giovedì 11 gennaio 2024

La prudenza, una virtù scomparsa?

 


La prudenza

Una virtù scomparsa?

Pietro del Pollaiolo - "Prudenza".

Un patrimonio dimenticato

Nell’immaginario odierno la prudenza è associata soprattutto a un procedere lento e circostanziato (come nel caso della guida automobilistica) o a una indecisione di fondo per evitare rischi o, peggio ancora, a una forma di viltà o di pavidità che impedisce di prendere posizione[1]. Valutazioni che sono in gran parte eredità del pensiero moderno.

Per gli antichi invece la prudenza era considerata la virtù più bella a disposizione dell’uomo e guida di tutte le altre (auriga virtutum), perché consente di riconoscere l’obiettivo fondamentale della vita nella situazione concreta, ma soprattutto individua i mezzi adeguati per poterlo conseguire. I greci la indicavano con phronēsis (saggezza), un termine che faceva originariamente riferimento al diaframma (frēn), sede del respiro, del sentire e dell’attività conoscitiva propria dell’anima, la dimensione più intima dell’uomo[2]. La persona saggia ha la ragione in buona salute e perciò può governare se stessa. Per Aristotele, il compito della saggezza è di educare la sensibilità, l’energia indispensabile per compiere il bene (Topica, V, 8; 138 b 2-5): è il compito essenziale della ragione pratica (Etica Nicomachea, VI, 5). Per questo la saggezza è il perno della vita morale, perché scopo di questa disciplina, aggiunge sempre Aristotele, non è di conoscere il bene, ma di essere buoni. Cicerone traduce phronēsis con prudentia, definendola «la scienza delle cose che si devono cercare o fuggire» (De officiis, I, 153).

Come si può notare anche da questa semplice ricognizione, non solo la saggezza-prudenza, ma la stessa filosofia morale si presentano con caratteristiche ben diverse dall’approccio intellettualistico proprio dell’epoca moderna, alla ricerca di regole e definizioni precise, svuotando in tal modo la ragione pratica della dimensione affettiva. Emblematica a questo riguardo è la posizione di Kant: ragione ed emozioni sono nemici dichiarati; per questo la scelta del bene deve prescindere da ogni aspetto passionale ed essere compiuta sulla base della pura ragione. E il motivo di tale contrasto è enunciato con chiarezza: «Essere soggetti a emozioni e passioni è ben sempre una malattia dell’animo, perché ambedue escludono il dominio della ragione»[3]. È una posizione antitetica a quella di san Tommaso: «Il modo della virtù, che consiste nella perfetta volontà, non può essere senza passione, non perché la volontà dipenda dalla passione, ma perché a una volontà perfetta in una natura passibile necessariamente consegue la passione» (De Veritate, q. 26, a. 7, ad 2; cfr a. 1).

Tommaso, iniziando la seconda parte della Somma Teologica, nota che «le considerazioni generiche in campo morale sono meno utili, perché le azioni (umane) sono particolari» (Sum. Theol. II-II, prol.). Per vivere bene si deve sapere come concretamente agire, e soprattutto essere sufficientemente motivati a farlo. Per questo senza la prudenza non si può parlare di morale.

Cos’è la prudenza?

Tommaso riprende l’etimologia del termine da Isidoro da Siviglia: prudenza come porro videns, capacità di guardare avanti, lontano, di prevedere e provvedere, vedere il possibile punto di arrivo di un pensiero o di una scelta, mediante confronti (collatio) con quanto accaduto nel passato (cfr Sum. Theol. II-II, q. 47, a. 1). Tale significato prospettico trova conferma dal fatto che la parola latina prudens è la forma contratta di providens (provvidenza): il prudente è provvidente, colui che vede prima, guarda oltre la situazione puntuale.

Il compito specifico della prudenza è soprattutto quello di prefigurare il percorso adeguato per raggiungere il fine. Non stabilisce il fine ultimo, il bene da compiersi, che non è oggetto di deliberazione (cfr Sum. Theol. I-II, q. 57, a. 5), ma ne predispone i mezzi.

Da qui l’importanza fondamentale della prudenza nel processo del discernimento per compiere in maniera corretta decisioni importanti per la propria vita[4]. Il suo legame con la provvidenza mostra anche la sua dimensione religiosa, di partecipazione alla sapienza divina, che fornisce luce e forza per compiere il bene. Tommaso precisa che in questo difficile compito possiamo essere aiutati da un prezioso dono della Spirito Santo, il consiglio, che fornisce luce all’intelletto e forza alla volontà: «La prudenza, che implica la rettitudine della ragione, viene potenziata ed aiutata in quanto è regolata e mossa dallo Spirito Santo. E questo compito appartiene al dono del consiglio. Quindi il dono del consiglio corrisponde alla prudenza, come suo aiuto e coronamento» (Sum. Theol. II-II, q. 52, a. 2).

Questa docilità libera dall’ansia di ritenere che tutto sia affidato alle proprie forze, disperando di migliorare. Curiosamente però Tommaso nota che questo necessario completamento per la deliberazione era stato riconosciuto con chiarezza già da Aristotele: «Il Filosofo stesso notava [Etica Eudemia, 7, 14] che coloro i quali sono mossi per istinto divino non hanno bisogno di deliberare secondo la ragione umana, ma devono seguire l’istinto interiore: perché sono mossi da un principio superiore alla ragione umana» (Sum. Theol. I-II, q. 68, a. 1). (………)

(fonte: Giovanni Cucci su La Civiltà Cattolica, Quaderni 2022 ) continua