Dice il Vangelo di Matteo: «Come in quei giorni non si avvidero di nulla finché venne il diluvio e li distrusse tutti, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Vigilate, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà. Questo sappiate: se il padrone di casa conoscesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe rompere la casa. Anche voi perciò state pronti, perché nell’ora in cui non lo pensate, il Figlio dell’uomo verrà»6. È una incombenza, è una imminenza che ha come significato privilegiato, come significato supremo, quello letterale: l’incombenza e l’imminenza della morte; perché la morte è il Figlio dell’uomo che viene, secondo tutta quanta l’ampiezza del significato. Ma questo non sapere quando la morte viene, questo dovere di stare all’erta, questa fine dei giorni in cui il Signore «ergerà il monte del tempio suo», il fatto di non sapere il momento in cui il Signore viene, rende molto più chiaro, anzi, è l’unico modo per rendere la consapevolezza, la coscienza delle nostre azioni, tutta quanta protesa o determinata dal significato finale.

Ogni nostra azione, ogni momento è un passo verso il Signore che viene. Perciò ogni azione e ogni momento è il Signore che viene, esattamente come ogni azione, ogni momento può essere l’ultimo. Se la paura fosse dominata dal desiderio, se il timore fosse dominato dall’attesa! Questo è vivere l’imminenza del Signore che viene, questo è vivere l’incombenza di Cristo, della venuta di Cristo. Letteralmente ogni azione ha il suo significato nella venuta Sua, nel senso ristretto della parola, che è la morte.

(continua su comunioneeliberazione.org)