martedì 28 gennaio 2014

Comunità aggreganti o individui isolati

La buona città dei «diversi» e la Babele delle caste
 

Luigino Bruni

 


Comunità, una delle parole più ricche fondamentali e ambivalenti del nostro vocabolario civile, sta subendo una mutazione radicale. La comunità vera è sempre stata una realtà tutt’altro che romantica, lineare, semplice, perché in essa si concentrano le passioni più forti e profonde dell’umano, luogo di vita e di morte. Gerusalemme è chiamata "città santa", ma è Caino il fondatore della prima città e il mito fa nascere Roma (e tante altre città) da un fratricidio.

La comunità può essere raccontata senza pericolose riduzioni ideologiche solo se abitiamo e non rifiutiamo questa sua ambivalenza originaria. Ce lo suggerisce la stessa radice latina del termine: communitas, cum-munus, poiché il munus è, ad un tempo, il dono e l’obbligo, ciò che è donato e ciò che deve essere dato o restituito, l’atto gratuito ma anche i munera, cioè i compiti, gli obblighi e le obbligazioni, la gratuità che evolve nel doveroso.

È questa stessa tensione semantica e sociale che ritroviamo nel bene comune e nei beni comuni, che vivono e non muoiono finché la trama dell’obbligo si intreccia con l’ordito della gratuità. Se invece questa tensione vitale si spegne, e restano solo i (presunti) doni o solo gli obblighi, le patologie relazionali sono sempre sull’uscio (se non già dentro casa), il dono diventa faccenda irrilevante per la vita sociale, e gli obblighi si trasformano in lacci.
Una delle ragioni più profonde della dualità generativa della comunità è la sua natura non-elettiva: le persone con le quali siamo legati e allacciati nelle comunità non le scegliamo, se non in minima parte. Il cum non lo creiamo noi con le nostre scelte, ma ci precede, è più grande di noi. I nostri compagni di comunità ce li troviamo accanto, alcuni non ci piacciono, molti non li sceglieremmo come amici; eppure sono inevitabilmente lì, noi dipendiamo da loro e loro da noi.

La non-elettività e l’interdipendenza sono la sostanza della comunità, e accomunano tra di loro la classe scolastica, i luoghi di lavoro o la comunità cittadina. Il compagno di classe, la collega, il vicino di casa condizionano la mia vita per il solo fatto di insistere sul mio stesso terreno, anche quando cerco di evitarli, e anche se non li amo, li ignoro o li combatto. Così possiamo utilizzare la stessa espressione "comunità" per chiamare famiglia, scuola, impresa, il nostro Paese, finché ci sentiamo dentro gli stessi cum e gli stessi munera.
La non-elettività della comunità inizia già nella prima comunità originale, la famiglia. Non scegliamo né i genitori, né i figli, né fratelli e sorelle. E anche se è vero che scegliamo la moglie o il marito, è ancora più vero che ciò che negli anni dell’innamoramento scegliamo dell’altro coesiste con tutta una parte dell’altro che non abbiamo scelto, perché sconosciuta a entrambi.

Una parte non scelta che cresce negli anni, fa fiorire l’innamoramento in agape, e dà una dignità immensa all’amore coniugale fedele, perché la fedeltà più preziosa e costosa è quella alla parte non conosciuta e non scelta dell’altro (e di se stessi). In generale, i rapporti che nascono elettivi (amicizia, innamoramento …) diventano capaci di generare buone comunità quando si aprono alla dimensione non elettiva degli amici e di accogliere i non-amici. Altrimenti restano consumo, che può anche nutrire ma che non genera.

I gruppi umani dove esercitiamo le dimensioni più significative della nostra umanità non sono elettivi, non li scegliamo. È nella convivenza quotidiana con questa non-elettività che apprendiamo i codici relazionali e spirituali cruciali della vita, combattiamo il narcisismo (che oggi è pandemia sociale) e diventiamo adulti. Un apprendistato permanente, che assume un valore altissimo quando si resta, per una misteriosa fedeltà a se stessi, in comunità nelle quali non ci si riconosce più, quando arriva una sorta di "risveglio" e si ha l’impressione forte di aver sbagliato comunità e quasi tutto. A chi riesce a restare, dopo questi risvegli dolorosi, può accadere che da figli di quella comunità si ritrovino madri e padri di essa.

La diversità è il lievito della comunità. Senza di esso la vita comunitaria non si eleva, il suo pane quotidiano resta azzimo. Oggi è molto forte la tendenza a creare comunità elettive, a uscire cioè da comunità non scelte e a entrare in comunità scelte. Con un ruolo decisivo del web, stiamo assistendo al proliferare delle cosiddette "comunità di senso", quei gruppi che nascono attorno a interessi comuni, dal cibo agli hobbies, dagli interessi letterari all’amore per alcune specie di animali, e molto altro, e spesso anche molto buono. Nuove "comunità" di simili, spesso senza corpo, che sostituiscono le comunità corpose di dissimili che sono in rapido dissolvimento. Si fugge dalle nuove diversità difficili dei nostri quartieri multietnici, e ci si ripara da quella diversità non scelta creando altre comunità.

È questa un’espressione del cosiddetto "comunitarismo", un eterogeneo movimento che ha nella costituzione di "comunità di simili" la sua cifra tipica. Scuole, condomini, quartieri, web-communities, luoghi nei quali si cerca di costruire comunità senza le "ferite" delle diversità sotto casa. Ma uno dei grandi messaggi che ci arriva dalla sapienza millenaria della nostra civiltà è l’insufficienza delle "comunità di simili" per la costruzione di una buona vita. Se continueremo ad abbandonare le comunità naturali, e quindi i territori e i corpi politici, precipiteremo presto in una forma di neo-feudalesimo castale, che era la condizione in cui si trovava l’Europa dopo il crollo dell’impero romano. Uno scenario che si sta già compiendo nei tanti "Davos" del capitalismo finanziario, dove nuove caste, totalmente separate e immuni dalle comunità, ci governano ma non ci vogliono né possono vedere e toccare.
Quando imprenditori manager e finanzieri non toccano più i corpi delle comunità vitali e meticce, producono danni immensi, a volte fatali per le comunità dei nuovi intoccabili e fuori-casta. Nel vecchio feudalesimo i pochi ricchi vivevano in rocche fortificate, e attorno a essi scorribande, degrado, deserto. Può non essere lontano il giorno in cui questi nuovi feudatari e bramini usciranno dalle loro roccheforti, e fuori non troveranno più strade, sicurezza, beni comuni, e neanche eliporti sgombri dove atterrare.

Un grande racconto fondativo sul decadimento della comunità dei diversi nelcomunitarismo dei simili è la Torre di Babele (Genesi 11). La comunità salvata e rinata dopo il diluvio si radunò in un solo luogo, con una sola lingua, con una alta torre. Dopo ogni "diluvio" (crisi epocale) è sempre forte nelle comunità la tentazione di chiudersi tra simili, di espellere i diversi, di non disperdersi sulla terra. Dove non c’è diversità, promiscuità, contaminazione non c’è fecondità: i figli non nascono, le comunità diventano incestuose, e presto scompaiono.

La comunità senza diversità si trasforma presto in una forma di fondamentalismo, di idolo a se stessa. È stata la convivenza conviviale e litigiosa delle nostre città di diversi a generare quell’architettura, arte, cultura, economia che a distanza di secoli continua ad amarci, nutrirci e a salvarci. Questa Europa post-feudale della cittadinanza e delle diversità oggi è minacciata dalle nuove Babele della finanza e delle rendite, chiuse nelle loro cittadelle fortificate. Noè il giusto aveva costruito un’arca (barca-cesto) per salvare la varietà e molteplicità delle specie e dei viventi, una varietà-diversità che gli uomini radunati a Babele volevano, e vogliono, eliminare.

La dispersione del comunitarismo di Babele è la pre-condizione per l’edificazione delle mille comunità popolate da molteplici lingue, colori, varietà, diversità, bellezza: «Sia data gloria a Dio per la varietà delle cose» (Gerard M. Hopkins).
l.bruni@lumsa.it

Luigino Bruni