domenica 11 dicembre 2016

Ucraina, un cuore più grande della guerra

Viaggio in Ucraina - 3. Un cuore più grande della guerra (www.tracce.it)

L’amicizia con degli italiani ha dato il via a una rete di consulenze e collaborazioni prima inimmaginabili. L’esperienza dell’ex «nemico di guerra» don Carlo Gnocchi sostiene i volontari di oggi. Bellezza e speranza procedono insieme.
Da cosa nasce cosa: il contatto con i bambini colpiti dalla guerra nel Donbass ha richiamato alla mente di qualcuno il precedente italiano dei «mutilatini» raccolti da don Carlo Gnocchi. Cappellano degli alpini nella campagna di Russia, don Carlo era infatti tornato dal fronte con la ferma decisione di curare le piaghe della guerra, e aveva iniziato raccogliendo i piccoli mutilati e orfani di guerra.
E in Ucraina è iniziata una nuova, magnifica impresa al tempo stesso assistenziale e culturale. Assistenziale perché è stato naturale rivolgersi alla Fondazione don Gnocchi come massima specialista nel recupero degli handicap fisici, per avere consigli e istruzioni; ma anche culturale perché la figura del beato Carlo Gnocchi ha un valore unico nella comprensione e nell’accoglienza del «dolore innocente». Questa è stata la chiave veramente vincente dell’operazione.

È nata innanzitutto l’idea di tradurre in russo il libro di don Gnocchi Pedagogia del dolore innocente, che appena presentato a Kiev, poi a Charkiv, ha attirato l’attenzione di molti ed ora incomincia a circolare anche in Russia. Nel sessantesimo della sua morte don Gnocchi è tornato così in Ucraina, dove era venuto al seguito dell’esercito italiano, e dove aveva sofferto assieme ai suoi alpini; ed è davvero incredibile, paradossale, che la figura di un «invasore» sia accolta oggi con tanto affetto e interesse per le parole di perdono e di pace che ci ha lasciato, su come si possa vivere la guerra ed uscirne senza odiare. Di questo gli ucraini riconoscono di avere un bisogno estremo.

Così il beato cattolico che è ancora oggi sconosciuto a molti cattolici europei (come abbiamo scoperto durante il convegno di Kiev), è diventato un nuovo padre per la città di Charkiv, che ne ha accolto a braccia aperte le reliquie, donate dalla Fondazione di Milano. In questa città difficile, di confine, non lontana dai teatri di guerra della Campagna di Russia e dal fronte attuale del Donbass, le sue reliquie sono ora esposte nella cattedrale cattolica, grazie al grande cuore del vescovo Stanislav Širokoradjuk che le ha accolte dalle mani di don Maurizio Rivolta, rettore del Santuario del beato don Gnocchi. Ma la cosa davvero sorprendente è che alla cerimonia in cattedrale erano presenti forse più ortodossi che cattolici. In tanti sono venuti, anche da lontano, persino dalla Russia, attirati da un evento che appariva allo stesso tempo festoso, inedito e profondo, come testimonia Svetlana Mart’janova nel suo articolo]. Un evento per sua natura unitario, un punto di partenza per tutta la città e non solo, «per tutta la terra nostra» come dice un vecchio proverbio russo.


Kostantin Sigov.


Infatti l’insediamento della reliquia di quello che è stato già battezzato il «beato per l’Ucraina», capostipite di uno stile del tutto nuovo nel campo della riabilitazione, ha fatto da incipit a una serie di eventi straordinari, attorno ai quali si sono coagulate le forze più creative della città di Charkiv. Lo hanno chiamato Festival «Il cuore è più grande della guerra», ed è stato pensato dagli amici di «Emmaus»: «I drammi e le tragedie della guerra – ha spiegato Aleksandr Filonenko – aprono la via alle profondità del cuore umano. Questo è quel che aveva capito don Carlo Gnocchi, ed è quello che scopriamo anche noi. Che il “cuore è più grande della guerra” è qualcosa di cui non occorre convincere gli ucraini, loro lo hanno già intuito. Abbiamo imparato che aiutare è importante e necessario, adesso però dobbiamo imparare a farlo nel modo giusto. E in questo ci servirà molto l’esperienza dei nostri partner italiani».

Aperto con un concerto di beneficenza di canti alpini, applauditissimi, del coro italiano CET (Canto e Tradizione), il Festival, intitolato «Riabilitazione fisica e sociale. Sfide attuali», ha svolto un programma di incontri tecnico-scientifici per operatori del settore riabilitativo. Proprio nel preparare gli stage sono avvenuti degli incontri ricchissimi con dottori, o specialisti ucraini che nel loro campo già avevano iniziato a cambiare il vecchio stile sovietico nella sanità, a guardare le singole persone non come un problema da eliminare ma come una sfida alla quale rispondere.

Uno di questi medici è Roman Marabjan, primario del centro pediatrico «Casa del bambino» di Charkiv, molto famoso in città perché con i suoi sforzi personali ha trasformato un orfanotrofio-cronicario per bambini con gravi handicap rifiutati dalle famiglie, in un centro di accoglienza che è anche punto di informazione e di sostegno per i genitori, che vengono istruiti e incoraggiati a riprendersi i propri figli in casa. Un capovolgimento radicale di prospettiva, che scalza la vecchia mentalità ereditata dal periodo sovietico, quando lo Stato imponeva ai cittadini di disfarsi delle persone disabili, che venivano isolate per sempre in istituti chiusi. Anche questa è una rivoluzione della solidarietà, da accostare ad altri piccoli miracoli compiuti da organizzazioni civiche per il recupero e la riabilitazione nate in modo autonomo, come il centro «Il cuore del soldato», che si occupa dei reduci dal fronte e delle loro famiglie, che lo Stato abbandona a se stessi e la società civile lascia soli. L’incontro tra questi volontari e gli specialisti venuti dall’Italia ha aperto molte nuove prospettive e incoraggiato tutti.

Senza dimenticare che tutte le giornate di lavoro a Charkiv sono state abbellite dalla presenza del coro CET che, oltre ai concerti ufficiali in programma, ha riempito di canti le piazze, l’albergo, ristoranti e bar; il coro ha fatto un piccolo concerto improvvisato anche all’Ospedale regionale per invalidi di guerra, dove si curano le ferite e gli stress post traumatici, e dove dall’inizio dell’anno sono stati trattati 3500 pazienti. Il pubblico ucraino si è commosso, anche senza capire bene le parole, perché ha colto intuitivamente il messaggio di quei canti popolari nati dalla guerra: «I nostri canti sono sulla guerra ma non la esaltano; parlano invece delle sofferenze che la guerra porta. Della paura che si infiltra nel cuore dell’uomo, ma il cuore è più grande della guerra. Con le nostre canzoni vogliamo dire agli ucraini che la guerra non è mai la fine di tutto. Qualsiasi guerra» ha detto il direttore Francesco Morabito. E Carlo Luisi ha aggiunto: «Questi canti parlano di amore, di nostalgia di casa, della mamma, di cose bellissime. Sono canzoni di speranza. Per questo oggi cantiamo questi canti ai reduci, perché si ricordino che nella bellezza c’è sempre la speranza».



I commenti da parte degli ucraini mostrano che il senso profondo di quelle giornate è stato colto in pieno. Qualcuno ha detto che incontri di questo tipo sono di per sé una riabilitazione del cuore: «Qui la poesia soccorre l’opera delle strutture mediche. Se non fosse così, come temeva don Carlo Gnocchi, al posto della poesia subentrerebbe la burocrazia…». Qualcun altro ha visto avverarsi nell’incontro fra uomini vivi «la nascita di un nuovo corpo immenso, che respira e sente».

Insomma, ha concluso Filonenko, «oggi per l’Ucraina il problema principale è come trasformare l’esperienza del conflitto armato in opere di misericordia», ma il «miracolo condiviso» di tutte queste iniziative e incontri sembra già una chiara risposta. È evidente che per gli ortodossi e i cattolici coinvolti in questa storia la fede è sempre in cammino, sempre aperta allo stupore, cerca sempre l’essenziale senza gelosie o complessi d’inferiorità. Ed è chiaro che in questo cammino vengono superate le vecchie inimicizie, i vecchi sospetti e diffidenze, così come vengono superate tante nuove posizioni conservatrici che non si lasciano toccare da nulla e non vorrebbero fare i conti con nulla, perché credono che tutto sarebbe già avvenuto prima e fuori di noi.

Babij Jar
L’aria che si respira oggi in Ucraina favorisce la possibilità di cambiamenti, anche di mentalità. Nel paese oggi c’è spazio per evoluzioni insperate. Nei giorni stessi in cui si svolgeva il Convegno «Fiducia, dignità, misericordia», a Kiev si è celebrato un anniversario molto doloroso: il 75° della strage di Babij Jar, uno dei momenti più tragici dell’olocausto ucraino.
Il 29 settembre del 1941 gli occupanti tedeschi, coadiuvati da collaborazionisti ucraini, fucilarono in un burrone appena fuori città oltre 30.000 persone, tra cui zingari, malati mentali e quasi tutta la popolazione ebraica della capitale; nei mesi successivi vi fu poi un vero e proprio stillicidio di massacri «minori» che portarono il numero delle vittime oggi sepolte a Babij Jar ad una cifra che varia tra le 100.000 e le 150.000 persone. È una di quelle corresponsabilità sanguinose cui una nazione non guarda in faccia volentieri, e di cui non desidera fare atto di pentimento. L’antisemitismo in Ucraina ha mietuto le sue vittime sin dai tempi dei pogrom antiebraici nell’impero russo (il primo, a Odessa, data al 1821) e poi delle famigerate «Centurie nere» nel XX secolo.



A partire dal Majdan un luogo comune della propaganda russa è stato l’antisemitismo della destra nazionalista ucraina; si dipingeva un paese in balia di squadracce armate che sgozzavano gli ebrei; ancora oggi torna come un ritornello l’espressione «governo fascista di Kiev»: questa serie di falsità, comprovate dal semplice fatto che gli ebrei erano presenti e attivi sul Majdan accanto a tutti gli altri e che gli ebrei sono presenti e attivi nel governo e ovunque, ha tuttavia buon gioco perché pesca da episodi reali del passato.

Perciò non è così scontato né formale che il governo ucraino, già oberato da ogni sorta di problemi, abbia voluto patrocinare un’intera settimana di eventi per commemorare l’anniversario dell’olocausto ucraino. E commemorarlo non solo come un fatto storico relegato in tempi lontani, ma anche come un tema di riflessione nazionale per il momento corrente. In questo senso l’Ucraina ha fatto dei passi coraggiosi per guarire le piaghe della memoria, più di altri paesi liberati dopo la caduta del Muro di Berlino, basti ricordare le leggi per la decomunistizzazione e l’apertura degli archivi. Questi sono elementi, sia pur parziali, di democrazia autentica, capaci da soli di mettere in moto una dinamica virtuosa e inedita. Non a caso, uno dei massimi esperti mondiali di storia ucraina, il professor Paul Magocsi, dell’Università di Toronto, ha detto che «è un segno di sensibilità e anche di crescita che un paese assillato da gravissimi problemi sappia allo stesso tempo riflettere sul suo passato storico, e sulla necessità di rendere giustizia a tutti i suoi cittadini, passati e presenti».

Le iniziative, animate dal governo assieme all’associazione «Ukrainian Jewish Encounter» e al «World Jewish Congress», si sono articolate in diversi momenti, tra cui un convegno per i giovani, e un simposio storico con nomi di prestigio come Norman Naimark, Timothy Snyder, Karel Berkhoff. La cerimonia centrale si è svolta sul luogo stesso di Babij Jar, il 30 settembre, alla presenza, tra gli altri, del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Anche alla Rada c’è stato un momento di commemorazione, alla presenza del presidente Porošenko e con un discorso del presidente d’Israele, mentre delle salve di cannone risuonavano a Kiev. Ma gli applausi più scroscianti sono andati a Ivan Dzjuba, un vecchio dissidente (nato nel 1931) originario della regione di Doneck. Fu lui, assieme a Viktor Nekrasov e alcuni dissidenti ebrei, ad organizzare le prime commemorazioni clandestine sul luogo dell’eccidio, quando ancora le autorità sovietiche non volevano parlare di «olocausto» e avevano scritto sul piedistallo del monumento: «Qui giacciono 100.000 cittadini sovietici».
Il senso che si trae della commemorazione è che bisogna abbandonare censure e miti, e guardare in faccia la realtà, che piaccia o non piaccia, come si deduce dalle parole di Timothy Snyder, lo storico americano: «In una società civile ci sono sempre persone che riconsiderano la storia, giacché una vera società civile cerca sempre la verità sul passato. Questo è importante per l’Ucraina attuale. La commemorazione di Babij Jar è la prova che la società civile funziona. La critica e l’analisi profonda della storia sono un modo ben più proficuo di creare una nazione che l’invenzione di miti».

Per concludere
La conclusione in realtà apre il discorso: l’Ucraina, paese in guerra, sommerso dai profughi, povero, appesantito da una corruzione diffusa, presenta dei luoghi, degli eventi, delle persone che introducono una novità, un fermento nel corpo sociale. Sono realtà piccole, che non saranno immediatamente risolutive dei problemi generali, ma che aprono spazi di dialogo reale, di lavoro autentico, quello capace di cambiare le mentalità e i processi sociali. Nelle esperienze di solidarietà che abbiamo visto sussiste il senso di una ritrovata unità, l’esperienza sporadica però attraente di un tessuto sociale che si rinsalda.

Sono interessanti, a questo proposito, le osservazioni di Hélène Roudier de Lara, una docente di filosofia, ebrea francese che si è coinvolta attivamente nell’opera dei «Figli della speranza»: «Quest’opera ha molte facce: materiale, educativa, morale e spirituale. Numerosi amici dell’associazione appartenenti a varie confessioni (ma anche liberi pensatori) contribuiscono ciascuno a modo suo, secondo le sue possibilità. Ma tutti sono importanti alla stessa maniera. Sono “figli della speranza” perché promettono all’Ucraina un avvenire di pace e di solidarietà. …Quando me ne vado porto con me dei tesori che non posso far altro che condividere. Mi sembra che sia un diverso modo di onorare i poveri morti di Babij Jar senza essere là. A cosa serve la memoria del passato (che pure non mi abbandona mai) senza un’azione nel presente? Parlando a braccio alle famiglie ucraine ho detto che l’infinito dell’amore soccorre la finitezza dei beni materiali. Queste cose non hanno prezzo, sono troppo uniche e preziose».
Lo storico Simone Bellezza, che abbiamo già citato, diceva che: «Il sogno [del Majdan] era mettere fine allo strapotere degli oligarchi per creare un paese più giusto economicamente e socialmente»[1] . Forse questo sogno è ancora ben lontano dall’essersi realizzato, ma a dispetto della delusione politica, lo scampolo di vita che abbiamo visto con i nostri occhi corregge l’immagine plumbea di molte analisi geopolitiche ufficiali.
Se, davvero, finché c’è solidarietà c’è vita, la partita è aperta.


NOTA
[1] S.A. Bellezza, Ucraina. Insorgere per la democrazia, Ed. la scuola, Brescia 2014, p. 69.

(3 - fine)

parte prima
parte seconda

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