domenica 8 novembre 2015

Cristiani e clown: intervista a Mauro Magatti

L'intervista integrale a Mauro Magatti
La bellezza che fa l'io più io
di Paolo Perego
Docente di Sociologia alla Cattolica di Milano, è stato chiamato a parlare al tavolo del quinto convegno ecclesiale della Cei, “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”, dal 9 al 13 novembre a Firenze. A pochi giorni da questo appuntamento, Mauro Magatti si confronta con le parole di don Carrón alla Giornata di inizio anno di CL.

Professore, il cristiano rischia davvero di essere un clown nel mondo di oggi? L’uomo è un essere dinamico e ancora di più lo è lo sviluppo della società moderna, sempre in continua metamorfosi. Oggi, in questa metamorfosi, vediamo pulsioni contraddittorie. Di secolarizzazione, da un lato, ovvero di perdita di rilevanza dell’esperienza religiosa, soprattutto in Occidente. Dall’altro troviamo spinte che vanno nella direzione di aprire spazi nuovi per la religione. Questa immagine, il clown, in qualche modo coglie bene il nostro tempo: per come la vita quotidiana e l’esperienza ordinaria di chiunque si costruiscono e per le certezze che il mondo contemporaneo tende ad offrire, la sensazione è che parlare di religione sia qualche cosa che non ha senso. Clownesco, appunto. Non c’entra con la vita.

Lei al Meeting, facendo eco a papa Francesco, pur riferendosi ai cattolici nella società negli ultimi trent’anni, parlava di una perdita del legame con il cuore della fede... Carrón usa l’espressione “crollo delle evidenze”. Una cosa che, nel nostro tempo, avvertiamo in maniera molto forte. E questa, nel senso pieno del termine, è una grande sfida per i cristiani. È il venire meno di tanti riferimenti a cui siamo abituati e su cui anche lo stesso cristianesimo è potuto fiorire, perché nascevano anche da esso. Vero, questo potrebbe suscitare preoccupazione, se non ansia o paura. Ma è anche una sfida avvincente. Quelle evidenze stanno crollando perché l’esperienza umana contemporanea, pur nella sua contraddizione, cerca punti di sintesi più alti e avanzati. Questo si vede in economia, in politica, nella scienza. Piuttosto che, per rimanere nel quotidiano, nella vita famigliare. Viviamo nella scomoda situazione di non potere dare per scontate tante cose, ma di essere dentro un processo di distruzione creatrice.

Ma esiste una responsabilità della Chiesa in questo? Quello che ho descritto è un processo che ha origini lontane. Poi ci sono delle responsabilità, certamente. Ci sono le nostre inadeguatezze, i fallimenti, le contraddizioni... Al Meeting parlavo dell’Italia, per esempio, dove le evidenze crollano perché la nostra presenza di cristiani, sia nelle persone che nelle forme organizzate, non è stata all’altezza delle parole che usavamo. La prima forma di nichilismo è usare parole che non corrispondono alla realtà

Di che “tipo” di fede stiamo parlando?È un punto molto importante. Lo dice il Papa di continuo. Ed lo dice anche Carrón. Non si tratta di coerenza o di essere tutti d’un pezzo… Sarebbe assurdo. Semmai è il contrario. Proprio perché consapevoli delle proprie contraddizioni, del peccato, le parole e gli impegni che si assumono devono avere la misura di questo limite. Il problema è quando ci si fa prendere dal perfezionismo della parola o del valore, mentre emergono le contraddizioni della propria esperienza. E questo produce effetti disastrosi. La testimonianza, invece, è di chi tiene insieme le parole e l’esperienza con la misura della vita…

Lei diceva, sempre al Meeting, che in una società come quella italiana, una presenza cristiana con questa fisionomia è imprescindibile per la ripresa, la crescita e lo sviluppo. Sì, non si può immaginare, come tante volte si è fatto, che questo Paese possa stare in piedi a prescindere dalla sua radice cattolica. Altro è l’espressione di questa radice, chiamata nelle varie epoche a rinnovarsi, a misurarsi con il tempo e le sue sfide, per mostrare una capacità di lettura, di interpretazione e di risposta originale. E non si tratta di mero adeguamento al momento storico. Per esempio, con la globalizzazione bisogna essere più efficienti dal punto di vista economico. Va bene, ma che risposta diamo a questa sfida in termini di qualità della vita, di senso, di giustizia sociale? Una mediazione culturale, politica ed economica di questo tipo è esattamente ciò che una radice religiosa è chiamata a fare. Per fortuna, nella storia, il cristianesimo ha saputo farlo, e anche per questo è ancora vivo. Il cristianesimo è incarnato: vuol dire che prende forma nel tempo. Anche nuova.

Come si arriva a questo cambiamento? Carrón dice della necessità di una provocazione adeguata per risvegliare l’uomo dal suo torpore, arrivando a parlare di una bellezza…Una premessa. Nell’osservazione di Carrón c’è un punto cruciale, tutt’altro che scontato: l’individualismo contemporaneo. Storicamente questo si è prodotto attraverso la democrazia, il benessere. Cose belle, che hanno generato altrettante cose buone, come la libertà. E il cristianesimo ne è stato uno dei motori principali. Oggi, questo individualismo ha portato ad un’incapacità di apertura alla realtà e all’altro. E alla bellezza, per dirla con Carrón. Questo è il problema culturale. Come se nel corso dei secoli avessimo fatto emergere questo io che ora rischia di rimanere incapsulato dentro il proprio . È un punto su cui si gioca tutta la questione della fede, perché quello contemporaneo è un individualismo che si pensa staccato da tutto e da tutti. Come se l’io si fosse costituito da solo e potesse esistere di per sé. Invece, la questione dell’incontro, dell’apertura, del rapporto con l’altro con l’A maiuscola ci rimette in una relazione che buca questo microcosmo. Questa la premessa. Poi, quale tipo di provocazione può scardinare tutto questo? L’esperienza della fede coincide con l’esperienza di questo incontro, di questa apertura, di questa alterità. Qualcosa prima di tutto da vivere e, quindi, condividere. Per Carrón questo incontro e questa apertura hanno a che fare con una bellezza, una pienezza. Non in maniera banale e superficiale, anzi, spesso attraverso una fatica. Insomma, ci dice che l’oltre io è più io. Invece, nella cultura contemporanea ci siamo come convinti che il nostro io sia tutto, e che possiamo riempirlo noi. Ma il percorso è esattamente l’opposto: se l’io si apre, incontra ed entra in relazione, allora si distende e diventa, senza perdere se stesso, molto più di quello che, isolato, potrà mai pensare di essere.

La gente ha davvero coscienza di questo bisogno? È così sentito?Esiste questo desiderio, ma è anche molto soffocato. La società di oggi tende a non farlo emergere. Lo satura, lo nasconde. Lo nega perfino, perché è scomodo. Ma, pur latente, esiste una domanda religiosa. Non è che c’è la secolarizzazione e tutto scompare. Dalle forme reattive del fondamentalismo all’attrazione che può esercitare papa Francesco, vediamo che esiste. In molti casi non trova una forma discorsiva. Ma c’è. Il problema della fede e della evangelizzazione è sapere che questa domanda fa parte dell’esperienza umana, fin da quando c’è l’uomo. La questione è come risvegliare la domanda e fare esperienza di questo incontro.

Per Carrón è l’incontro con qualcosa di vivo e vissuto…È il tema della testimonianza. Ovvero dell’incontro e dell’arricchimento di cui siamo resi oggetto e che ci fa vivere più noi stessi, paradossalmente, senza essere soli alla guida di noi stessi.

È anche il fil rouge del convegno di Firenze. Che cosa è il nuovo “umanesimo” che auspica il titolo?Quando pensiamo all’esperienza della fede, ma anche più in generale alla quotidianità, il rischio è che perdiamo l’idea di uomo come concreto, reale. Cioè, la nostra vita rischia di essere astratta. Abbiamo una vita mobile, dinamica. Andiamo in giro, vediamo gente, facciamo cose: tutto potrebbe essere molto lontano, impersonale, anonimo. Anaffettivo. Perché tutto in qualche modo viene separato. L’organizzazione sociale che stiamo costruendo tende a frammentare tutto. I ricchi dai poveri, i genitori dai figli, i colleghi sul lavoro… La concretezza tiene insieme il senso, gli affetti, i luoghi, le persone. Credo sia uno dei temi che stanno più a cuore a papa Francesco: la vita umana esiste solo se esiste questa unità. Prendiamo la famiglia, che sta diventando pura astrazione. Non abbiamo più il tempo di parlarci, di dedicare attenzione gli uni agli altri. Non si tratta di essere contro la scienza, la tecnica o l’economia, ma di capire che devono tenere il passo dell’umano. Non a caso uno dei significati della parola religione è proprio ri-legare, “tenere insieme”.

Iperframmentazione, anaffettività, astrazione… Eppure, la Chiesa – il Papa – parla di un’opportunità. Un «tempo di gratitudine», per tornare alla traccia del convegno toscano…La gratitudine è la prima ricomposizione. La dimostrazione, in fondo, della capacità di essere concreti. La gratitudine è riconoscere che tutto quello che di buono, bello e giusto possiamo pensare di fare rispetto alle cose che non funzionano, ai problemi che ci sono e ai pericoli che corriamo esiste perché veniamo da una storia, da una tradizione. Ovvero, perché esistiamo. La gratitudine contrasta l’astrazione che ti fa pensare che non ci sia niente prima, attorno e dopo di te. È un atteggiamento concreto, perché riconosce che, sì, ci sono mille problemi, ma c’è anche tutto ciò che rende possibile la vita e il bene. Quella che nasce dalla fede è una intelligenza che abbiamo ricevuto e che possiamo tornare a trasmettere anche agli altri.

Come?
Il metodo è quello dell’"esodo" e del "sinodo", secondo lo spirito di papa Francesco. Il popolo che cammina insieme. Si cammina figli di una storia dentro una storia. Bando alle visioni apocalittiche, alle chiamate alle armi. Così come bando a discorsi astratti che saltano la vita delle persone. Invece, l’unica risposta possibile sono esempi di vita ed esperienze. In questo senso non si tratta di fare battaglie sui valori… Sulla famiglia, per esempio: la risposta può essere solo sostenere, alimentare e vivere la vita famigliare come una forma desiderabile e piena. È solo questo che può salvarla.