ITALIA – ASIA
A proposito di profughi e accoglienza: quando l’Italia accoglieva i boat people
di Piero Gheddo
Dopo
l'appello di papa Francesco a favore dell'apertura delle porte a chi
fugge da fame, guerra e persecuzione, un articolo di p. Gheddo ricorda
quando il nostro Paese divenne la prima linea dell'accoglienza dei
vietnamiti e dei cambogiani. In fuga da Ho Chi Minh e Pol Pot. La
testimonianza evangelica smuove anche la società civile, e tocca persino
le altre religioni.
Milano
(AsiaNews) – Negli anni 1975-1980 il Centro missionario Pime di Milano
(diretto da padre Giacomo Girardi) e la rivista “Mondo e Missione” (ne
ero il direttore), con il Centro missionario diocesano e la Caritas
ambrosiana, iniziarono una campagna per i “boat people” vietnamiti e
cambogiani (1975-1978) che ebbe un successo insperato. Il 12 gennaio
1978, al termine della campagna, nasce nel Centro missionario Pime di
Milano la “Segreteria profughi Vietnam-Cambogia”, con un lavoro a tempo
pieno di 18 universitari volontari di vari movimenti: Focsiv, Mani Tese,
Agesci, Cl, Gen-Focolari.
A giugno 1978, specialmente la Caritas Ambrosiana e quella nazionale
avevano raggiunto un numero sufficiente di richieste di adozioni. Da
gennaio a giugno più di 200 conferenze sui profughi, dibattiti, veglie
di preghiera in tutta Italia. I boat people erano un fatto nazionale da
prima pagina su tutti i giornali.
Il 22 giugno 1979, il Primo ministro Giulio Andreotti invita a
Palazzo Chigi padre Girardi e il sottoscritto per ringraziarci: “Avete
fatto una campagna coraggiosa, provvidenziale e vittoriosa”, perché
negli anni 1975-1980, proclamare che i due popoli fuggivano da Vietnam e
Cambogia dopo la “liberazione” portata dai Vietcong e dai Khmer rossi,
voleva dire essere bollati, come minimo, da provocatori “finanziati
dalla Cia”. Andreotti manda tre navi della Marina militare che portano
in Italia 3.500 profughi.
La Caritas italiana, nata nel 1973 dalla CEI, nel 1977-1978 comincia
ad essere internazionale e mons. Giovanni Nervo mi chiama a far parte
del Comitato direttivo. Per la Caritas sono stato in Thailandia,
Eritrea, Pakistan-Afghanistan e ho accompagnato il Presidente,
l’arcivescovo di Taranto mons. Motolese (allora parlavo bene inglese), a
visitare alcuni campi al confine con Laos e Cambogia.
Con mons. Motolese in missione ufficiale della Chiesa italiana,
l’elicottero dell’ONU ci porta in alcuni dei 14 campi profughi, campi
immensi, dove decine di migliaia di persone erano fuggite come oggi
fuggono dal Nord Africa verso l’Italia. Vivevano sotto tende della Croce
Rossa o dell’Onu, circondati dal filo spinato e dai militari
thailandesi. Ricordo come un incubo il campo di Kao I Dang con 130mila
profughi nel fango in attesa di cibo e acqua!
Il popolo thailandese non li voleva, i “pirati” in mare li
rapinavano, i pescatori li respingevano in mare. Anche l’esercito, la
polizia e la guardia nazionale spingevano i profughi verso il confine
con Laos e Cambogia, tenendoli nel fango perché non fuggissero e
lasciandoli indifesi quando i Khmer Rossi entravano nei campi con le
loro incursioni ed esecuzioni. Erano gli anni dei boat people, che provocavano e dividevano gli italiani.
La piccola Chiesa thailandese si era mossa subito per accogliere i
profughi e la CEI aveva sostenuto la campagna per accoglierli in Italia.
La Caritas italiana, mobilitando il volontariato cattolico istituiva
fra i profughi dei dispensari medici, tenuti da suore e volontari
italiani. La mia segretaria, suor Franca Nava, delle Missionarie
dell’Immacolata (le suore del Pime), infermiera caposala specializzata
in ginecologia e nella cura dei bambini e dei lebbrosi (con missioni in
Bangladesh e India), era in Thailandia per due mesi di “vacanza estiva”
(per due anni) in un dispensario della Caritas Italiana nel campo
profughi di Mairut.
Lavoravano tanto per le molte emergenze, mangiavano solo pesci e riso
bollito con salsa piccante, ma non si sono mai ammalate; i pochi
cattolici della Thailandia visitavano i profughi, portavano aiuti, i
vescovi chiedevano al governo di accoglierli.
Nell’estate 1978 il Re Bhumibol Adulyadej, considerato il dio della
nazione, simbolo dell’identità culturale e del buddismo, parla in Tv e
dice: “Dobbiamo accogliere i nostri fratelli cambogiani e vietnamiti,
come fanno i cristiani, che ci danno un grande esempio. Sono nostri
fratelli e sorelle dobbiamo accoglierli, non respingerli in mare, non
rapinarli. Se voi respingete questi profughi, li derubate o li
ricacciate in mare mandandoli a morte sicura non siete dei buoni
thailandesi.”.
Tornato in Thailandia alcuni anni dopo, i missionari italiani mi
dicevano che il discorso del Re, ripreso dai giornali e amplificato in
prima pagina, aveva convinto i thailandesi a formare Associazioni di
volontariato per aiutare i profughi, non solo da Laos e Vietnam ma anche
da Myanmar, altro stato che perseguita i tribali animisti e cristiani.
Tra i buddisti thailandesi ci sono pochissime conversioni ma la gente
inizia a cambiare atteggiamento: si diffondono i valori del Vangelo,
pace, giustizia, fraternità, condivisione, dialogo e tutti sanno che
sono valori evangelici. Anche l’esercito, la polizia e la guardia
nazionale hanno seguito l’esempio dei cristiani, cominciando a difendere
i profughi dalle incursioni dei Khmer Rossi di Pol Pot.