domenica 21 gennaio 2007

Parla il sociologo Ivo Colozzi: Ma l'incubo del '77 partorì il «no global»

La contestazione, sfociata negli anni di piombo, brandiva speranze che sono state deluse. Perché?
«Anche sulla cultura ha inciso poco e male: alimentando il nichilismo e combattendo i cattolici che portavano un pensiero alternativo. Molti storici leader del movimento oggi dominano tristemente i media e le istituzioni»

Senza Radio Alice, uno dei simboli del '77 di cui quest'anno ricorre il trentennale, non ci sarebbe, forse, neanche Mediaset. Lo sostiene il sociologo Ivo Colozzi. «L'irruzione innovativa del movimento nella comunicazione» spiega «fu una necessità: nacque dalla preclusione del monopolio pubblico a diffondere prese di posizione critiche nei confronti delle istituzioni. Una circostanza che spinse il movimento a dotarsi di mezzo auto-gestiti. Con un esito sorprendente e certamente non voluto: aprire la porta ad una liberalizzazione da cui entrerà anche Berlusconi con le sue tv».
Che cosa ha rappresentato il '77 nella storia italiana?
«L'ultima prova di forza per verificare se, da parte del movimento studentesco, era possibile con una spallata cambiare la società. Di fronte al suo fallimento si è abbandonata la strada delle grandi manifestazioni e si è avviata la strategia terrorista in maniera decisa e ormai senza remore».
Quale profilo sociale avevano i militanti?
«Quasi tutti erano figli del ceto medio. Anche perché la stratificazione sociale in Italia era caratterizzata già allora dal modello a cipolla: un'enorme pancia costituita dal ceto medio, una minoranza abbastanza piccola di ricchi e una minoranza abbastanza piccola di poveri. Il movimento studentesco, il '77 in particolare, è nato dentro questo ventre molle. Da quelli, soprattutto, provenienti da famiglie della sinistra storica, che, dopo aver respirato in casa la delusione nei confronti della deriva presa dalla sinistra istituzionale sempre più allineata allo schema partitico, avevano cercato un nuovo modo per realizzare gli ideali dei padri».
Una critica che a Bologna divenne rivolta contro il partito comunista che governava la città…
«Causata dalla percezione che il partito aveva tradito. Si era troppo istituzionalizzato. Il sindaco era Zangheri, un professore universitario, quanto di più lontano dal personaggio popolare rappresentato da Dozza. La dista nza tra Dozza e Zangheri è la distanza che c'era tra il Pci in cui avevano militato i reduci della Resistenza che speravano attraverso il partito di fare la rivoluzione e il partito degli anni Settanta. Un partito ormai totalmente dentro i meccanismi del consenso. Mentre i giovani, come sempre, volevano fare la rivoluzione. Ecco spiegato l'accanimento contro la sinistra democratica».
Sul piano culturale il movimento del '77 ha lasciato delle tracce?
«Se parliamo di cultura profonda ha inciso in maniera molto limitata: sto pensando a Derrida. Ovvero ad alcune tendenze, tuttora presenti a livello culturale, che sicuramente trovano il loro vivaio nel '77. Per esempio la volontà di decostruire tutto il linguaggio del finto progressismo, dei finti diritti umani affermati, del finto senso umano affermato. Una decostruzione che però porterà, non dimentichiamolo, verso un relativismo e un nichilismo tutt'altro che rivoluzionario».
E a livello di cultura diffusa?
«Gran parte dei leader del '77 sono entrati nei giornali e nelle televisioni. Diffondendo una cultura del disagio, di un disagio che non ha trovato lo strumento per cambiare effettivamente la società e che quindi trova la sua espressione essenzialmente nel pensiero negativo. E contribuisce, in buona sostanza ad alimentare il dubbio».
Come si spiega l'intolleranza nei confronti della presenza dei cattolici in Università?
«Le vecchie associazioni studentesche, con l'avvento del '68, avevano reagito ritirandosi. Dopo aver seguito per alcuni anni lo stesso percorso, quella che era la vecchia Gs e che poi diventerà Comunione e Liberazione, inverte questa tendenza e si pone dentro la situazione con un atteggiamento alternativo. Cioè si propone come una proposta capace (a partire da una rinnovata esperienza di fede) di rispondere in maniera più adeguata a tutti i problemi di disagio che caratterizzava gli atenei. La sinistra non poteva accettare una competizione su questo piano o almeno l'ha vissuta come una sfida intollerabile e proprio per questo ha cercato di combatterla in maniera molto forte».
I leader del movimento del '77 sono stati assorbiti dalle istituzioni. Tutti reduci, come cantava Gaber?
«Per molti c'è stato una specie di blocco culturale. Anche perché la formazione nell'età adolescenziale non si cancella più. E continua a segnare questa generazione. Molti hanno scelto il riflusso ma lo sguardo con cui guardano ancora oggi la realtà è fortemente condizionato da quell'esperienza giovanile. Ed è uno sguardo non positivo perché ritiene la realtà di per sé traditrice. Con una conseguenza: se questo Paese conosce una crisi di depressione molto lo si deve a questa generazione che controlla i media e la produzione della cultura».
Ci sono eredi del fenomeno di trent'anni fa?
«I no global, certamente. In quanto proseguono l' atteggiamento, tipico del'77, assolutamente antagonista nei confronti della realtà occidentale. Le espressioni sono pressappoco le stesse, così come la violenza, molto dura. In questo senso vedo una forte continuità, ma osservo anche la grande differenza. Il paese è cambiato e il movimento no global difficilmente potrà diventare un movimento di massa o produrre quel fenomeno eversivo che è stato il terrorismo».
Hanno ancora un pubblico i vecchi capi come Scalzone?
«Per i giovani sono riferimenti inesistenti. Faranno conferenze ma non troveranno le nuove generazioni ma le stesse facce di allora: appesantite e ingrigite. Provate a parlare di questa gente nelle aule dell'università. Nessuno ha più idea di chi siano questi personaggi. Fanno parte di un passato che non ha nessuna possibilità di tornare».
Stefano Andrini
Avvenire, 20/2/2007