STRAGE
PADERNO DUGNANO/ “Cosa fare quando manca l’io e l’altro diventa nemico?”
La strage di Paderno Dugnano è la conseguenza della
distruzione di ogni nostro legame identitario. Si uccide per risolvere il
proprio malessere
Cesare Maria Cornaggia, Giulio Maspero, Federica Peroni
Pubblicato 18 Settembre 2024
Lo psicanalista Claudio Risé nel suo articolo su La Verità
dell’8 settembre scorso chiude la sua riflessione attorno al caso di Paderno
Dugnano affermando che “la rivoluzione oggi maggiormente indispensabile rimane
allora quella culturale: sempre più urgente”. Zittite pertanto le inutili e
fastidiose trombe dei cosiddetti esperti o sapienti all’affannosa e vana
ricerca di “motivazioni” o di “moventi”, crediamo che soltanto il rispettoso
silenzio dinanzi alla tragedia ed al mistero possa aiutarci a far emergere la
vera urgenza: dove sta andando l’uomo in questa società che ha espulso Dio e
che ora distrugge sistematicamente le relazioni?
Eventi come questo sono infatti figli della solitudine nella
quale siamo tutti immersi, spesso senza neppure averne contezza. Essa può
passare, come è accaduto, assolutamente inosservata e può appartenere al nostro
vicino di pianerottolo senza che noi ce ne accorgiamo, anche perché di fatto il
nostro vicino neppure lo conosciamo. Nel nostro affannoso parricidio, da noi
fortemente voluto e che ha prodotto la nostra posizione culturale a partire dal
Sessantotto ad oggi, abbiamo fatto fuori qualsiasi legame identitario. Infatti,
come scriveva un altro psicanalista junghiano, Enrico Ferrari, l’uccisione del
padre non è stata finalizzata alla sua sostituzione, ma alla sua abolizione. Ci
siamo ritrovati con in mano una incapacità relazionale che abbiamo fantasticato
di sostituire con il surrogato delle relazioni a distanza, dove corpo,
emozione, fisicità, em/simpatia non hanno avuto più posto. In realtà, quello
che fa davvero paura è che il motivo per il quale a Paderno Dugnano, o chissà
dove nel mondo, manca il “movente” è quello che manca la persona che si muove e
la direzione per dove si muove. In sostanza, manca l’Io.
Tanti commentatori della vicenda si sono rincorsi nel
sottolineare l’incapacità di leggere e di esprimere le proprie emozioni, il non
accesso al proprio mondo profondo, la non capacità comunicativa, il non ascolto
da parte del mondo circostante e così via. Tutto vero, ma a nostro parere la
situazione con la quale abbiamo a che fare sta ad un passo ancora prima: non si
dice niente, non soltanto perché non si riesce a tradurre qualcosa in parola,
ma perché manca il “qualcosa” da tradurre, manchiamo noi. L’Io si costituisce
in e come relazione: a partire da quella originaria ed identitaria si plasma
con l’altro lungo un lento percorso di riconoscimento reciproco dinanzi a due
punti irriducibili: la realtà come dato ed il proprio mondo interno irto di
esigenze e di desiderio.
L’angosciante solitudine nella quale giacciono i nostri
figli, assieme ovviamente anche a noi medesimi, è figlia del tentativo
culturale (per questo Risé ha ragione) di escludere la relazione e di lasciare
l’uomo solo immerso in un inevitabile narcisismo. Noi crediamo che questa
condizione nasca proprio e originariamente dall’esclusione di Dio dalla storia,
come proclamava Nietzsche col suo annuncio della morte di Dio, e dal fatto che
l’Io, tolto dalla relazione, non può vivere, come affermava Watzlawick.
Vi sono situazioni nelle quali si può perdere di vista sé
stessi oppure l’altro; quando però a perdersi di vista sono entrambi, tutto
diviene privo di un punto di riferimento e la lettura di quello che ci anima
diventa impossibile. Si genera allora la ricerca di una dipendenza estrema,
dove l’altro diviene il prolungamento di sé e del proprio malessere e senza le
coordinate diventa un ostacolo o un bersaglio, un nemico. Dentro a una società
che produce continuamente stimoli, tutto si fa rumore, brusio continuo legato
all’ansia da prestazione che toglie il silenzio. Ma è nel silenzio che si forma
il pensiero e questo, se non può evolvere e manifestarsi, diventa agito, che
spesso irrompe in maniera violenta per dare uno stop a pezzi di pensieri troppo
faticosi o fastidiosi.
Davanti a fatti di cronaca come quelli di Paderno Dugnano vi
è un elemento violento, inconcepibile: non esiste il “motivo”, o meglio il
motivo esiste ma non è categorizzabile. E non è categorizzabile perché è
relazionale, nel senso della mancanza di relazioni. Queste, infatti, non sono
traducibili in concetti, come avviene per gli oggetti, un tavolo o un cellulare
ad esempio. Quindi ancor più arduo è parlarne quando la causa di un evento si
configura come assenza di relazioni. Così, per l’essere umano, che ha bisogno
di sapere il “perché” per quietare le proprie angosce e per dare senso al
reale, tutto diviene incomprensibile.
D’altra parte siamo nell’epoca della frammentazione: non
esiste più il simbolo, la comunicazione è contratta, si è connessi ma non in
relazione, si è ovunque ma da nessuna parte. Gli agiti, come atti sostitutivi
del pensiero, ci sono sempre stati, ma sono sempre stati relegati nella sfera
della follia, della persona emarginata e reclusa, mentre oggi invadono tutto il
tessuto societario come segno di una sofferenza non ascoltata. Si sta perdendo
l’essere e per emergere l’unica cosa che resta è quella di “rompere” l’altro e
la relazione con lui, ma non solo simbolicamente purtroppo. Il mito di Edipo
diventa drammaticamente ancora più attuale, con la fatica però a ritrovare il
simbolo e la potenza del suo messaggio. In una vicenda come quella di Paderno
Dugnano si ritrova tutta la drammaticità della situazione odierna, l’uccisione
del padre come modo non per evolvere, ma per risolvere il proprio malessere,
una ferocia disperata per salvare sé stessi attraverso la perdita dell’altro.
Questa condizione è esplosa con l’esperienza della recente
pandemia, cioè del tempo dell’incontro con il limite e la frattura della
relazione. Il dilagare dei disturbi di panico non è infatti incomprensibile:
esso è una manifestazione che consegue all’accumulo di emozioni negative che
attivano angosce di frammentazione. I disturbi legati al comportamento
alimentare, anch’essi esplosi, hanno a che fare con il panico e la fatica
legata al crescere. Le condotte alimentari come il panico esprimono il tentativo
di controllare corpo e corporeità, che sono qualcosa di impossibile da
controllare. L’individuo che non vuole evolvere per paura sa, dentro di sé, in
maniera inconscia e quindi più potente, che qualsiasi tentativo di non crescita
è assolutamente impossibile.
Mai come oggi ci viene in aiuto il pensiero di Hannah
Arendt, che ha sottolineato la profonda distinzione tra “sapere” e “pensare”,
definendo quest’ultimo come attività che non si conclude mai e che si basa su
un processo continuo e critico. Il pensiero consente di riflettere sulle
proprie azioni e metterle in discussione cercando significati sempre più
profondi. In una società che mira alla ricerca di soluzioni definitive e poco
flessibili, che punta al totalitarismo attraverso l’uso massiccio dei mass media
risulta difficile accedere ad un’attività di pensiero come qualcosa di
flessibile e critico. Il non criticare il reale (che la nostra società vuole
sostituire con l’ideologia) non consente l’accesso al simbolico, perché viene a
mancare quella autoriflessione che permette di guardare al rapporto tra Sé, Io
e realtà in un circuito continuo. Siamo infatti nell’epoca della “banalità del
male” intesa, secondo Arendt, come “totale mancanza di pensiero critico ed
obbedienza cieca all’autorità, piuttosto che di una malvagità intrinseca”.
Ecco qui rappresentato quanto accade in questi giorni: si fa
fatica a parlare di una malvagità intrinseca, quanto più di una mancanza di
critica. La presenza di una malvagità, infatti, porta con sé un pensiero più
strutturato e basato sul tentativo di fare intenzionalmente male all’altro, ma
l’assenza di un pensiero è una condizione tremenda. Nella lotta continua tra
Eros e Thanatos vince quest’ultimo, in una spirale tragica dove l’essere umano
fa fuori sé stesso.
In un contesto come quello odierno la vera emergenza, prima
di quella sanitaria o educativa, è quella culturale, come diceva Risé. Resta
urgente ripristinare una cultura dell’altro e dell’incontro che acceda alla
dimensione della colpa e non della vergogna, dove quest’ultima annienta la
relazione perché fa percepire sé come sbagliato e l’altro come giudicante. La
colpa, invece, consente di ripristinare il pensiero critico e di guardare alle
proprie azioni non come coincidenti con sé, ma come una parte sulla quale
lavorare, come descriviamo nel nostro recente volume Ansia e Idolatria
(Inschibboleth, 2024). Bisogna ripristinare la cultura della prossimità, della
vicinanza, del corpo e del silenzio.
Allora pensiamo a quella famiglia, che ora sembra non
esistere più. Di fatto nessun membro di quella famiglia in prima battuta pare
essere salvo, perché spazzato via dalla violenza che uccide la relazione e
l’appartenenza. Come dice il filosofo Byung-chul Han, ci stiamo distaccando
dalle cose e dalla loro appartenenza perché siamo alla ricerca di informazioni
e di “like”, di azioni forti per sentirci vivi, perché si è perso il godere
delle cose. Siamo nel tempo, per usare una espressione di Thomas Fuchs, del
drammatico ed angosciante videor ergo sum: appaio quindi sono.
(……..)
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