martedì 17 febbraio 2015

Intervista a Padre Samir


Intervista integrale a padre Samir Khalil Samir
PER AIUTARE L'ISLAM SERVE UN'AMICIZIA
di Alessandra Stoppa

L’islam nasce dal deserto. «E il deserto è vita o morte». Quando era ragazzo, padre Samir Khalil Samir passava la notte tra il sabato e la domenica dietro le Piramidi, da solo. Questo ha approfondito in lui il senso del Mistero, della presenza di Dio, e la sua vocazione. Nato al Cairo 77 anni fa, è entrato nell’Ordine dei Gesuiti a 17. Profondo conoscitore dell’islam, oggi è docente all’Università San Giuseppe di Beirut e al Pontificio Istituto Orientale di Roma. «Il deserto è un’esperienza radicale. È nudità totale. Solo sabbia, e le stelle sopra di te. Sei tu in presenza della Superpotenza. L’islam è nato lì, è nato desertico. Allora si capisce l’estremismo. Pronti a dare la vita, senza calcolo, spinti dal Creatore sopra di noi».
L’attentato alla redazione di Charlie Hebdo è solo il dramma a noi più “vicino”, ma richiama ad un male che incombe, globale, dalla Nigeria al Medioriente al Pakistan... E a un terrorismo che, a varia intensità, porta la bandiera islamica. «L’islam è in crisi. E non può guarire da solo. Dobbiamo capire chi può aiutarlo». È l’affondo che padre Samir offre nell’ampio dibattito di oggi. Partendo da un aspetto, quello della libertà di espressione, che in queste settimane si è consumato tra slogan e contrapposizioni.
«C’è, innanzitutto, una lacuna in una cultura che non accetta la libertà di parola e pensiero. In alcuni Paesi musulmani, in particolare in Pakistan, esiste un delitto passibile di morte che è la blasfemia, cioè dire qualcosa contro il profeta dell’islam. E questo è inammissibile: mettiamo che io sbagli del tutto, tu mi correggi. La libertà di pensiero e di parola è fondamentale, secondo il concetto moderno della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata il 10 dicembre 1948, alla presenza anche di Paesi musulmani. Ma si pone una domanda altrettanto decisiva: la libertà di espressione fin dove può arrivare?»

Lei cosa risponde?
Che non è assoluta. La libertà è sempre in relazione. Deve rispettare i sentimenti delle persone, deve essere veritiera. Quindi, c’è un limite. Detto questo, non c’è violenza che si giustifichi. Noi stiamo parlando di assassinii, di stragi umane. È inammissibile. Ma il tema della libertà è importante: è un’esigenza enorme la libertà, la libertà di coscienza. Anche la religione si confronta con essa: io non posso negare a nessuno il diritto di rifiutare Dio, di non riconoscerne l’esistenza, se no la religione sarebbe un’ideologia e una dittatura. Ma come conciliare dunque queste due realtà: la libertà e il rispetto dell’altro e della verità? Non può avvenire se non attraverso un confronto, scritto e orale. Se io credo che qualcuno abbia detto qualcosa di falso su di me, devo poterlo dire e dimostrarlo. È esigente la libertà. Esige anche molto studio.

Può fare un esempio? In una trasmissione su Télé Lumière, la tv cattolica internazionale emessa da Beirut, ho avuto un dialogo di due ore con un dotto imam libanese. Mi ha chiesto se riconosco Maometto come profeta. Ho risposto: «Non lo riconosco e non lo riconoscerò mai». E lui: «Perché no? Anche noi riconosciamo Gesù». Ho detto: «È un problema vostro. Se riconoscete Gesù come profeta, gran bene vi fa. Ma per noi Gesù non è un profeta, è il Verbo di Dio (kalimat Allah), il Figlio di Dio. E tu non puoi impormelo. Non siamo al mercato, dove mi dici: ti do la profezia di Gesù e tu mi riconosci quella di Maometto. Stiamo riflettendo, insieme. Inoltre, voi dite che Maometto è “il sigillo dei profeti” (khâtam al-nabiyyîn; Corano 33:40), ovvero che dopo di lui non può venire nessun profeta. È colui che conclude la Rivelazione e rettifica le precedente. Infatti, dite che il Vangelo è corrotto e che è corretto dall’islam. Inoltre, dite che Cristo ha annunciato Maometto come profeta (wa-mubashshiran bi-rasûlin ya’tî min ba‘dî smuhu Ahmad; Corano 61:6): questo dovete dimostrarlo. È falso, perché Cristo non l’ha mai detto nei Vangeli. Voi pretendete che il Consolatore, lo Spirito Santo menzionato dal Vangelo sia equivalente a Maometto, ma tutte le volte che lo sostenete non avete nessun argomento». Ho suggerito di cercare degli elementi filologici. Tutto ciò non toglie nulla al mio rispetto per Maometto. Anzi. Ho spiegato tutto ciò che ammiro di lui, innanzitutto l’aver guidato l’uomo all’adorazione di Dio, a metter Dio al centro della vita personale e comunitaria. L’imam mi rispondeva ad ogni punto, e così - partendo da un contrasto - abbiamo potuto approfondire le nostre fedi e fare un po’ di strada insieme.

Qual è il legame reale tra la violenza che vediamo e la religione islamica? È un grande peccato che l’islam si presenti al mondo come una popolazione primitiva. Sta facendo male innanzitutto ai musulmani. L’immagine dell’islam, attraverso questi gruppi fondamentalisti o terroristici, è vista troppo spesso come disgustosa. Anche dai musulmani stessi. Appare come un rifiuto di tutte le più grandi conquiste dell’umanità e della modernità: la libertà, la democrazia, il dialogo, il rispetto altrui, l’uguaglianza tra uomini e donne, tra persone di credi diversi... Ci sono Paesi musulmani nella cui Costituzione si pretende che la donna valga metà dell’uomo. Verrebbe da dire: questi Paesi sono arretrati! Eppure sono i più ricchi del mondo e con la possibilità di essere i più dotti, i più progrediti. Io ne soffro molto. Perché sono arabo e perché i musulmani sono miei fratelli. In Arabia Saudita la Costituzione non c’è, perché pretendono che la loro Costituzione sia il Corano e la Sharia. Ma come si può pretendere che il Corano possa essere un testo giuridico? E che una Costituzione sia stata scritta da Dio? Quindi, il problema non è l’islam, ma chi attribuisce all’islam norme che sono inaccettabili. Ci sono alcuni principi presenti nei libri sacri, sì. Ma se la Chiesa dovesse mantenere alla lettera alcune affermazioni della tradizione o dell’Antico Testamento, sarebbe pazzia.

Nell’interpretazione del Corano si fonda il legame tra violenza e religione? Di fronte ai terroristi musulmani, non si può protestare e dire: «Questi non sono autentici musulmani!». È troppo facile come risposta. Perché il problema è che loro stessi, i terroristi, si considerano autentici musulmani, e non agiscono senza l’approvazione di un imam dotto che emette una fatwa. Dicono: «Noi siamo autentici musulmani, siete voi che non applicate tutti i passi del Corano, non concretizzate l’insegnamento del Corano. Noi lo facciamo». Questo è il fondamentalismo: un attaccamento alla lettera del Corano, senza esaminare il contesto (in questo caso beduinico) del testo.

Da dove viene questa interpretazione astratta dal contesto? I fondamentalisti e i salafiti non prendono in considerazione il tempo, la storia. Quando una mamma parla con il bambino e gli spiega la realtà, usa un linguaggio e un modo che è adeguato a lui. Come dice il vecchio assioma della filosofia scolastica: Quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur, “ciò che viene ricevuto in un soggetto è ricevuto secondo la capacità della natura del ricevente”. La mamma non mente, ma tiene conto del tempo, della crescita del bambino, della sua capacità di capire certe cose. Così è anche Dio. Parla un linguaggio umano. Non c’è un linguaggio divino, c’è solo una capacità umana di capire il divino. Quando l’umanità era bambina, gli parlava in modo adeguato. Come dice san Paolo: “Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma quando sono diventato uomo, anche i miei pensieri sono cresciuti e ho smesso quelle cose tipiche dei bambini...” (1Cor 13:11). La nostra vocazione di cristiani, in particolare di cristiani arabi, è aiutare i musulmani a ripensare la fede in un modo più maturo, senza perdere nulla della fede, ma senza materializzare Dio, senza il materialismo della violenza. In questo senso, la prima cosa importante è l’ermeneutica. Il problema è che nell’islam è diffusa questa formula: «La porta dell’ijtihad (dell’interpretazione) è chiusa».

Chi lo ha stabilito? Nessuno ha mai potuto dire né chi né quando, eppure si è trasmesso. Spesso si nomina al-Ghazâlî, grande pensatore musulmano sunnita morto nel 1111. Ma non c’è nessuna prova. Tutto è dubbioso e congetturale, ma si è diffusa l’idea che nel Medioevo questa fine dell’interpretazione ci sia stata e che “ormai è troppo tardi”. Questo è il problema: in tutte le religioni lo sforzo per re-interpretare si deve fare fino alla fine del mondo. Un testo si rilegge in ogni generazione e si può capire diversamente, oppure no. Questa è la forza di un testo religioso. Faccio un esempio. La Genesi ci dice che in sei giorni Dio creò il mondo, il settimo si è riposato. Come posso pensare che questa sia una descrizione geologica della creazione del mondo? Allora è falsa? No. Devo interpretarla. E c’è voluto tempo per ammettere questo. Ma le spiegazioni più adeguate si cercano, si continuano a cercare. Questo a noi sembra andare da sé, ma solo perché ce l’hanno insegnato. Nell’islam non va da sé.

Questa è la prima urgenza per l’islam dal suo punto di vista?È essenziale la lettura ermeneutica di un testo sacro che gestisce la vita di un miliardo e mezzo di uomini. Tutto lo sforzo dei dotti dovrebbe essere per capire questo. Mentre oggi lo sforzo consiste nel ripetere a memoria le parole dei grandi commentatori dei primi secoli.

Quanto è realistico che questo sforzo risponda al terrorismo cosi radicato che ha interessi politici, economici...?È la fonte di tutto: una lettura politica della religione islamica. Il presupposto è che l’islam deve dominare, perché è la sola religione vera, perché è l’ultima delle religioni del mondo. Ma come è possibile affermare che sia l’ultima religione del mondo? Andate a Torino, a chiedere a Massimo Introvigne quante religioni ci sono nel mondo: ve ne enumera migliaia. Invece per l’islam ne esistono solo tre: islam, ebraismo e cristianesimo. Non si scherza su questo. Loro lo dicono e lo ripetono tutti i giorni. È un mondo astratto dalla realtà. Dico loro: «E il buddismo? L’induismo? E tante altre religioni in Africa e in America?». Ma loro ripetono: «Ce ne sono solo tre, e l’ultima è l’islam!», e pensano: «Dunque è quella più perfetta, visto che è l’ultima». Ma io rispondo: «Anche se, per ipotesi, fosse l’ultima, questo non dimostra che sia la più perfetta. Si giudica una religione, come un albero, dai frutti che produce, e la violenza non può essere un frutto buono».

Il fenomeno di Boko Haram in Nigeria che legame ha con l’islam?L’espressione è già un programma: boko viene dall’inglese book, che significa “libro”, ma s’intende tutta l’educazione occidentale. Quanto a haram, viene dall’arabo, e significa “è vietato, è male”. Boko Haram significa dunque “l’educazione occidentale è un male”. È un livello intellettuale infantile. L’ispirazione è la stessa. Considerano illecita (harâm) la cultura occidentale, l’educazione occidentale. Questa mentalità io l’ho vissuta nei villaggi d’alto Egitto, negli anni Settanta. «Perché non mandate le figlie a scuola?», chiedevo. Risposta: «A che serve? Gli basta saper far da mangiare e portare l’acqua a casa». In Egitto l’educazione è obbligatoria e gratuita dal 1925, ma dopo 50 anni la mentalità era ancora quella. E oggi, dopo quasi un secolo, abbiamo il 40 per cento di analfabeti, in maggioranza musulmani. Manipolare uno che non sa leggere è più facile. Perché l’unica cosa che può fare, l’unica fonte è ascoltare la predica del venerdì.

Lei vede un’auto-critica, all’interno del mondo musulmano?Questa è la parola decisiva. Auto-critica. È un lungo cammino. Il giorno dell’attentato a Charlie Hebdo, gli imam di Parigi hanno scritto un manifesto, un bel testo per dire che quanto accaduto era inaccettabile. Io ho detto loro che non è più sufficiente dire che tutto ciò non ha nulla a che fare con l’islam. I terroristi non si considerano terroristi, ma mujahedin, ovvero compagni di Maometto che hanno fatto la guerra (la jihad) per difendere e diffondere l’islam. La jihad in senso etimologico è «lo sforzo spirituale», non la guerra. Nel Corano c’è in questo senso, ma anche come “sforzo sulla via di Dio”, cioè sforzo applicato alla guerra per Dio, contro gli infedeli. I mujahedin dicono: voi avete paura di perdere la vostra vita, noi siamo pronti a darla per ricreare la grandezza dell’islam. Questo è il loro scopo. Non sono egoisti, non è gente che pensa di fare i soldi: sono pronti a dare la vita. Ma fino all’orrore. Come le bambine kamikaze di dieci anni allenate da Boko Haram. Quest’esempio mostra a che barbarie siamo arrivati, a che disumanità!

Come è stato il dialogo con gli imam di Parigi? Sono stato invitato all’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, in occasione della visita dei quattro imam francesi. Parlando con loro, chiedevo a che punto fosse il progetto di formare gli imam di Francia, perché è dalla loro formazione che dipende quella dei musulmani. Mi ha risposto il numero due della grande moschea parigina: «Abbiamo creato qui a Parigi una scuola di formazione per imam, da due anni, e ne abbiamo adesso più di mille». Questa è una grande notizia. Lo scopo è di riuscire a dare una formazione con una lettura moderna dell’islam. Comunque, oltre alla formazione, è molto importante il controllo dei discorsi degli imam, in tutte le moschee qui in Europa. Di solito non parlano la lingua del Paese, ma in arabo, in turco, in persiano, in pakistano, eccetera. Già questo è significativo: non conoscono la lingua nazionale, sono intrusi, e spesso non vogliono integrarsi. Ma come può un imam aiutare la sua gente a vivere sempre più da musulmani in Europa, se non sanno niente della vita di qui? È anche un problema politico occidentale: se tu imam orienti una parte della popolazione del mio Paese, devi orientarla come conviene. Devi conoscere la Costituzione italiana. Ci sono delle condizioni da porre per accettarlo come guida dei cittadini italiani di fede musulmana. In Egitto le prediche del venerdì sono controllate, perché nel mondo arabo l’imam è pagato dallo Stato e lo Stato ha il diritto di dire: non pago più. In Europa sono spesso pagati dagli Stati che li mandano, o dall’Arabia Saudita: l’Ucoii in Italia è finanziata dall’estero e non dai musulmani locali. Il fondamentalismo parte dall’imam e dalla moschea e poi dilaga in rete. Abbiamo visto a più riprese che, per esempio, la moschea di viale Jenner a Milano, un tempo infiltrata da Al-Qa’idah, era un punto di riferimento per terroristi, e che si trovavano anche libri che spingevano alla lotta armata, nel quadro del cosiddetto “centro culturale”.

Cosa attrae secondo lei i giovani? Conta davvero l’ideale totalizzante?Il giovane, se vive un’integrazione parziale, non sa bene la lingua o non la sa per niente, torna a casa da scuola e l’ambiente non lo stimola a studiare. L’educazione è importantissima: la mamma magari è analfabeta e il papà non ha il tempo per aiutarlo. Negli ambienti borghesi, tra gli emigrati, trovi una generazione diversa, più istruita. Ma c’è una parte che, per ideologia e negligenza, è ridotta a non riuscire nella vita e ad essere preda di chi propone un ideale. È l’1%, meno dell’ 1% a seguire la tendenza fondamentalista. Si dirà: è pochissimo. Infatti nessuno può dire che i musulmani sono questo! Nessun può dire che i musulmani sono terroristi in erba! La stragrande maggioranza di loro non vuole il terrorismo. Ma non si può nemmeno negare che ci sia un problema.

Lei vede dei tentativi di riformare? Ci sono e ci sono spesso. Ma, tutte le volte, si alza una voce autorevole che li fa tacere. Abbiamo pensatori - in Egitto, in Tunisia, in Europa e altrove - che ripetono: si deve reinterpretare il Corano, riformare l’islam. Ci sono migliaia, decine di migliaia di pensatori musulmani che chiedono la riforma dell’islam e degli imam. Ma vengono fatti tacere. Sono étoiles filantes, quelle che passano nelle notti di agosto. E siccome non c’è un autorità ultima nell’islam, non si va avanti. In pratica, l’unica soluzione, per quanto possa sembrare strana, può venire solo dal Governo dei Paesi musulmani, che può imporre un linea ai responsabili musulmani, soprattutto quando sono pagati dallo Stato, come capita spesso.

Il discorso del presidente egiziano, Al-Sisi, va in questa direzione. Eccezionale. L’ultimo tentativo che possiamo vedere è il suo. Ha parlato prima degli attacchi di Parigi. Un discorso splendido e forte ad Al-Azhar, l’università islamica più famosa del mondo, fondata nel X secolo dai Fatimidi. Ha fatto un discorso a braccio, come sempre in Egitto, in presenza di un migliaio di persone, centinaia di imam. Ha concluso dicendo: «C’è bisogno di fare una rivoluzione religiosa!». Allora è scoppiato un applauso spontaneo e formidabile. È quello che la gente aspetta e desidera, ma non osa e non sa come. Probabilmente nessuno nell’establishment sa come fare questa “rivoluzione intellettuale”. Servirebbe un congresso internazionale dei musulmani dotti e aperti alla modernità, e chiedere loro di fare un progetto per la formazione degli imam, per l’educazione della popolazione attraverso i social media e degli alunni attraverso i programmi scolastici.

È un discorso storico?Sì. Io non ho mai avuto particolare stima del Presidente, per intenderci, per cui non lo dico per questo. Non me lo aspettavo proprio un discorso del genere. Al-Sisi ha ammesso il legame tra i fenomeni del terrorismo e una lettura fondamentalista della religione: l’applicazione della Sharia in senso stretto. La Sharia è totalmente inadatta al mondo di oggi. È una questione ideologica, che si spiega così: visto che l’islam è l’ultima religione divina, e visto che il Corano è l’ultima rivelazione di Dio all’umanità, basta applicare il Corano alla lettera (aiutato dalla tradizione mohammadiana, cioè gli hadith e la sunnah), allora certamente avremo la migliore Costituzione possibile in questo mondo.

Avrà incidenza questo discorso?Al-Sisi non è un pensatore, ma ha un vantaggio riguardo a tutti i pensatori: è il Presidente e in Egitto è lo Stato che nomina il rettore e paga i professori. L’Università è un organismo di Stato. Quindi ha l’autorità per orientare Al-Azhar. Ma quello che può dare è solo il principio, perché non è un dotto. Come ha detto lui stesso: «Tocca a voi, imam, che siete qui, dare un’interpretazione rivoluzionaria. Non possiamo più continuare così». Sono certo che questo richiamo influirà sull’atteggiamento dell’Università, ma fino a che punto Al-Azhar sia capace di rinnovarsi è la grande domanda. Se riesce, sarà un grande successo: perché l’Egitto è il più popoloso Paese arabo, con 90 milioni di abitanti, e dunque 80 milioni di musulmani. L’importanza di Al-Azhar non può essere messa in dubbio, perché è frequentata ogni anno da decine di migliaia studenti (futuri imam) di tutto il mondo musulmano.

Il cardinale Tauran ha detto che «la religione non è parte del problema, ma la risposta». Può aiutarci a capire meglio questo? E qual è la nostra responsabilità?La riforma religiosa nell’islam è necessaria, è sentita da molti. Non da tutti, ma da molti. Ma non sono in grado di farla da soli, perché il peso della tradizione è troppo forte. L’islam è in crisi. La tendenza tradizionalista dice che la malattia viene dal contatto con l’Occidente che è cattivo e, quindi, la guarigione è tornare alle origini. Un atteggiamento che si capisce, perché tutte le religioni rispondono alla crisi tornando alle origini. Nel caso dell’islam, queste origini sono marcate dalla diffusione della guerra, perché questa è stata la strada di Maometto durante il secondo periodo della sua vita, dal 622 al 632. Quindi, il ritorno alle origini può essere inteso come un ritorno alla forza materiale e fisica: loro non hanno l’energia atomica, loro hanno la propria vita da dare: «Combattiamo con ciò che abbiamo». E ci riescono, visto che l’Isis è entrata in due Paesi facilmente e sta facendo 5mila volontari europei.

Quali sono le responsabilità dell’Occidente? La soluzione alla guarigione non è nelle mani dei musulmani. Perché quella che conoscono e che usano è sbagliata. Anche se fa chiasso, non riuscirà a cambiare né il mondo islamico né il mondo intero. La soluzione è al contrario: l’aiuto può venire solo da chi vuol bene all’islam e insieme sa discernere, criticare. È l’aiuto dei cristiani, di chi può dire: ti voglio bene, ma non si può fare qualunque cosa. Cristiani e musulmani possiamo riflettere insieme sulle origini della fede, nostra e loro. Per esempio: lo scopo dell’islam qual è? È politico? Allora non è una religione. È religioso? Ma in che senso? Insieme, possiamo riflettere. Noi possiamo dare l’aiuto della nostra esperienza: la Chiesa ha fatto guerre fino al 1500-1600, tra cattolici ed eretici, tra cattolici e protestanti... Da alcuni secoli, diciamo: questa non è la via. Allora lo diciamo a voi: noi abbiamo preso un’altra strada e, se volete, se la scegliete per voi, vi aiutiamo. Ma se risolvete i problemi con la violenza, sarete odiati da tutti. Noi non siamo certo “arrivati”, ma siamo in cammino. Ci vogliono secoli per compiere una riforma così profonda, ma si fanno dei passi. L’islam non ha ancora iniziato questo cammino.

Il nostro aiuto è essere cristiani fino in fondo? L’estromettere la religione dallo spazio pubblico contribuisce all’estremismo? Sì, il nostro compito è di essere cristiani autentici. Non è l’Occidente secolarizzato che può aiutare l’islam, perché è del tutto nemico dell’islam come del cristianesimo. Un’altra cosa è quella che Benedetto XVI chiamava la «laicità positiva», non il laicismo: ci sono delle cose che devono essere gestite dalla società civile, ma bisogna tenere conto della dimensione spirituale dell’uomo. È la “cultura dello scarto” di cui parla il Papa: vite (bambini, malati, anziani) di cui la tendenza secolarista si sbarazzerebbe. A conoscenza mia, gli unici che possono aiutare l’islam sono i cristiani autentici. Chi gli vuole bene ed è vicino a loro. Si tratta di entrare nella loro mentalità e fare la strada con loro, da amici, da fratelli. Noi cristiani non abbiamo nessun interesse a vedere l’islam affondare, perché vogliamo costruire insieme una civiltà degna dell’uomo e del credente, basata sulla fratellanza e la collaborazione, in particolare verso i più poveri, i più abbandonati dalla società.

È facile essere scettici sulla sproporzione tra questa strada del dialogo e la violenza...Innanzitutto, devo amare tutti. È un comando del Signore: fate del bene a chi vi fa del male. Non c’è amore più grande di questo. Sulla sproporzione, dico: l’urgenza di rispondere che fa? L’urgenza è una bomba? Abbiamo distrutto tanti Paesi, e questo non ha cambiato nulla in positivo. Loro stessi pensano che distruggendo un gruppo di Mosul, tutti si convertiranno. Ma non accade così. Soltanto rendi l’altro più duro. La guerra provoca la guerra: questo è un adagio dalla notte dei tempi. L’amore porta l’amore. Non è automatico, è un lavoro che prende tempo, ma si vede un cammino. Io sono stato educato nella scuola dei gesuiti al Cairo: all’epoca c’era il 30% di allievi musulmani. Oggi sono più del 50. Dopo 59 anni, poco tempo fa, ho ritrovato un compagno musulmano di allora. Mi ha invitato con due famiglie musulmane e parlavamo lo stesso discorso. Perché? Perché c’è un’amicizia che si è creata nella gioventù e che durerà tutta la vita. È lì la nostra vocazione di cristiani. L’evangelizzazione non è innanzitutto battezzare. Ma dare la vita del Vangelo, lo spirito del Vangelo.

Quanto conta l’integrazione? Il Papa dopo i fatti di Parigi ha ricordato: «Se siamo onesti nel presentare le nostre convinzioni, saremo in grado di vedere più chiaramente quanto abbiamo in comune. Nuove strade si apriranno per la mutua stima, cooperazione e anche amicizia». Integrazione è innanzitutto culturale ed educativa. Se l’emigrato, il musulmano, che vive in Europa, si sente inferiore, cresce in lui la rabbia, si isola. Tutti i volontari per l’Isis sono gente male integrata. Non seguono magari un imam, ma su internet diventano fanatici. Non hanno trovato un posto nel mondo. Il cammino non è facile, ma il cammino è solo questo: che uno si senta ben accolto e ricevuto. Se vedono che li aiutiamo a vivere, ad istruirsi, a trovare lavoro, a fare una famiglia, allora dicono: siete nostri fratelli. È l’atteggiamento che vediamo oggi da papa Francesco. E lui non rinuncia a nulla.

Spieghi meglio...Non rinuncia a nulla della fede cristiana e delle proprie convinzioni. Non dice: facciamo compromessi. Dice: dobbiamo vedere cosa c’è di diverso e cosa ci unisce. Quando ha invitato palestinesi e israeliani nel giardino vaticano, le due parti hanno accettato. Si dirà: cosa è cambiato? Non è un miracolo, ma mostra che è possibile stare insieme. Si vede che è possibile parlare insieme, addirittura pregare insieme! È possibile trovare insieme una strada. E così si fa, si comincia con chi è disponibile al dialogo e alla collaborazione, e poi si allarga la cerchia. La strada è questa. Non ce n’è un’altra. È un’amicizia esigente. Perché sui diritti umani non si può cedere, sull’uguaglianza non si può cedere, sull’uomo non si può cedere. Ma su tante altre cose, si può trovare una strada comune. L’essenziale sta in questo: insieme. Dobbiamo vivere insieme e camminare insieme, per creare una civiltà più umana, più fraterna, più aperta ai più deboli. E questo è possibile per chi crede, e più ancora per chi crede nell’amore, perché Dio è Amore.