RICOUER
L’Europa smemorata
Inedito
Di fronte al fenomeno delle migrazioni, il filosofo francese invitava
l’Occidente a ricordare la propria storia di accoglienza e integrazione
La cultura europea presa
nel suo insieme è forse la sola che ha assunto il compito
considerevole di coniugare in modo così costante convinzioni e
critica. Così il cristianesimo, a differenza dell’islam, ha dovuto
sempre venire a patti con il suo avversario razionalista e
interiorizzare la critica in auto-critica. In un certo senso la crisi
non è un accidente contingente, meno ancora una malattia moderna: è
costitutiva della coscienza europea. L’eterogeneità delle tradizioni
fondatrici e la discordanza tra convinzioni e critica mi hanno indotto
a pronunciare la parola fragilità.
È su questa fragilità dello spazio d’esperienza dell’Europa che vorrei
insistere prima di rivolgermi verso quella della coscienza del futuro.
In effetti si passa facilmente dalla fragilità alla patologia.
Quest’ultima si presenta come una crisi della memoria e della
tradizione. Crisi della memoria: tocchiamo qui un paradosso
sconcertante; spesso le regioni, le nazioni o i popoli soffrono a volte
di un eccesso di memoria, altre di un difetto di memoria. Nel primo
caso, illustrato tragicamente dall’ex Jugoslavia, ogni comunità vuole
ricordarsi solo delle epoche di grandezza e gloria, e per contrasto
solamente delle umiliazioni subite. Nel secondo caso, quello
dell’Europa occidentale post-staliniana, il rifiuto della trasparenza
equivale a una volontà di oblio e conduce a una fuga davanti alla colpa.
Ciò che è comune a questi due fenomeni, in apparenza opposti, è un
rapporto pervertito con la tradizione. Strappata dalla dialettica prima
evocata tra lo spazio d’esperienza e l’orizzonte dell’attesa, la
tradizione si riduce a un deposito sedimentato e pietrificato che gli
uni esaltano e gli altri si sforzano di nascondere e seppellire.
Ma la crisi della memoria e della tradizione non avviene senza una
crisi della proiezione verso il futuro; a volte l’orizzonte d’attesa si
svuota di ogni contenuto, di ogni scopo degno di essere perseguito; così
si riscontra un po’ dappertutto il diffondersi della diffidenza nei
confronti di ogni previsione a medio termine e a maggior ragione nei
confronti di ogni profezia a lungo termine; ma i fatti, all’opposto, si
lasciano ugualmente osservare: in assenza di un progetto accessibile,
ci si rifugia nelle utopie di sogno che distruggono ogni ragionevole e
tenace volontà di riforme. Questa doppia patologia che riguarda tanto
il futuro quanto il passato si riflette a sua volta in un impoverimento
del presente, compresa, come ho suggerito prima, la capacità
d’iniziativa, d’intervento nel corso delle cose. È così che si assiste
qui e là a una privatizzazione dei desideri e dei progetti, a un culto
del consumerismo a corto raggio; all’origine di questo movimento di
ripiegamento si percepisce senza fatica un disimpegno nei confronti di
ogni responsabilità civica. Gli individui dimenticano che la nazione non
esiste che in virtù di un voler vivere insieme sostenuto e ratificato
da un vecchio tacito contratto tra i cittadini di uno stesso popolo e
di una stessa nazione. L’individualismo, che sovente si deplora senza
analizzarlo, è senza dubbio l’effetto del movimento di ritiro fuori da
questo voler vivere insieme e fuori dal contratto civico che ratifica
quest’ultimo. Qui ancora, la patologia del legame sociale non fa che
rendere visibile l’estrema fragilità di quello. Concluderò questa riflessione sulla crisi della coscienza storica in Europa sottolineando il fe-
nomeno sul quale Koselleck mette fortemente l’accento, cioè la perdita
di ogni senso della storia, di ogni orientamento nel tempo storico. Se
alcuni parlano di epoca post-moderna, l’espressione è giustificata,
nella misura in cui si può identificare la modernità all’idea razionale
di progresso. In fondo non soffriamo meno della cancellazione dell’idea
di progresso ricevuta dall’epoca dei Lumi che della secolarizzazione
che patisce l’Europa cristiana, se non addirittura dell’allontanamento
assai marcato dalla sorgente greca ed ebraica della nostra cultura
privata e pubblica. È in questo modo che il crollo dell’idea di
progresso conduce per contrasto ad aumentare uno dopo l’altro il
sentimento di aleatorietà, o quello di un destino opprimente, quando
non conduce a cedere alla seduzione esercitata su di noi dalle idee di
caos, di differenza e di erranza.
Quest’ultimo termine dovrà allertarci qui e ora quando ci riferiamo
alle migrazioni. Perché le migrazioni riuscite che hanno fatto l’Europa e
alle quali ho fatto già una prima allusione,
sono state il contrario di un’erranza; o piuttosto vi sono forme di
erranza che sono state intercettate e interrotte da lenti e penosi
tentativi di acculturazione dei barbari da cui tutti discendiamo in
qualche grado, negli spazi culturali stabiliti dall’Impero romano,
poi dall’Europa cristiana, dal Rinascimento, dalla Riforma e
dall’Europa dei Lumi. Sono queste le componenti di ciò che abbiamo
prima chiamato spazio d’esperienza. Prima di essere degli spazi di
sedimentazione, furono degli spazi
d’integrazione, di stabilizzazione. Ed è per questo che si pone la
questione di sapere se, per riprendere una formula di Habermas, il
progetto dei Lumi è oggi esaurito o, risalendo più in alto nel passato,
se l’eredità greco-romana e l’eredità giudeo-cristiana sono ancora
suscettibili d’essere riattivate.
Una tradizione non resta vivente se non è sempre reinterpretata.
Questa osservazione si applica tanto alle tradizioni cristiane quanto
alle eredità greco-romane, medievali così come alle tradizioni
ricevute dall’epoca dei Lumi. La critica stessa è una tradizione tra le
altre, incorporata nelle convinzioni ereditate e richiesta a una
cultura continuamente rinnovata. Inoltre, alla luce della critica
storica, una tradizione si rivela essere portatrice di promesse non
adempiute, cioè impedite e rimosse dai nuovi attori della storia. Si
può dire, senza paradosso eccessivo, che gli uomini appartenenti a
epoche passate erano portatori di attese, sogni, utopie che non sono
sta- ti soddisfatti e che importa liberare e
incorporare alle nostre proprie attese, per fornirgli un contenuto e,
oso dire, un corpo. In breve, occorre accedere a una concezione aperta
della tradizione. Più esattamente, occorre riaprire il passato e
liberare il suo carico di futuro. Non vi è qui una forma di migrazione
nell’incompiuto del passato? Quest’ultima suggestione ci permette di
dire una parola sulla terapia del futuro. Liberare le promesse non
mantenute del passato è già una parte della terapia, nella misura in cui
ciò di cui soffre la nostra capacità di proiezione nel futuro è una
mancanza di contenuto. In questo senso, innovazione e tradizione sono le
due facce di uno stesso fenomeno costitutivo della coscienza storica.
Ma concordo volentieri che non è sufficiente attingere al passato e
trattare le tradizioni come risorse vive piuttosto che come depositi
per alimentare il nostro slancio verso il futuro. Qui vorrei insistere
su un aspetto del problema che tocca la questione della migrazione in
quanto aspetto del cambiamento culturale. L’invenzione maggiore alla
quale oggi siamo invitati riguarda l’integrazione le une con le altre
delle attitudini nei confronti del futuro che sono sempre minacciate di
dissociarsi: che si tratti di prospettive tecnologiche, di
anticipazioni economiche, di risoluzioni di problemi morali inediti
posti dalle minacce all’eco-sistema, dalle possibilità d’intervento nel
patrimonio genetico umano, dalla sovrabbondanza dei segni in
circolazione eccedenti la nostra capacità di integrazione.
Dico che questo problema d’integrazione tocca il fenomeno della
migrazione, nella misura in cui le migrazioni riuscite del passato sono
consistite anch’esse in una integrazione progressiva di valori
eterogenei, a uno spazio culturale di accoglienza che si è arricchito
esso stesso delle invasioni che hanno nell’immediato minacciato la sua
coesione. Amerei aggiungere a queste due componenti della terapia del
passato di cui stiamo parlando, l’integrazione delle promesse liberate
dal peso di un passato morto e la nostra capacità di progettare
l’avvenire e l’integrazione in uno stesso orizzonte d’attesa di
modalità eterogenee d’anticipazione. Questa terza componente è la più
difficile da apprezzare nel suo giusto valore; voglio parlare della
dimensione utopica. Si può diffidare delle utopie, in ragione della
loro rigidità dottrinale, del loro disprezzo nei confronti delle prime
misure concrete da prendere in direzione della loro realizzazione. Ma
i popoli non possono più vivere senza utopia, così come gli individui
senza sogno.
(Traduzione di Riccardo De Benedetti © Comité éditorial Fonds Ricoeur)
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