Spaemann: «O Dio è, o l’uomo è illusione»
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INEDITI
Signori e signore, cari
amici: o Dio c’è oppure l’autocomprensione dell’uomo in quanto essere
di ragione, vale a dire in quanto persona, è un’illusione. Il
razionalismo dell’Illuminismo da lungo tempo si è abbandonato alla
fede nella impotenza della ragione umana, alla fede nel fatto che noi
non siamo ciò che pensiamo di essere: esseri liberi, autodeterminati. La
fede cristiana non ha mai considerato l’uomo tanto libero come ha
fatto l’idealismo, ma nemmeno lo considera così privo di libertà come fa
oggi invece lo scientismo. Ragione, ratio, significa tanto ragione quanto fondamento.
La visione scientista del mondo considera il mondo e dunque anche se
stessa come priva di un fondamento. La fede in Dio è la fede in un
fondamento del mondo, che lui stesso non è senza fondamento, dunque
irrazionale, ma 'luce', trasparente a se stessa e così suo proprio
fondamento. La prima domanda che vorrei discutere è: che cosa crede
colui che crede in Dio? Egli crede in una fondamentale razionalità
della realtà. Egli crede che il bene sia più fondamentale del male.
Egli crede che ciò che è inferiore debba essere compreso a partire da
ciò che è superiore e non viceversa. Egli crede che il non senso
presupponga il senso e che il senso non sia una variante dell’assurdo.
Questo però significa che, contrariamente a quanto afferma David Hume,
secondo il quale ' we never really advance a step beyond ourselves',
colui che crede in Dio crede che nell’incontro con gli altri noi
abbiamo a che fare con la realtà. Non possiamo amare un uomo senza
credere che l’altro è reale. Nel concetto di 'Dio' noi pensiamo l’unità
di due predicati, che nel nostro mondo esperienziale solo qualche
volta e mai in modo necessario risultano connessi l’uno all’altro:
l’unità dei predicati 'potente' e 'buono', l’identità del potere
assoluto e del bene assoluto, l’unità di essere e senso. Questa unità
non è per noi una verità analitica. Essa non si comprende da se stessa
[...].
Il fedele
accoglie tutto ciò che accade e che non è in grado di modificare,
dalle mani di Dio e si disputa anche con Dio. Giobbe accusa Dio per le
disgrazie piovute su di lui. I suoi amici lo vogliono convincere del
fatto che Dio è giusto, fanno una giustificazione di Dio, una teodicea.
Dio è giusto e Giobbe deve ricercare in se stesso la causa delle
proprie disgrazie. Giobbe non comprende questo e Dio rimprovera alla
fine i suoi amici: la loro difesa di Dio è meno devota del lamento
di Giobbe. Delle intenzioni di Dio essi comprendono assai poco come
Giobbe. Dio allora riduce al silenzio Giobbe non quando egli si difende,
ma dicendogli: «Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra?
Dillo, se hai tanta intelligenza. Il censore vorrà ancora contendere con
l’Onnipotente? Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con
voce pari alla sua?». Questo illumina Giobbe, il quale risponde: «Ho
esposto senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non
comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti
vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e
cenere». La sottomissione incondizionata alla volontà di Dio, che si
rivela in ciò che accade e in ciò che noi non possiamo modificare, è l’atteggiamento fondamentale di tutti coloro che credono in Dio.
Ma che cosa significa sottomissione a ciò che noi non possiamo
modificare? Non è forse più dignitoso almeno rifiutarci di accettarlo?
Ma a chi interessa questo, se Dio non esiste, se il destino è cieco
e l’universo indifferente all’accettazione così come al rifiuto o
addirittura alla protesta? Quando Giobbe protesta davanti a Dio,
questo accade perché egli pensa a Dio come ad un essere a cui
appartiene il fatto di essere buono. Nella protesta si trova ancora il
riconoscimento di Colui al quale noi rivolgiamo la protesta. Se noi lo considerassimo indifferente al dolore del mondo, non avrebbe alcun senso protestare [...].
Il discorso sulla bontà di Dio, su Dio che è amore, smarrisce il suo
punto sconvolgente, se passa sotto silenzio chi è colui di cui si dice
che Egli è amore, se cioè passa sotto silenzio che Egli è la Potenza
che guida la nostra esistenza e il mondo, che muove il sole e le altre
stelle. Soltanto tale Potenza, infatti, può salvarci dalla morte.
L’idea di un amore assoluto, infinito, resta un’idea regolativa, se in
essa non viene pensata l’unità di due assolutezze, quella del
fattuale, del destino, e quella del bene [...].
Se io dico che è ragionevole credere a questa unità, è perché noi non
possiamo pensare a nessuno di questi due assoluti in modo conseguente
fino alla fine senza pensare contemporaneamente ogni volta all’altro.
La potenza assoluta, l’essenza di ciò che è, non sarebbe questa
essenza, non sarebbe l’Assoluto, se avesse di fronte a sé sempre un
occhio silenzioso, che inesorabilmente la giudica. Se il bene non
appartenesse all’essere, l’essere non sarebbe tutto, non sarebbe cioè
la totalità. L’occhio che inesorabilmente dirige e che è allo stesso
tempo inesorabilmente buono appartiene esso stesso all’essere,
altrimenti l’essere non sarebbe tutto. Ma vale anche il contrario: se
il bene fosse impotenza, allora non sarebbe il bene tout court. Poiché
l’impotenza del bene non è bene. La fede nella potenza del bene è ciò
che ci consente di abbandonarci attivamente alla realtà, senza dover
temere che, in un mondo assurdo, anche ogni buona intenzione produce il
contrario.
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In un incontro del 2009 il
filosofo morto martedì mostrava che la pretesa della ragione di non
andare oltre il misurabile portava alla perdita della consapevolezza
della stesssa umanità
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Il “Trittico di Giobbe” di Hieronymus Bosch; Bruges, Groeningemuseum. Sopra, Robert Spaemann