Maturità è avere fiato
per la partita più lunga
Davide Rondoni
16 giugno 2014
Ora
(mercoledì) iniziano gli esami di maturità. E guardo mio figlio che si
avvicina alla scadenza e penso: maturo? Gli voglio un bene dell’anima. E
penso che questo sguardo, sperdutamente innamorato e quasi smarrito, ce
l’abbiano tanti padri (e madri, ma la mamma, si sa, è sempre la mamma,
una veggente) di fronte al ragazzo o alla ragazza che la scuola dovrebbe
restituire alla società con un timbro: maturo. Suona quasi strana
questa parola, maturità. Fa tornare alla mente la propria giovinezza e
anche un po’ di film banalotti. Ma suona strana per altri motivi. Ad
esempio, perché nella nostra cultura e nella nostra società stanno
finendo sotto i colpi di ideologie banali e irose parole decisive come
"madre", "padre" e, invece, altre nel campo dello sviluppo educativo
rimangono lì in piedi come monumenti intoccabili. Tipo: "programmi
scolastici". E tipo: "maturità".
Siamo in una società in cui sembra che non si abbia più diritto ad avere una persona chiamata madre, ma una cosa-maturità lo Stato si incarica di dartela. E di vidimarla.
E io guardo mio figlio e penso: cosa è maturato in lui ? Oltre al bel corpo, oltre alla bella e un po’ sfrontata simpatia, oltre alla consapevolezza che la vita è fatta di cose dure e di cose belle? Cosa sta davvero maturando oltre a qualche sua passione particolare, e a una idea per quanto confusa di un mestiere futuro? C’è davvero qualcosa che deve maturare? Il senso civico? Il senso critico? La scuola si adopera come può a offrire nozioni, indicazioni, sapere. Basta una verifica di queste cose per vedere se qualcosa di decisivo è maturato in un ragazzo? Forse a maturarlo sono state soprattutto altre cose, le canzoni che ha ascoltato, i dolori che ha patito, le prese di coscienza del proprio carattere. Sì, ecco, il carattere. Parola che indica il modo con cui la natura e il buon Dio ci scrivono. Il suo carattere si sta definendo. Ma il maturare riguarda non solo il carattere.
Resta dunque la domanda: maturità di cosa? Ha compiuto la cosiddetta maggiore età. Ha acquisito diritti, e doveri. Potrei pensare: ormai è grande, si arrangi. E un po’ lo pe
nso, credo sia giusto. Però questa parola, che capita tante volte in questo periodo, non riesce solo a evocare – come forse è per lui e per tanti suoi coetanei – la scadenza di un periodo, l’espletamento burocratico di un percorso da cui tendenzialmente non si vede l’ora di uscire. "Fare la maturità" significa uscire da quel mondo scolastico fatto di obblighi che per ragazzi vivaci a volte appare un peso gravoso e strascinato. Non sanno, lo impareranno in fretta, che gli obblighi aumentano. A meno che non si intenda la vita come fuga. La qual cosa può essere inebriante all’inizio, ma la vita del fuggiasco è penosa e delirante. E soprattutto infelice. Dunque, oltre alla scadenza burocratica che cosa indica questa soglia, questa fine che è anche un inizio, e di là dal quale i ragazzi come lui certo vedono con timore ma anche con una febbre allegra qualcosa che li aspetta? Maturità dell’anima, penso in un baleno. Della parte più preziosa. Del "fiato" avrebbero detto gli antichi.
E allora la maturità mi pare come quando negli allenamenti o nelle partite un atleta si accorge di aver "rotto il fiato" ovvero, superata la fatica iniziale del prendere respiro durante lo sforzo, trova un ritmo di ventilazione, di rifiatamento tale da poter affrontare la partita. Che, si sa, è fatta di scatti e imprevisti, di botte e di gioco di squadra. Di momenti in cui stringere i denti e di altri in cui devi rischiare e tocca a te. Sarà la coincidenza col Mundial. Ma la letteratura di tutti i tempi ha paragonato la vita a una gara atletica. Maturare dunque significa rompere il fiato, essere pronto per la partita. E il fiato è l’anima. Si tratta di saper tirare il fiato, di saper attingere l’anima nelle prove che vengono. L’anima, quel fiato che Dio come un amante ha soffiato nella bocca della sua creatura, nel racconto della Genesi. La parte non imprigionabile, non vendibile, non consumabile di ciascuno.
Maturità. Dunque si tratta di sapere da dove e come prendere l’energia. Non so bene se a scuola glielo hanno insegnato. Io ci ho provato, un po’ con le parole, soprattutto mostrando da dove prendo e come tiro il fiato io. Ora tocca anche a lui. Buona maturità, figlio mio. Che un grande respiro ti accompagni.
Siamo in una società in cui sembra che non si abbia più diritto ad avere una persona chiamata madre, ma una cosa-maturità lo Stato si incarica di dartela. E di vidimarla.
E io guardo mio figlio e penso: cosa è maturato in lui ? Oltre al bel corpo, oltre alla bella e un po’ sfrontata simpatia, oltre alla consapevolezza che la vita è fatta di cose dure e di cose belle? Cosa sta davvero maturando oltre a qualche sua passione particolare, e a una idea per quanto confusa di un mestiere futuro? C’è davvero qualcosa che deve maturare? Il senso civico? Il senso critico? La scuola si adopera come può a offrire nozioni, indicazioni, sapere. Basta una verifica di queste cose per vedere se qualcosa di decisivo è maturato in un ragazzo? Forse a maturarlo sono state soprattutto altre cose, le canzoni che ha ascoltato, i dolori che ha patito, le prese di coscienza del proprio carattere. Sì, ecco, il carattere. Parola che indica il modo con cui la natura e il buon Dio ci scrivono. Il suo carattere si sta definendo. Ma il maturare riguarda non solo il carattere.
Resta dunque la domanda: maturità di cosa? Ha compiuto la cosiddetta maggiore età. Ha acquisito diritti, e doveri. Potrei pensare: ormai è grande, si arrangi. E un po’ lo pe
nso, credo sia giusto. Però questa parola, che capita tante volte in questo periodo, non riesce solo a evocare – come forse è per lui e per tanti suoi coetanei – la scadenza di un periodo, l’espletamento burocratico di un percorso da cui tendenzialmente non si vede l’ora di uscire. "Fare la maturità" significa uscire da quel mondo scolastico fatto di obblighi che per ragazzi vivaci a volte appare un peso gravoso e strascinato. Non sanno, lo impareranno in fretta, che gli obblighi aumentano. A meno che non si intenda la vita come fuga. La qual cosa può essere inebriante all’inizio, ma la vita del fuggiasco è penosa e delirante. E soprattutto infelice. Dunque, oltre alla scadenza burocratica che cosa indica questa soglia, questa fine che è anche un inizio, e di là dal quale i ragazzi come lui certo vedono con timore ma anche con una febbre allegra qualcosa che li aspetta? Maturità dell’anima, penso in un baleno. Della parte più preziosa. Del "fiato" avrebbero detto gli antichi.
E allora la maturità mi pare come quando negli allenamenti o nelle partite un atleta si accorge di aver "rotto il fiato" ovvero, superata la fatica iniziale del prendere respiro durante lo sforzo, trova un ritmo di ventilazione, di rifiatamento tale da poter affrontare la partita. Che, si sa, è fatta di scatti e imprevisti, di botte e di gioco di squadra. Di momenti in cui stringere i denti e di altri in cui devi rischiare e tocca a te. Sarà la coincidenza col Mundial. Ma la letteratura di tutti i tempi ha paragonato la vita a una gara atletica. Maturare dunque significa rompere il fiato, essere pronto per la partita. E il fiato è l’anima. Si tratta di saper tirare il fiato, di saper attingere l’anima nelle prove che vengono. L’anima, quel fiato che Dio come un amante ha soffiato nella bocca della sua creatura, nel racconto della Genesi. La parte non imprigionabile, non vendibile, non consumabile di ciascuno.
Maturità. Dunque si tratta di sapere da dove e come prendere l’energia. Non so bene se a scuola glielo hanno insegnato. Io ci ho provato, un po’ con le parole, soprattutto mostrando da dove prendo e come tiro il fiato io. Ora tocca anche a lui. Buona maturità, figlio mio. Che un grande respiro ti accompagni.