martedì 29 dicembre 2015

Scoprire che il dolore è lavoro

Scoprire che il dolore è lavoro e ci insegna «chi è il padrone»

di Fabrizio Sinisi

«Cosa vuole da me questa malattia? O sono io che voglio qualcosa da lei? L’interrogativo non aveva alcuno scopo pratico, eppure l’unico motivo della sua esistenza era questa continua ricerca del significato mancante. Se avesse tenuto un diario del dolore, l’unica voce sarebbe stata una parola: io»
Philip Roth

L’autore è Philip Roth, romanziere vivente (classe 1933); la citazione è da La lezione di anatomia, del 1983. Un romanzo la cui trama si raccoglie in due battute: un uomo - lo scrittore Nathan Zuckerman - è tormentato da una dolorosa e apparentemente incurabile malattia. La sua storia consiste nel tentativo di reagire, e infine vivere questa malattia. Sembrerebbe banale; banale come può sembrarlo la vita quando non la si guarda da vicino, dal di dentro. Una malattia, anche il malessere più trascurabile, è un fatto serio: non solo per quello che comporta, ma per quello che significa. Il dolore, a qualunque misura, è un imprevisto, un contraccolpo - costringe a fare i conti con se stessi come cosa misteriosa.
L’io - fino alla sua intimità fisica - si dimostra allora un luogo che non solo non conosciamo, ma che ci contraddice e interroga, che ha una sua inesorabile irriducibilità: noi non siamo quello che vogliamo, né quello che pensiamo. In questo romanzo Roth dimostra quasi con ferocia come il nostro stesso corpo sia un limite, ma anche un argine dell’egotismo; a un individuo che vuole e tenta di farsi da sé, il corpo oppone una resistenza. «Cosa ci insegna il dolore cronico? Il dolore cronico ci insegna: primo, cos’è il benessere; secondo, cos’è la codardia; terzo, un po’ di quello che significa essere condannati ai lavori forzati. Il dolore è lavoro. Che altro, Nathan, soprattutto? Ci insegna chi è il padrone».

In qualsiasi malattia emerge con chiarezza assoluta che di certo il padrone non sono io. La malattia costringe drammaticamente a questo rapporto: lo impone. Un famoso chirurgo dell’Ottocento diceva: «Un corpo è in salute quando i suoi organi sono in silenzio». Nella malattia, il corpo - il corpo che io sono - diventa un fatto che accade, un’interferenza; ma anche un’occasione. Il dolore impone, quasi inchioda a una dimensione sofferta ma imprescindibile: l’io. E l’io che soffre, che subisce un contraccolpo, ha un trasalimento: il dolore, la sofferenza, la malattia impongono il fatto che io ci sono. Non solo: che io non sono fatto per la sofferenza e il dolore. Il dolore denuncia una contraddizione.
Non è mai esistita (anche se ci provano in molti) una filosofia etica o mentale capace di accettare realmente il dolore senza che l’accettazione diventasse rassegnazione e sconfitta. Perché nel dolore - paradossalmente - l’io è colto in quello che è: desiderio di felicità, di una felicità che mi possieda fino all’intimo del corpo. Fino al dolore - della testa, dello stomaco, delle ossa, del cuore. Il dolore fisico non è una conferma della morte, ma per certi aspetti il suo contrario. Illumina in me un fatto, drammatico e decisivo: nonostante la precarietà del mio essere fisico, io non sono fatto per morire.
Scrive ancora Roth in un altro romanzo, La macchia umana: «Quel po’ di stoicismo che ho dentro se ne va, e il desiderio di non morire, di non morire mai, si fa quasi insopportabile. E tutto questo solo perché sto ascoltando Vaughn Monroe».