LETTURE/ Le Roy Ladurie, cosa ci dice la storia del clima
quando Greta non c’era
Danilo Zardin Pubblicato 28 Ottobre 2025
Gli studi di Emmanuel Le Roy Ladurie, in particolare il
classico “Tempo di festa, tempo di carestia” dedicato al clima nel Medioevo,
sono attualissimi
Il pessimismo catastrofista che ai giorni nostri dilaga si
riflette in modo eloquente nella prospettiva con cui guardiamo all’evoluzione
dell’ambiente naturale. Predomina la concezione di un declino inesorabile verso
il peggio, incentivato dall’influsso largamente nocivo del fattore umano,
implicato in modelli di vita sociale basati sul saccheggio delle risorse non
recuperabili e sullo spreco spropositato di ciò che finisce nell’accumulo dei
rifiuti, producendo l’inquinamento di un mondo sempre più contaminato,
intaccato nelle sue fibre più profonde.
Le distorsioni crescenti dell’andamento climatico,
accompagnate dal riscaldamento accelerato del globo, appaiono come il segno
patologico di una disfunzione di fronte alla quale ci si sente indifesi, sotto
minaccia: sono l’indizio di una rottura di sintonia tra l’uomo e il suo
contesto, che si è accentuata con l’avanzata del progresso contemporaneo e
rischia di scardinare il futuro che si profila all’orizzonte.
Valutare il peso reale dell’asservimento degli assetti
planetari alle logiche dell’odierno sfruttamento squilibrato, senza freni
adeguati, non è facile impresa. Ma sta di fatto che gli schemi di giudizio
adottati dai profeti di sventura che pontificano sui mezzi di comunicazione di
massa e ispirano i progetti dell’ecologismo più radicalmente estremizzato non
tengono conto di una realtà fondamentale: il clima risente certamente del
fattore umano, quando e là dove questo si fa sentire con una forza di pressione
esorbitante, ma è prima ancora condizionato da dinamiche interne di evoluzione
radicate nella fisicità delle strutture materiali della natura.
I movimenti delle grandi masse atmosferiche, le ondate
cicloniche, per citare degli esempi, hanno subito costanti oscillazioni sul
filo del tempo, e tutto lascia credere che continueranno a farlo anche in una
cornice ambientale ostile. Fin dalle ere geologiche più remote, lo sappiamo
bene, il contesto climatico non è mai stato regolato da catene di inquadramento
assolutamente rigide, in sé immodificabili.
Anche le linee di tendenza attuali potrebbero essere
corrette, riorientate magari in modo decisivo. Ma queste linee di sviluppo non
sono determinabili con precisione millimetrica, tanto meno si possono
pianificare in nome di una ingegneria disegnata secondo i contorni delle nostre
imperiose (e magari molto discutibili) preferenze ideologiche.
Il richiamo potente a non trascurare la mobilità elastica
del clima è emerso nel corso del Novecento a seguito della crescita massiccia
delle tecniche di ricerca applicate all’analisi dei fenomeni atmosferici, dei
loro effetti e delle loro possibilità di contenimento.
L’accumulo dei dati è stato messo al servizio di una
capacità di previsione del tempo futuro sempre più estesa e raffinata. Ha preso
piede la meteorologia moderna, che ci dispensa quotidianamente le sue
persuasive certezze.
Nello stesso tempo la climatologia non ha potuto evitare di
guardare anche all’indietro, per cogliere le premesse e misurare meglio le
anticipazioni della realtà che oggi sperimentiamo. Ѐ diventata così proponibile
una ricostruzione del cammino conosciuto dal clima lungo la corsa del tempo che
porta fino al presente. E a partire dai decenni centrali del secolo scorso si
sono moltiplicati i tentativi per valorizzare il patrimonio di informazioni
rese disponibili in merito all’evoluzione dei fatti climatici come punto di
vista in grado di illuminare, in presa diretta, le relazioni della vita
dell’uomo con gli ambienti da lui abitati.
L’interesse per la messa a fuoco di questo sfondo
dell’esperienza collettiva che ci siamo lasciati alle spalle è stato nutrito
soprattutto dalla rivoluzione storiografica che ha avuto il suo epicentro nella
scuola francese delle Annales.
Il desiderio di guardare alla storia degli attori umani in
termini globali, scendendo dalle vette delle élites del potere e della cultura
fino agli strati più umili delle basi materiali e persino dei pilastri
biologici dei sistemi di civiltà che si sono succeduti sullo scenario mondiale,
ha agito come uno stimolo fecondo a favore della dilatazione dell’orizzonte: si
trattava di allargare lo sguardo storico in direzione dei rapporti stabiliti
con i contesti naturali segnati dalla forte incidenza delle condizioni
climatiche. Ѐ il compito in cui si è distinto come maestro autorevole Emmanuel
Le Roy Ladurie (1929-2023).
Le sintesi che egli ha ricavato da una sistematica revisione
delle prospettive tradizionali sono condensate in una serie di saggi importanti
pubblicati a partire dagli anni intorno al 1960, che si possono rileggere
ancora con grande profitto in volumi come l’antologia Problemi di metodo
storico, curata da Fernand Braudel (Laterza, 1973 e 1982), oppure nella
raccolta di scritti dello stesso Le Roy Ladurie apparsa in lingua italiana con
il titolo di Le frontiere dello storico (Laterza, 1976). Il contributo più
rilevante rimane, su questo fronte, uno dei libri di maggior successo dello
storico francese: Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dell’anno
mille (Einaudi, 1982).
Il cardine delle ricostruzioni offerte in questi lavori è la
sottolineatura dell’optimum climatico del XX secolo, caratterizzato da una
diffusa propensione, in tutto l’Occidente euroamericano, all’innalzamento delle
temperature nelle diverse stagioni dell’anno, in particolare con la serie di
quelle che Le Roy Ladurie definisce le “splendide annate” del 1942-53.
Alla fine degli anni 50 del secolo scorso si manifestarono
comunque i segni di un’inversione di rotta, con il ritorno a un relativo
raffreddamento: eppure la pressione del fattore antropico era in fase di deciso
aumento, nel quadro del generale decollo della società del benessere
nell’euforico “nuovo corso” postbellico.
D’altra parte, in senso contrario, il rialzo termico che si
era cominciato a registrare a partire dalla fine (e soprattutto dall’ultimo
decennio) dell’Ottocento, certamente non spiegabile in base alla riduzione
dello scudo protettivo dell’ozono o all’aumento esponenziale dell’inquinamento,
segnò una netta inversione di tendenza rispetto a quella che gli specialisti
hanno etichettato come la “piccola età glaciale” degli anni 1580-1850 circa:
una fase di sensibile inversione climatica che, stando ai riscontri materiali
superstiti, interessò quanto meno le aree continentali disposte intorno
all’Atlantico settentrionale nel loro insieme. Il raffreddamento aveva
cominciato a manifestarsi intorno alla metà del secolo XVI e raggiunse il suo
culmine dopo il 1600: riduzione del ciclo vegetativo, sottoproduzione agricola,
frequenti carestie, abbassamento della qualità dei vini, espansione dei ghiacci
nelle zone elevate e nelle terre nordiche ne furono i contrassegni espliciti.
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