venerdì 26 luglio 2024

 


SCHUSTER. «ALTRO RICORDO DA DARVI NON HO»

A 70 anni dalla morte, su "Tracce" di Luglio-Agosto un viaggio nella vita del beato Arcivescovo di Milano. E nella sua eredità: «La gente pare che non si lasci più convincere dalla nostra predicazione. Ma, di fronte alla santità, ancora crede»
Ennio Apeciti*
«È proprio dei Santi restare misteriosamente “contemporanei” di ogni generazione: è la conseguenza del loro profondo radicarsi nell’eterno presente di Dio». Questo scrisse san Giovanni Paolo II nella Lettera Operosam diem (1° dicembre 1996) in occasione del 16° centenario della morte di sant’Ambrogio. Mi pare siano parole che possono valere anche per il beato cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, del quale ricordiamo i settant’anni della morte. Cosa può insegnare ancora a noi?

Alfredo nacque a Milano il 18 gennaio 1880. Suo padre, Giovanni, era stato uno zuavo pontificio, un militare, ma dopo la fine del potere temporale del Papa si era adattato a fare il sarto, non guadagnando certo molto, anche perché alla nascita di Alfredo aveva già 61 anni ed era al suo terzo matrimonio, con Anna Maria Tutzer, trent’anni più giovane di lui, che aveva accettato di prendersi cura dei figli di quel vedovo. Quattro anni dopo, giunse la sorella Giulia, insieme alla povertà e al dolore: il papà morì che Alfredo aveva appena 9 anni. E lui ricordò sempre quello che avvenne dopo il funerale, quando la mamma aprì l’armadio e diede ai figli due o tre pani, qualche moneta e disse: «È tutto qui: domani non avremo più nulla da mangiare». Di fatto solo la carità dei vicini e l’industriosità della mamma – che fece la donna delle pulizie a ore – permise loro di sopravvivere.

Alfredo non si fece sconfiggere – come accade oggi a molti – da queste prove. Leggiamo dal suo Diario: «Rimani raccolto. Soprattutto evita l’ozio, come padre di tutti i vizi. Sii sempre operoso e studia». E lo fece, animato dalla fede che la mamma gli trasmetteva. Sempre nel Diario«Ama, ama assai, ama perdutamente, prima il tuo Dio, quindi la Sua Adorabile immagine in tutti gli uomini». Fu il suo ideale e lo trasmise anche alla sorellina più piccola, Giulia, cui l’8 maggio 1907 scrisse: «La nostra patria, il nostro regno, la nostra casa paterna è il cielo (…). Il regno di Dio è dentro di noi, è là nel secreto della coscienza, nel silenzio dell’anima che noi dobbiamo vivere questa vita intensa di carità, e di fede che vuole Gesù». Non si vergognò mai di essere povero, tanto che nel suo Testamento scrisse: «Sono nato e vissuto povero, ed essendo monaco, anche sul trono di sant’Ambrogio, mi sono sempre considerato, non già proprietario, ma dispensiere dei beni della mia Chiesa».

Non mancano mai le persone buone, così il barone Pfiffer d’Althishofen, colonnello della Guardia Svizzera, nel 1891 si interessò perché l’undicenne Alfredo fosse accolto tra gli “oblati” del Monastero di San Paolo fuori le Mura. I benedettini, infatti, da sempre accoglievano i ragazzi poveri, curandone l’istruzione e la formazione, condividendo il loro stile di vita e la loro spiritualità sino a che, divenuti maturi, sarebbero stati liberi e pronti di tornare dalla loro famiglia, di farsi la loro vita felice.

Alfredo, invece, scelse di rimanere, di continuare quel tipo di vita che lo aveva plasmato, con quello stile che san Benedetto raccomandava da secoli e che si riassume in uno splendido trinomio: «Ora. Labora. Noli contristari», che dovremmo tradurre: “Cura con equilibrio il tuo rapporto con Dio e con il mondo: impegnati! Ma fai tutto con serenità, senza mai scoraggiarti”.

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