martedì 19 dicembre 2017

C.Mesònat: Convegno a Lugano sul pensiero di Mons. Giussani

"Cristo ci è contemporaneo"

18.12.2017 - aggiornato: 18.12.2017 - 13:08
Convegno a Lugano sul pensiero teologico e l’apertura ecumenica di mons. Giussani, fondatore di CL. Un momento d'incontro tra studiosi di tutta Europa.
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© FOTO CHIARA ZOCCHETTI
di Claudio Mésoniat

Da dove partire per rendere al lettore un’idea di questi tre giorni di immersione esplorativa nel carisma, ovvero nel grande dono ricevuto da don Luigi Giussani, inquadrato dal punto di vista della scienza teologica? Un viaggio che, partito speleologicamente dai recessi profondi dei suoi studi e dei suoi incontri, è poi emerso a contemplare, in un panorama mondiale a 360 gradi, le vette culturali ed ecumeniche apparse negli ultimi tempi all’orizzonte di quel “movimento” (CL) che Giussani non si era mai sognato di costituire ma che gli è sorto attorno imprevedibilmente.
A cosa serve un carisma
Proviamo a partire dal fatto stesso che un carisma –se viene per davvero da “Colui che muove il sole e l’altre stelle”- è sempre dato per un bisogno che nel momento storico la Chiesa e il mondo stanno sperimentando. Concludendo il convegno luganese, Julian Carrón, successore di Giussani alla guida di CL, ha indicato l’utilità del carisma giussaniano nella necessità che la Chiesa e il mondo avevano, e hanno, di risvegliarsi dal grande sogno illuminista, per comprendere che il cristianesimo è l’avvenimento di un incontro che accade, giorno per giorno, non una bellissima teoria, non un pacchetto ben congeniato di dogmi, riti e valori morali e sociali (per usare parole che Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco si sono trasmesse l’un con l’altro). Quel nobile sogno kantiano, ossia rifondare la civiltà europea (pericolante proprio per le “guerre di religione” tra cattolici e protestanti) staccando dalla loro origine, Cristo, i valori scaturiti dal cristianesimo, è fallito, lasciando macerie umane oggi vistose; ma Giussani l’aveva intuito profeticamente negli anni ’50, pur essendo cresciuto in una Chiesa milanese che allora vantava parrocchie piene zeppe la domenica e associazioni e oratòri ben frequentati. È stata la professoressa di storia Maria Bocci, milanese, a documentare introducendo il convegno che don Giussani ereditò tante ricchezze dal cattolicesimo ambrosiano, ma scoprì che dietro quella facciata ancora gloriosa c’era il vuoto. Lo capì semplicemente incontrando i giovani in gran parte cattolici di allora, magari durante un viaggio in treno, discutendo con loro e constatando che, se a Messa ci andavano tutti per inerzia, con la loro vita, con i problemi reali della loro vita (affettivi, famigliari, di studio), la fede non c’entrava proprio nulla (era, se mai, un peso aggiuntivo). Per quel prete appena trentenne, che sin da ragazzo –confidò poi- piangeva solo «per l’infelicità dei miei fratelli uomini» che «non conoscono la fonte della felicità, Dio fattosi uomo», questa situazione era insopportabile.


E la teolgia?
Il dono ricevuto da don Giussani, per tutti i suoi “fratelli uomini”, è stato anche, eminentemente, teologico. Se la teologia è riflessione critica e sistematica sull’esperienza della fede, la teologia di cui c’era e c’è bisogno non può essere quella da tempo dominante nelle facoltà teologiche cristiane: una teologia “a tavolino”, bersaglio continuo delle bordate di papa Bergoglio (tra l’altro gran lettore di Giussani); non c’è bisogno di scuole che gareggiano nel rivendicarsi più kantiane di Kant. C’è bisogno di una teologia che usi tutti gli strumenti scientifici adeguati per comprendere in profondità una fede vissuta da cristiani immersi “nella mischia”, nella vita e nei drammi degli uomini di oggi. Ecco l’intuizione geniale del professor René Roux, che per la prima volta in Europa ha aperto le porte di una facoltà teologica allo studio del percorso teologico di Luigi Giussani. Roux è rettore della Facoltà luganese, nata 25 anni fa da un vescovo e teologo come Eugenio Corecco, amico e grande estimatore di Giussani (sui loro rapporti ha parlato a Lugano la dottoressa Antonietta Moretti).
Affinità svizzere
Anche uno dei grandi teologi del XX secolo, lo svizzero Hans Urs von Balthasar, fu amico di Giussani, che dopo un primo incontro nel 1971 ad Einsiedeln non cessò mai di studiare, tradurre e pubblicare in lingua tedesca, commentandone con entusiasmo le intuizioni teologiche e l’efficacia educativa anche nei suoi volumi fondamentali. Balthasar, come Ratzinger, riteneva che il movimento nato attorno a don Giussani realizzasse autenticamente le intuizioni del Vaticano II, che pure aveva anticipato di alcuni anni. Il nesso tra i due è stato illuminato al convegno da uno dei professori della Facoltà luganese, André-Marie Jerumanis. Se su un altro grande ispiratore del Concilio, Henri de Lubac, è stato il teologo gesuita Jacques Servais a rievocare la profonda sintonia “a distanza” con Giussani (non si conobbero personalmente), è toccato ad Alberto Savorana, autore della più completa biografia esistente su don Giussani, ricostruire in modo appassionante i suoi rapporti di vera amicizia “teologica” con due Papi del calibro di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Il giovane laureato Giussani, ha raccontato il suo successore alla Cattolica, il prof. Stefano Alberto, era destinato a una carriera accademica già segnata e fortemente caldeggiata dai suoi maestri della scuola teologica di Venegono (tra i quali Carlo e Giovanni Colombo, divenuti poi entrambi cardinali e molto vicini a Paolo VI).
«La storia per me è tutto»
Ma la lealtà con la sua storia, segnata dagli incontri con quei ragazzi liceali milanesi, lo convinse ad abbandonare quel percorso per andare a insegnare religione nei licei di Milano. «La storia per me è tutto» disse in età matura: ed egli seguì sempre con obbedienza le indicazioni che emergevano dalla storia dei suoi incontri («con quale incredibile umiltà», ha rilevato René Roux). Giussani fu poi invitato negli anni ’60 a insegnare, come accennato, all’Università cattolica di Milano.
Ai colloqui luganesi hanno dato un apporto di notevole interesse anche due docenti di filosofia nelle università di Roma e Perugia. Onorato Grassi ha scandagliato “la lettura delle opere di Newman nel pensiero di Luigi Giussani”, attingendo anche a materiale archivistico di prima mano (tra cui alcuni volumi appartenuti allo stesso Giussani, sulla vasta e significativa biblioteca personale del quale ha offerto un primo panorama lo storico Edoardo Bressan, dell’università di Macerata). Non possiamo addentrarci in questo contributo come neppure in quello di Massimo Borghesi, che ha preso in esame un altro autore anglosassone studiatissimo da Giussani, Reinhold Niebuhr, sul quale il sacerdote milanese svolse il suo dottorato in teologia (1954), approfondendolo in seguito, negli anni ’60, durante alcuni mesi di studio negli Stati Uniti. È significativo l’interesse giussaniano per il protestantesimo americano dell’epoca. Nella temperie del 68 egli trae spunto dal dibattito interno alla teologia protestante per chiarirsi come il pessimismo biblico sulla natura umana contrasti ogni utopismo ideologico ma non annulli affatto e renda anzi più libero e robusto l’impegno cristiano per la giustizia sociale.
Leopardi e il senso religioso
Niebuhr è anche l’autore da cui Giussani trasse una delle frasi che andò ripetendo lungo tutta la vita per significare l’irrilevanza della proposta cristiana per l’uomo contemporaneo: «Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone». Il cristianesimo è risposta, ripeteva sempre il grande educatore milanese, alla domanda di senso, di compimento di sé, di felicità che costituisce la stoffa ultima del cuore umano. Se la domanda è rimossa, censurata o marginalizzata e persino derisa dalla cultura dominante, quando non semplicemente soffocata dal “borghesismo” diffuso, come potrà risuonare pertinente quell’annuncio cristiano che non è altro che risposta, divina ma presente tra gli uomini, al desiderio ultimo del cuore da parte di Chi quel cuore ha creato? Giussani fu calamitato da questi interrogativi durante tutta la vita, per un semplice motivo: aveva sperimentato la drammaticità del suo “senso religioso” (così chiamò quella domanda ultima di felicità) negli anni decisivi della sua vita, quelli di ragazzo tra i 13 e i 16 anni, in seminario. Quando si immedesimò fino al midollo con un poeta, Leopardi, che di quella domanda (in lui irrisolta) ci ha donato l’incarnazione artistica forse più alta di sempre. Pertinente dunque l’invito al convegno di un relatore come Giulio Maspero (dell’Università della Santa Croce di Roma), che ha riletto le vibranti lezioni di don Giussani su alcuni grandi poeti, da Leopardi a Pascoli, a Montale, a Rebora e Ada Negri. È stato poi Julian Carrón a compiere il percorso. Fu ascoltando a 16 anni un docente di seminario, il prof. Gaetano Corti, che il giovane seminarista di Desio fu messo di fronte al dato straordinario ma storico che apre il Vangelo di Giovanni: la Parola, ovvero la verità, la felicità, la bellezza che Leopardi agognava, si è incarnata: è un uomo, Gesù. Ma Cristo non è ricordo di un passato di 2000 anni fa, continua a riaccadere dentro l’umanità delle persone che afferra e chiama a sé, i cristiani. Con una proposta lasciata alla libertà assoluta di chi li incontra: verificare se seguendo Lui la vita si fa realmente più umana.
Giussani e l’Ortodossia
Infine la “notizia” ecumenica che è risuonata nell’Aula magna dell’USI durante il convegno, per bocca del teologo ortodosso ucraino Aleksandr Filonenko: ci sono cristiani ortodossi (russi, ucraini, bielorussi) che vivono pienamente il carisma di don Giussani, aiutati in esso a riscoprire la loro stessa fede di ortodossi. In qualche modo, la splendida relazione del prof. Francesco Braschi di Milano sul senso della liturgia in Giussani ha reso più facile comprendere questo straordinario passo ecumenico.