EPISTOLARIO
I gulag di Šalamov Cronaca e denuncia col rigore del poeta
Si impara molto leggendo l’epistolario di Šalamov ora tradotto in Francia ( Correspondance avec Alexandre Soljenitsyne et Nadejda Mandelstam,
Verdier, pagine 217, euro 10,60). Si impara circa una rete di relazioni
della Russia del dopo gulag, le cui maglie sono intreccio di dialoghi a
cavallo tra solidarietà e dissensi, conversazioni segnate a ogni
virgola dal dramma storico appena conclusosi, terra bruciata che ancora
esala morte. La durissima stagione del totalitarismo è finita, si
tratta ora di raccontare, testimoniare. Già, ma farlo come?
È il 1962 quando i due grandi scrittori russi anti staliniani Varlam
Šalamov e Aleksandr Solženicyn si incontrano per la prima volta a
Mosca, nella redazione della celebre rivista letteraria 'Novyi Mir'.
Parlano di un racconto di Solženicyn allora appena pubblicato col
titolo Una giornata di Ivan Denisovic.
Pochi mesi dopo, Šalamov scrive a Solženicyn riprendendo la
discussione. Certo, Šalamov gli dice, le sue pagine svolgeranno da quel
momento funzione di «rompighiaccio » e di «faro», nonostante «la
verità si scontri con una forte resistenza, perché le persone di norma
vogliono acqua corrente, quella che non ha bisogno di alcun
rompi-ghiaccio». E tuttavia, qualcosa dal punto di vista della forma lo
lascia perplesso: il modo in cui la violenza del sistema totalitario di
Stalin è stata trasfigurata da Solženicyn non lo convince del tutto.
Sono gli stessi anni in cui, sopravvissuto al gulag e alle atroci
condizioni di vita all’interno del campo di concentramento staliniano
della Kolima, provatissimo nel corpo e nello spirito, Šalamov ha
incominciato a scrivere (ne sortiranno gli straordinari Racconti della Kolima).
Acuto è il bisogno, per lui, di confrontarsi con interlocutori
percepiti come amici: sodali di uno stesso tormento della memoria,
compagni del medesimo trauma e della stessa necessità esistenziale di
denunciare e narrare per ricominciare a vivere. Oltre a Solženicyn,
pochi altri intellettuali e scrittori (tra questi Osip Mandel’štam
prima, la vedova di lui poi) sono i destinatari delle lettere di un
Šalamov smarrito, sfibrato tanto quanto determinato a dar forma di
racconto al lun- go buio attraversato.
In occasione dell’edizione russa dell’epistolario, nel 1990,
Solženicyn rifiutò di dare alla curatrice le proprie lettere, eppure la
sua voce è come si sentisse. Sembra di avvertirne il tono agrodolce e
via via più aspro, dato che i rapporti tra lui e Šalamov peggiorarono
venandosi di rivalità letterarie. Se il primo all’inizio incensò i Racconti della Kolima
prevedendone il (lontanissimo) successo, Šalamov accusò Solženicyn di
«non avere capito niente dei campi». Per Šalamov, del resto, il romanzo è
forma morta. «Il lettore che ha visto Hiroshima, le camere a gas di
Auschwitz, i campi di concentramento, che è stato testimone della
guerra, vedrà in ogni finzione un’offesa» scrive a Solženicyn nel 1966.
Si tratta piuttosto, aggiunge, di oltrepassare i consueti limiti della letteratura, e di saper creare «prose percepite come documenti».
Torna in mente un’idea contemporanea di 'non fiction novel' e la passione del Roberto Saviano autore di Gomorra per i Racconti della Kolyma,
libro al centro di più d’uno dei monologhi televisivi dello scrittore
italiano. E viene in mente una concezione poetica anziché romanzesca
del racconto della realtà, dove poesia corrisponde a impegno, a
visione. Quella visione che Šalamov a più riprese difende e argomenta
nell’altra corrispondenza che occupa il volume di lettere ora uscito
in Francia: l’epistolario intercorso con la vedova di Mandel’štam.
Šalamov ha grande stima di Nadežda Mandel’štam, per il libro da lei dedicato al marito e alla terribile vicenda della sua prigionia e successiva morte (in Italia uscì da Garzanti nel 1972 il bellissimo Le mie memorie).
La scrittura di Nadežda e il lutto che li ha colpiti entrambi, l’amico
e la moglie, li avvicina, li rende intimi. Così è a Nadežda Mandel’štam
che Šalamov più confida il proprio mondo morale. Un mondo fatto di
norme umane e letterarie insieme. Quella responsabilità del poeta ai
suoi occhi nitida e ininterrotta, 'eccezionale' per dirittura morale.
Per riuscire a essere giudici (e testimoni) rigorosi del proprio tempo,
senza cedere all’illusione della finzione romanzesca, è a quella
coerenza estrema peculiare dei veri poeti che occorre rifarsi. A quella
solamente attingere.
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