venerdì 17 ottobre 2025

India. Un premio al “seva” di Rose

 



India. Un premio al “seva” di Rose

La fondatrice del Meeting Point di Kampala, in Uganda, ha ricevuto, davanti a duemila persone, un riconoscimento durante il One World One Family World Cultural Festival 2025. «Rose, guidata dall’incontro con don Giussani, ha potuto scoprire la sua chiamata ad aiutare le persone»

 

16.10.2025

Anna Leonardi

Rose Busingye riceve il premio da Sadhguru del "One World One Family World Cultural Festival 2025"

Come un Festival in India, organizzato in occasione del centenario della nascita di Sathya Sai Baba, uno dei più noti maestri spirituali dell’India contemporanea, abbia scoperto e voluto premiare Rose Busingye, l’infermiera ugandese che da trent’anni lavora con le donne sieropositive e bambini orfani di Kampala, resta abbastanza un mistero. Eppure lo scorso 23 agosto Rose, insieme ad una delegazione del suo Paese, è arrivata a Muddenahalli, nel sud del Paese, ed è salita sul palco dell’enorme centro congressi Sathya Sai Grama, per ricevere il premio per il suo “seva”, una parola in hindi per indicare il servizio disinteressato come forma universale di amore.

«Quando mi hanno convocato non volevo crederci, pensavo a uno scherzo, ho buttato via la mail. Poi mi hanno riscritto e fatte le verifiche presso consolati e ambasciate, ho capito che avevano scelto proprio me. E che l’evento non era proprio una cosa da niente. Alla fine sono partita», racconta Rose.

Il One World One Family World Cultural Festival 2025 ha una durata complessiva di cento giorni - dal 16 agosto al 23 novembre - e vede la partecipazione di nazioni provenienti da tutto il mondo. Il festival è organizzato in collaborazione con il Ministero della Cultura del Governo dell’India e con l’Indira Gandhi National Centre for the Arts. Il programma comprende spettacoli culturali, celebrazioni spirituali oltre a promuovere iniziative sociali di forte impatto, come l’apertura presso il Sathya Sai Grama, di un ospedale gratuito da 600 posti letto concepito per offrire cure di alta qualità a tutti, senza distinzione di reddito o provenienza. In questa carrellata di eventi, ogni giorno vengono presentate e premiate persone impegnate in progetti di nutrizione, istruzione, sanità e di benessere per la comunità. Persone semplici e straordinarie che si sono distinte per un “amore in azione” – come stabilisce il Corporate Social Responsibility, il comitato, all’interno del festival, incaricato dell’assegnazione dei riconoscimenti.

Sulla targa del premio consegnato a Rose si legge: “Voce del valore infinito e della speranza”. Ed è questo che ha raccontato al momento della premiazione, quando, vestita con un sari di seta, si è trovata inaspettatamente davanti a una platea di duemila persone. «Essendo riuscita a partire all’ultimo e non avendo capito bene come si sarebbero svolte le cose, non mi ero preparata un vero discorso», spiega. «Quando ho visto tutte quelle persone mi sono sentita svenire. Ma ho pensato: “Gesù mi hai fatto arrivare fin qui, adesso tocca a te!”». Rose, dopo qualche tentennamento di commozione, inizia a parlare ripetendo ciò che ha sempre detto a chiunque abbia incontrato sulla sua strada: «Tu, in qualsiasi condizioni ti trovi ora, hai un valore. Sei prezioso. Povero, ricco, malato, moribondo non è la morte a definirti». Parole che lei per prima si sentì dire da don Giussani, quando in crisi e schiacciata dal peso delle opere che con lei erano nate, lui la guardava come a un tesoro inestimabile. Chi era don Giussani e come abbia sostenuto il suo lavoro è la presentatrice del festival a spiegarlo alla platea: «Rose, guidata dall’incontro formativo con don Giussani, il sacerdote italiano che ha fondato il movimento di Comunione e Liberazione, ha potuto scoprire la sua chiamata ad aiutare le persone».

 

Chiamata che si è concretizzata nel tempo in alcune opere come la Welcoming House, che raccoglie neonati abbandonati nelle pattumiere di Kampala, la Luigi Giussani Primary e High School e il Meeting Point International. Rose, continuando il suo discorso, ne descrive il cuore: «Distribuiamo farmaci, paghiamo le rette, facciamo counseling, ma le cose materiali sono solo degli strumenti perché ciascuno che arriva da noi si senta accolto, riconosca la dignità infinita che ha. A chiunque diciamo: “Guarda che sei di più di ciò che riesco a darti”».

La cerimonia si conclude con le parole di Sadhguru, uno dei più popolari guru indiani contemporanei e discepolo di Sai Baba, che dopo aver consegnato il premio a Rose, dice: «Ci sono persone a questo mondo mosse da un amore puro e questo è il motivo per cui in un mondo sempre più diviso c’è ancora la pace. Magari non si tratta di grandi organizzazioni, ma di persone semplici, che spaccano le pietre e fanno collane per raccogliere soldi da mandare a nazioni apparentemente più ricche di loro (si riferisce alle donne del Meeting Point, ndr) perché riconoscono che l’altro ci appartiene, e se ne fanno carico. È solo questo a tenere ancora il mondo insieme. Sono le donne e gli uomini che fanno la volontà di Dio qui sulla terra».

Quando Rose, prima di far ritorno a Kampala saluta Sadhguru, gli dice: «Non ho ancora capito come avete pescato proprio me in Uganda. Ma vi ringrazio perché lontano da casa mi sono sentita a casa. C’è qualcosa nel tuo volto che brilla. È la presenza del Mistero che fa me e te». Sadhguru le regala la stola e il monile d’oro che ha al collo e le sussurra: «Puoi chiedermi quello che vuoi. Ma una cosa te la chiedo io: l’anno prossimo voglio venire a trovarti. Voglio venire a vedere».   

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Sacro Cuore. Quarant’anni di mattoni

 



Sacro Cuore. Quarant’anni di mattoni

La Fondazione dell'Istituto alle porte di Milano festeggia il suo anniversario con una giornata dedicata a una costante della sua storia: la passione educativa ispirata da don Giussani. Sono intervenuti, tra gli altri, Davide Prosperi, Rose Busingye e Hans Broekman

 

15.10.2025

Maurizio Vitali

Il quarantennale della Fondazione Sacro Cuore

Una scuola festeggia il quarantesimo non con un’autocelebrazione, ma con un grazie al carisma da cui tutto è nato e fluisce: il carisma e il metodo educativo di don Luigi Giussani. È il “Sacro Cuore”. Nel salone del teatro dell’istituto di via Rombon, a Lambrate, periferia di Milano, non sono pochi quelli che ci hanno messo, nel 1985, il loro “mattone”, o i loro mattoni, cioè un contributo di cinquecentomila lire (o multipli, potendo) per l’acquisto dell’immobile da parte della Fraternità di Comunione e Liberazione. 

Lo ha ricordato Marco Bersanelli, astrofisico, presidente della Fondazione Sacro Cuore, in apertura del convegno intitolato “Certi di un bene più grande. Quarant’anni di passione educativa”, svoltosi l’11 ottobre. Sottolineando l’esplicita volontà di don Giussani di realizzare un esempio con cui tutti potessero confrontarsi, e sottolineando anche il valore indimenticabile dell’irruente e appassionata guida del primo rettore, don Giorgio Pontiggia. L’“esempio” è un complesso con un’offerta educativa che va dalla scuola materna ai licei (classico, scientifico e artistico) con 100 insegnanti e 1200 alunni.

Un grazie, si diceva, al carisma educativo di don Giussani. Ma anche un approfondimento di esso, «per dare continuità a quella storia nelle condizioni odierne e nel futuro», ha ricordato Bersanelli.

È toccato a Davide Prosperi, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione - e a suo tempo alunno del Sacro Cuore - il compito di tratteggiare “L’originalità della proposta educativa di don Giussani”. Il seguito del convegno è stato dedicato a testimonianze di alcuni “frutti significativi” del carisma e dell’opera: dalle scelte vocazionali e professionali di ex alunni (Daniele Gomarasca, rettore de La Zolla; Daniele Alberzoni, monaco del monastero benedettino della Cascinazza), alle realizzazioni nel mondo (Hans Broekman a Liverpool, Rose Busingye a Kampala).

Intervistato da Bersanelli, Prosperi condensa in tre capisaldi il metodo educativo giussaniano: 1) proporre adeguatamente il passato, cioè la tradizione, 2) come ipotesi di significato nel vissuto presente; 3) educazione alla critica, «cioè alla verifica, che chiama in causa», ha sottolineato Prosperi «la libertà del ragazzo e nel contempo il suo bisogno di essere accompagnato». Insomma «lo scopo ultimo è liberare i giovani! Liberarli, attraverso l’educazione, dall’alienazione che rende schiavi».

E come affrontare l’estrema fragilità, che oggi si manifesta, la dipendenza digitale o dalla droga, l’inedita frequenza dei disturbi dell’apprendimento? Con quali criteri?

«Tante volte il dramma dei giovani è di non sentirsi performanti, non all’altezza della performance cui si sentono disperatamente obbligati. La strada è, in un rapporto, fare emergere le vere esigenze del cuore e proporre una risposta positiva di cui l’adulto fa già esperienza, che è disponibile a condividere con i ragazzi che gli sono affidati». Non a caso don Pontiggia «considerava la scuola occasione di un cammino per tutti, per gli alunni, ma anche per gli insegnanti». Non è mancato uno sguardo sulla situazione italiana ed europea, per dichiarare, da parte del presidente della Fraternità di Cl, la necessità e la volontà di «riaprire un dibattito sulla libertà di educazione per il futuro del Paese».

 

Don Pontiggia riappare come protagonista di un episodio decisivo nella vita dell’allora quindicenne Daniele Gomarasca, oggi Rettore della Scuola La Zolla di Milano. Andò così: «Me ne stavo in fondo all’aula dove don Giorgio guidava un raduno religioso, preoccupato soprattutto di non farmi notare. Lui l’irruenza, io la timidezza. A un certo punto: “E tu, Gomarasca, che cosa ne pensi?”. Mi sentii un faro puntato addosso. Lui mi conosceva! Era attento a me. E la sua domanda era vera, non un artificio. Ecco: al vero ci si approssima cercando insieme in un cammino condiviso». Non solo da don Giorgio. Anche da certi insegnanti si riceve molto. Quelli che «non considerano l’alunno come cassa di risonanza delle loro sequenze già note». E la scelta di dedicarsi alla scuola? «Per il desiderio di restituire a tanti altri quello che insieme avevamo ricevuto».

Gli insegnanti possono lasciare un segno indelebile. Lo documenta anche Daniele, monaco benedettino. Di uno ricorda: «Ho scoperto in lui una stima per l’umano, per la mia umanità, più di quanto mi stimassi io. Per lui io ero una persona con cui coinvolgersi, non un problema da risolvere. Io sono stato abbracciato prima di ogni mia risposta». Di un altro prof, ricorda l’amore alla libertà e alle ragioni. Racconta l’episodio. Una ragazza: «Prof, possiamo iniziare la scuola con la preghiera?». «Perché?», fu la risposta. «No, finché non mi date una ragione». «Ecco, essere sfidati sulla ragioni», aggiunge il monaco, una grande lezione. «Nello stesso tempo ho fatto una grande esperienza di paternità con don Giorgio e con dei prof che hanno rischiato, se stessi con le mie domande. Fino a comunicarmi, specie don Pontiggia, il senso del Mistero: “Io sono tu che mi fai in questo momento”».

L’ultima parte del convegno, prima del saluto finale dell’attuale Rettore, don José Miguel García, si intitolava “Apertura al mondo”.

Hans Broekman, insegnante di lungo corso di Liverpool, venne folgorato da don Giussani per tramite della precedente folgorazione avuta da don Albacete, sacerdote, giornalista e intellettuale statunitense di grande fama, ciellino. La prima folgorazione da Albacete avviene nel settembre 2001, quando Broekman lo sente commentare in televisione la strage delle Torri Gemelle, in modo straordinario e diverso dagli altri. La seconda quando scoppiò la pandemia da Covid. «Chissà cosa direbbe Albacete se fosse vivo?». Su youtube trova un video in cui parla di don Giussani. Broekman legge tutto quello che trova di Albacete e di Giussani. Dopo la lettura de Il rischio educativo, gli scoppia dentro un pensiero: «Lo scriverei io, se fossi un genio». In compenso ha scritto un testo che espone le idee di don Giussani «in modo che gli inglesi potessero meglio capirle».

Da allora Broekman si è impegnato per cambiare il metodo della scuola. E a introdurre il principio della “coerenza”, intendendo che l’educazione non è riducibile all’istituzione, ma «tutto comincia dall’insegnante, dalla sua persona». Ora Broekman ha scelto di essere cappellano (laico) del Holy Family Trust, proprio per compiere il cambiamento di rotta.

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domenica 5 ottobre 2025

Pizzaballa. «Rimanere nell’amore»

 



Pizzaballa. «Rimanere nell’amore»

La lettera del cardinale a tutta la diocesi del Patriarcato Latino di Gerusalemme: «La fine delle ostilità a Gaza è solo il primo passo. La resa dei conti non ci appartiene, né come logica né come linguaggio. Come Chiesa siamo chiamati a testimoniare la fede nella passione e risurrezione di Gesù. Ci uniamo all’invito del Papa per una giornata di digiuno e preghiera»

 

A tutta la diocesi del Patriarcato Latino di Gerusalemme

Carissimi fratelli e sorelle,

il Signore vi dia pace!

Sono due anni che la guerra ha assorbito gran parte delle nostre attenzioni ed energie. È ormai a tutti tristemente noto quanto è accaduto a Gaza. Continui massacri di civili, fame, sfollamenti ripetuti, difficoltà di accesso agli ospedali e alle cure mediche, mancanza di igiene, senza dimenticare coloro che sono detenuti contro la loro volontà.

Per la prima volta, comunque, le notizie parlano finalmente di una possibile nuova pagina positiva, della liberazione degli ostaggi israeliani, di alcuni prigionieri palestinesi e della cessazione dei bombardamenti e dell’offensiva militare. È un primo passo importante e lungamente atteso. Nulla è ancora del tutto chiaro e definito, ci sono ancora molte domande che attendono risposta, molto resta da definire, e non dobbiamo farci illusioni. Ma siamo lieti che vi sia comunque qualcosa di nuovo e positivo all’orizzonte.

 (...)

Leggi la lettera del cardinale sul sito del Patriarcato Latino di Gerusalemme



giovedì 2 ottobre 2025

Paraguay. Il mendicante e la casa ritrovata

 



Paraguay. Il mendicante e la casa ritrovata

Padre Pato racconta della caritativa con i senzatetto alla stazione degli autobus ad Asunciòn e di come l’incontro con un uruguayano affamato e bisognoso abbia cambiato la vita della parrocchia di San Rafael

 

02.10.2025

Patrizio Hacin

Parroco nella chiesa di San Rafael ad Asunciòn (Paraguay)

Era arrivato a piedi dall’Uruguay. Aveva sentito dire che in Paraguay ci sarebbero state più opportunità per ricominciare ma si era ritrovato povero e senza nulla. Lo incontrammo un venerdì vicino alla stazione degli autobus di Asunción, dove andiamo a fare caritativa. Era in fila ad aspettare la cena ed era arrabbiato: secondo lui eravamo molto male organizzati, quando ricevette il cibo si adirò perché ne voleva di più. Mi avvicinai e lo abbracciai. Quindici giorni lo rivedemmo. Fu molto più gentile e decise di fermarsi con noi fino alla fine della giornata (oltre alla distribuzione del cibo, infatti, pensiamo sempre a un momento di canti insieme). Così, poco a poco, nacque tra noi una piccola amicizia.

Qualche giorno più tardi si presentò nella nostra parrocchia di San Rafael, che si trova in una zona periferica della città. Era un lunedì, giorno che noi sacerdoti della Fraternità San Carlo Borromeo riserviamo al riposo, alla preghiera e al dialogo tra noi. Chiese alla segretaria di me, con molta insistenza. «Sono un suo amico», le disse. La segretaria mi avvisò che mi stava aspettando. Uscii a vedere chi fosse, ed eccolo lì, il mio disordinato amico uruguayano. Ricordo ancora le sue parole: «Ciao, padre. Sono venuto a vedere se ha bisogno di qualcosa, magari posso aiutarvi in parrocchia. Io posso lavorare e voi in cambio mi date da mangiare». Mi sorprese questo suo slancio, così accettammo. Del resto abbiamo un grande giardino da tenere pulito e due braccia in più possono fare comodo.

Durante una pausa dal lavoro, mi raccontò parte della sua storia. Sicuramente non mi disse tutto, ma non importa. Negli ultimi tempi, spiegò, gli era toccato vivere e dormire nella sala d’attesa della stazione degli autobus. Pochi giorni dopo questo nostro dialogo, proprio la stazione divenne teatro di un’operazione di sgombero da parte delle forze dell’ordine perché era emerso un traffico di minori nell’area, da sempre segnata da spaccio, prostituzione e tratta di esseri umani. Tutti i senzatetto furono costretti ad allontanarsi, proprio in un momento in cui faceva insolitamente freddo per la nostra regione. Ancora una volta, l’amico uruguayano tornò a bussare alla nostra porta. Chiedeva un luogo dove poter dormire e poiché abbiamo una sala incontri con un divano, gli permettemmo di passare lì la notte. Gli altri lavoratori che ruotano intorno alla nostra chiesa si preoccuparono per lui: lo aiutarono a lavarsi, a cambiarsi e condivisero con lui il cibo.

Alcuni giorni dopo, qualcuno gli offrì un lavoro in un’altra città, a circa 200 km da Asunción. Con il piccolo compenso che aveva ricevuto da noi per il suo operato se ne andò, lasciando solo un biglietto diceva: «Grazie di tutto, padre. Vado a lavorare fuori città». Provai una strana tristezza, e anche i lavoratori rimasero delusi dalla sua decisione. Neanche 48 ore dopo, però, lo vedemmo tornare. Per noi fu una grande gioia, ma lui era molto abbattuto: l’avevano ingannato con la proposta di lavoro. A pranzo, emozionato, ci disse: «Non sarei mai dovuto andare via da qui. Devo imparare a fidarmi».

«La sua presenza ci ha smossi, ha fatto maturare l’amicizia tra noi sacerdoti e i lavoratori della parrocchia. Avere una casa, aprirla e far parte della sua costruzione è la cosa più bella che un uomo possa avere come orizzonte nella vita»

Quando in tavola arrivò l’asado, timidamente aggiunse: «Erano anni che non mangiavo così, a tavola con amici. Non credo di poter mangiare molto, perché devo mantenere lo stomaco piccolo per non soffrire la fame. Non so fino a quando tornerò a mangiare». Fu un momento duro e commovente. Il giardiniere della parrocchia, un uomo timido e di poche parole, ruppe il silenzio mentre gli serviva la carne: «Con noi mangerai sempre».

Quel giorno – era un venerdì – nel pomeriggio noi sacerdoti tornammo in stazione per la consueta caritativa e il nostro amico volle aiutare a preparare il cibo da distribuire. Non posso dimenticare il dialogo che accadde in auto. Ci disse: «Che grande miracolo. Due settimane fa aspettavo che voi arrivaste perché avevo fame, e oggi Dio mi fa sentire cosa significa essere aspettato». Quando arrivammo, alcune persone lo riconobbero. Era pulito e rasato per cui gli chiesero come fosse possibile quel cambiamento. Lui rispose, ancora una volta, di essere stato accolto nella nostra parrocchia.

Alcuni tossicodipendenti mi chiesero allora se potessero vivere anche loro con noi. Non potevo portarli tutti a vivere da noi, anche se avrei voluto, ma proposi di cercare insieme un lavoro. Il giorno dopo, tre di loro si affaccendavano a tener pulito intorno alla parrocchia. Non hanno smesso di venire. E non per chiedere solo denaro come in passato, ma per lavorare, per impiegare il proprio tempo in maniera utile.

Non sono mancati momenti difficili. Vicino alla parrocchia c’è un’officina meccanica il cui proprietario è uruguayano, così gli chiesi se potesse assumere il suo connazionale. All’inizio rifiutò perché è piuttosto rischioso assumere qualcuno preso dalla strada, senza documenti né casa. Dopo qualche tentennamento e qualche rassicurazione, accettò. I primi giorni andarono bene finché il nostro amico non si presentò al lavoro ubriaco,  causando quasi un incidente. Il meccanico mi chiamò spiegandomi di non potersi davvero più fidare e avvertendomi di non rischiare più ad aiutare quell’uomo. «So però che non mi darà ascolto. voi preti siete tutti matti».

Nel pomeriggio l’amico uruguayano venne da noi confessando l’accaduto e chiedendo perdono. Quando gli altri lavoratori della parrocchia seppero dell’accaduto invece di scandalizzarsi hanno insistito perché noi sacerdoti potessimo offrirgli una piccola stanza con bagno nell’attesa che lui trovasse un lavoro. Pensai al rischio, alle parole del proprietario dell’officina, ma sulla mia paura prevalse lo sguardo di carità di quegli uomini.

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/padre-pato-hacin-san-rafael-paraguay-caritativa#:~:text=CHIESA-,Paraguay.%20Il%20mendicante%20e%20la%20casa%20ritrovata,ultime%20settimane%2C%20il%20mendicante%20sia%20diventato%20il%20vero%20protagonista%20della%20Storia.,-CHIESA


domenica 21 settembre 2025

Padre Ielpo. «La fraternità è una necessità»


 

Padre Ielpo. «La fraternità è una necessità»

Il Custode di Terra Santa sul senso della sua nuova missione. «A volte basta un incontro imprevisto, anche dentro un’agenda piena di impegni, per accorgermi che Cristo non mi lascia mai solo»

 

18.09.2025

Maria Acqua Simi

Ci incontriamo a Milano, nella sede dell’associazione Pro Terra Sancta, l’ong che da anni sostiene l’opera della Custodia. Padre Francesco Ielpo, eletto da pochi mesi Custode di Terra Santa, è in Italia per pochi giorni prima di rientrare a Gerusalemme. La sua casa adesso è là, nel convento di San Salvatore insieme ad altri 78 frati minori, ma la sua missione abbraccia anche Siria, Giordania, Libano, Cipro e Rodi e alcuni conventi in Egitto, Italia, Stati Uniti d’America e Argentina.

Ci abbiamo messo un po’ per ottenere questa intervista, non perché il personaggio sia refrattario a parlare con la stampa ma perché incarna esattamente l’abito che porta: essenziale. «Parlo solo se ho qualcosa da dire», dice sommessamente, quasi a schermirsi. Questa volta di cose però ce ne sono state, da raccontare.

 

Padre Francesco, lei si è ritrovato in un ruolo difficile e di grande responsabilità in uno dei momenti forse più delicati per la Terra Santa e il Medio Oriente. Come lo sta affrontando?

Fin da subito ho avvertito una sproporzione tra quello che sono e l’incarico che ricopro. Se dimentico che sono al servizio dell’ordine dei frati minori e dei cristiani di Terra Santa, provo una vertigine perché le forze sembrano non bastare mai. E certamente la responsabilità potrebbe spaventare, anche perché la situazione è delicata. Mi sono tornate spesso alla mente le parole del cardinale Giovanni Montini, poi Paolo VI, contenute nei suoi diari. Vado a memoria, sono passati più di quindici anni da quando le ho lette, ma diceva che più crescono le responsabilità all’interno della Chiesa, più si rischia di assomigliare sempre di più alle statue sulle guglie del Duomo di Milano: tutti ti vedono, ma sei solo. È un’immagine vera, perché non hai più qualcuno con cui condividere tutto, resti tu con la tua coscienza davanti a Dio e con le tue scelte da prendere. Quello che sperimento, però, è una solitudine abitata. Perché, accanto a me, ci sono sempre volti di amici nuovi, donati, che magari non avrei scelto e che sono diversi dagli amici di una vita, ma che il Signore mi mette accanto per ricordarmi chi fa davvero tutte le cose. Così, a differenza di quelle statue sul Duomo, in questa nuova missione non mi sta mancando una compagnia. A volte basta un incontro imprevisto, anche dentro un’agenda piena di impegni, per accorgermi che Cristo non mi lascia mai solo.

Lei del resto ha ripetuto più volte che la sua è una missione da vivere nella fraternità. Ci sta riuscendo?

Per grazia di Dio sì. Non si può vivere senza compagnia, senza la manifestazione concreta della prossimità di Cristo. Spesso si palesa in maniera impensabile. Una sera mi trovavo a Roma con alcuni provinciali dei frati minori, prima di tornare a Gerusalemme. Salutando uno di loro, che non conosco benissimo ma che stimo, chiesi se avesse una parola da dirmi prima di partire. Mi rispose solo: «Cercati un amico». È stato il consiglio più bello. Non si può vivere una vita senza amici. Credo che si possa vivere senza moglie o marito, come la vita consacrata o sacerdotale dimostrano, ma nessuno può vivere senza amici. Anche Gesù non ha potuto farne a meno.

Lei vive nel convento di San Salvatore, quindi in una quotidiana esperienza di comunità…

Sì, siamo 78 frati, ci sono anche gli studenti di teologia e i frati più anziani. Siamo in tanti ed è prezioso riaccorgersi che anche la vita comunitaria ha bisogno di una regola. Perché la regola aiuta a mettere i paletti che custodiscono il cuore di ciascuno. Essere fedeli agli appuntamenti, ai gesti comuni, alla preghiera è un grossissimo aiuto a non disperdersi e a non isolarsi. La fraternità è una necessità.

Difficoltà incontrate in questi primi mesi da Custode?

Una è sicuramente quella del linguaggio. Non conoscere l’arabo, dover parlare sempre tramite interprete, ridurre concetti a me cari a parole semplificate… Dentro al lessico passa tutta la tua cultura, tutta la tua tradizione e la tua storia in fondo. Mi crucciavo molto di questo ma ho scoperto che esiste un linguaggio universale, più diretto: la persona stessa, il modo in cui ti poni. A volte quello che resta non è un discorso, ma un sorriso, una pacca sulla spalla, un abbraccio. Francesco d’Assisi e il sultano, quando si incontrarono ottocento anni fa, non parlavano la stessa lingua, ma avevano forse la stessa posizione del cuore. È lì che nasce la possibilità di incontro. Ecco, sto imparando che il Signore non vuole da noi abilità particolari, ma ci chiede la disponibilità affinché sia Lui a operare attraverso di noi. Per questo dico che il compito del custode è – ne sono sempre più convinto – custodire la posizione del cuore.

Da dove nasce questa intuizione?

Un’amica una volta mi ha detto: «Ricordati che la prima opera sei tu». Alla fine, la questione è questa: custodire il proprio cuore, cioè la posizione di apertura al Mistero. Custodire la propria vocazione, perché se la prima opera sono io, il primo lavoro da fare è su me stesso. Se non lo facessi, diventerei un funzionario, un diplomatico, uno che gestisce tante cose ma perde la verità di sé. Questa missione è impegnativa, spesso faccio esperienza dell’impotenza: ci sono cose che non si possono cambiare come la guerra o le piccole mancanze che ognuno di noi può avere. Sembra una banalità, ma ogni tanto bisogna ricordarsi che certe cose brutte resteranno tali per quanti sforzi, idee, intelligenza mettiamo in campo. Questo non significa non adoperarsi perché le circostanze migliorino, ci mancherebbe. Ma sto imparando quanto sia decisivo guardarle in tutta la loro drammaticità portandole come le avrebbe portate Cristo. Non disperati, ma con uno sguardo che non perde la speranza.

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/padre-francesco-ielpo-custode-terra-santa#:~:text=CHIESA-,Padre%20Ielpo.%20%C2%ABLa%20fraternit%C3%A0%20%C3%A8%20una%20necessit%C3%A0%C2%BB,Non%20perderti%20il%20meglio,-Uno%20sguardo%20curioso

Un tema molto dibattuto è quello della presenza cristiana in Medio Oriente. Cosa significa restare mentre tutto intorno crolla?

Il nostro primo compito è esserci. È la lezione di otto secoli di Custodia: la Chiesa non chiede dei supereroi, ma una presenza che resta. A Gaza i religiosi avrebbero potuto andarsene dopo il 7 ottobre, molti di loro hanno passaporto internazionale, e invece sono rimasti accanto alla gente. Non risolveranno il conflitto, ma testimoniano che Dio non abbandona nessuno. Anche in Siria, negli anni dell’occupazione jihadista, i nostri frati sono rimasti nei villaggi cristiani dell’Oronte subendo rapimenti e minacce. In quel momento per noi sembrava tutto difficile e buio. Nel tempo, però, anche i jihadisti hanno dovuto fare i conti con la presenza cristiana, che è diversa da tutte le altre. Lo hanno riconosciuto. E ora che sono al governo in Siria hanno un’idea di cosa sia il cristianesimo proprio grazie a quegli anni. Non cambiamo il mondo con la forza, ma con la fedeltà di una presenza.

Molti cristiani, però, scelgono di lasciare la Terra Santa. Come vive questo fenomeno?

È doloroso, certo. Ma non spetta a noi dire a una famiglia “devi restare” o “devi partire”. La Custodia accompagna chi resta, senza giudicare chi parte. Però ho capito una cosa: non basta garantire scuole, sanità o lavoro perché le persone restino. Certo noi frati – anche attraverso la nostra ong Pro Terra Sancta – ci adoperiamo per un sostegno concreto, soprattutto in Cisgiordania dove da due anni l’80 per cento della popolazione è senza lavoro, non esiste welfare e le famiglie faticano a pagare le rette scolastiche e ad arrivare alla fine del mese. Per rimanere però serve una ragione più profonda. Come custode sento l’urgenza di aiutare la gente a trovare le ragioni per cui in ogni circostanza della vita, in qualunque condizione, è possibile vivere ed essere uomini liberi.

 

martedì 16 settembre 2025

PALESTINA/ La pietà e la memoria: Anna Foa e la tragedia di Gaza


 

PALESTINA/ La pietà e la memoria: Anna Foa e la tragedia di Gaza

Massimo Borghesi Pubblicato 14 Settembre 2025

 

Di fronte al genocidio perpetrato dal governo di Israele, Anna Foa su "La Stampa" propone di dare, ove possibile, un nome ai palestinesi

Anna Foa è una storica di professione ed è ebrea. Il suo ultimo libro, vincitore del premio Strega, ha un titolo significativo: Il suicidio di Israele (Laterza, 2024). Sabato 13 settembre ha pubblicato su La Stampa un articolo, Dall’Egitto a Gaza, il dolore dell’esodo, che non può passare sotto silenzio. È un testo breve di grande bellezza. In esso scrive:

 

“Nelle raffigurazioni delle Haggadoth medioevali, il libro letto a Pasqua dagli ebrei, l’esodo dall’Egitto è rappresentato in vesti medioevali: gli ebrei sono raffigurati come nelle espulsioni che nel Tre-Quattrocento ne resero difficile la vita in Europa. Se ne andavano con i loro averi trasportati sui carri, uscendo dalle porte delle città, dopo che i decreti cittadini li avevano scacciati. Con le loro vesti medioevali, i loro cappelli segno di infamia, le loro donne e i loro bambini. Se oggi dovessimo fare altrettanto, la nostra immagine dell’Esodo sarebbe quella che vediamo nei video trasmessi dalla televisione, della lunga fila di macchine, furgoni, carretti che portano i palestinesi di Gaza City verso Sud, sgombrando la città per distruggerla dalle fondamenta. I carri medioevali hanno ora il motore, ma la lunga fila è la stessa, il dolore dell’esilio lo stesso”.

Ciò che è diverso, osserva la storica, è il rischio della morte. Gli ebrei esiliati potevano, nel Medio Evo, trovare rifugio altrove, rifarsi una vita. A Gaza questo è impossibile, i profughi, stretti in un lembo di terra divenuto una prigione, non sanno dove andare. Ogni posto, i campi profughi, le case, le tende in riva al mare, sono potenziali luoghi di morte. Questa consapevolezza muove Anna Foa a porsi una domanda che oggi nessuno pone, una domanda che va al cuore della tragedia, oltre la guerra che divide due popoli.

 

“Chi sono coloro che si muovono in queste lunghe interminabili file? Di alcuni di loro abbiamo notizie, perché ne conosciamo il nome, hanno insegnato nelle università, lavorato negli ospedali, dato come giornalisti notizie che solo i giornalisti di Gaza erano autorizzati a trasmettere. Di altri, vecchi, donne, bambini, nulla sappiamo se non il dolore che leggiamo sui loro volti senza sorriso. Ma l’ordine di evacuazione varato dal governo di Israele azzera le vite di tutti. Non ci sono più privilegiati, se non coloro che hanno abbastanza denaro per farsi aiutare nella fuga, ma per andare dove? Amici, amici di amici, scrivono chiedendo di essere aiutati a uscire da quella prigione a cielo aperto. Ma come?”

“Le difficoltà burocratiche, quelle politiche e militari dell’esercito e del governo israeliano, quelle stesse della inenarrabile confusione di questo esodo lo rendono difficilissimo, forse impossibile. L’ossessione israeliana per i muri, i checkpoint, le proibizioni di muoversi trova qui la sua mortale apoteosi. Quanti di questi individui in fila per salvarsi sopravviveranno? E potremo mai ricordare i nomi di chi non ci riuscirà, leggerli un giorno come il cardinal Zuppi ha letto giorni fa quelli dei bambini morti in questi mesi a Gaza?”

 

La Foa applica qui, ai palestinesi, la legge della pietà, quella della memoria, la stessa che gli ebrei sopravvissuti alla Shoah hanno adottato verso coloro che sono diventati cenere nei forni crematori. Si tratta, da parte di un’autrice ebrea, di una posizione coraggiosa, rischiosa, che comprende come anche il nemico, il popolo che ti odia, possa essere una vittima. Vittima da parte di uno Stato fondato dalle vittime dell’Olocausto che, in esso, ha trovato la sua legittimità che oggi sta perdendo per una reazione spropositata, crudele, disumana al vile attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.

Un attacco che ha allargato a dismisura il fossato tra ebrei e palestinesi offrendo a Netanyahu l’occasione per portare a termine il “lavoro sporco”, secondo la definizione del primo ministro tedesco Friedrich Merz. Nel lavoro sporco non può esservi pietà per l’avversario, anche se esso nulla ha a che fare con i crimini di Hamas.

Impedire la pietà, da parte di Israele, da parte del mondo, implica il venir meno dell’informazione, togliere voce e volto alle vittime. Per questo più di 200 giornalisti sono stati uccisi a Gaza. Nel circuito mediatico mondiale, attivo 24 ore su 24, Gaza è un buco nero. Lo è la Cisgiordania nella quale la quotidiana violenza dei coloni israeliani verso i palestinesi è oggetto di narrazione ma non di immagini. Lo Stato non lo consente. È in questo buco nero che si colloca la proposta di Anna Foa.

 

“E allora, cominciamo a ricostruire, attraverso gli scarsi frammenti che ne abbiamo, i nomi, i volti, le età, le professioni di alcuni di loro. È possibile. Vediamo di non cogliere in quelle lunghe file di esiliati solo numeri, ma vite. Vite troncate, forse distrutte, ma vite da ricordare, da ricostruire nella nostra mente. Lo facciamo, lo abbiamo fatto, per la Shoah, ridando nomi e storie ai sommersi. Allora, lo abbiamo fatto dopo, dopo che erano stati distrutti. E se ora provassimo a farlo quando coloro che sono destinati alla morte sono ancora in vita, quando temono per le vite dei loro figli? Una memoria immediata, di ciò che sta accadendo ora. Forse getterebbe un po’ di luce su quel milione di esseri umani in movimento, forse, chissà, ne salverebbe alcuni. È difficile ma possiamo almeno provarci. Di fronte alla negazione che questa tragica storia comporta della loro umanità, è una delle vie per ricordare che sono esseri umani uguali a noi”.

“Lo abbiamo fatto per la Shoah, ridando nomi e storie ai sommersi”. Il grande cuore di Anna Foa non si ferma all’ideologia, incancrenita dall’odio, non indugia al mito dell’eccezionalità di Israele.

 

Al contrario vuole estendere anche agli altri, ai palestinesi, la dimensione vittimaria. Fare quello che gli ebrei hanno fatto per la Shoah significa oggi dare un nome ai profughi di Gaza. Salvarli significa farli uscire dall’anonimato, quello che facilita le uccisioni indiscriminate di uomini, donne, bambini.

èUn palazzo bombardato, una tendopoli, un ospedale, una scuola: così, a caso, la morte arriva dal cielo. Cade su uomini senza volto che nemmeno le immagini strazianti che filtrano dalla Striscia riescono a restituire. La pietà non è destata dalle masse di poveracci che vagano, senza sosta e senza meta, non dalle donne straziate che urlano di dolore. I volti impietriti dei prigionieri ad Auschwitz, con le teste rasate e gli indumenti logori, non destavano alcuna compassione negli aguzzini del campo.

Pietà e compassione sorgono non di fronte alla folla dei miserabili, che scorre ogni giorno nei nostri telegiornali, ma di fronte ad un volto nella folla. In articolo di alcuni anni fa, dal titolo Spielberg, Manzoni e i colori della pietà, Adriano Sofri scriveva:

 

“Le fosse comuni, le cataste degli sterminati, riempiono di orrore e fanno distogliere lo sguardo, mentre la pietà è singolare. L’occhio della misericordia ha bisogno di scegliere, o essere scelto, da una figura e su quella fissare angoscia, simpatia, smania di soccorso. Questo fanno le immagini, e prima di loro i racconti. Sollevano dal bassorilievo di fondo dove giacciono i caduti o languono i malati o si trascinano i deportati, una figura a tutto tondo, un bambino di Varsavia con le mani alzate e la stella sul cappotto, un miliziano che stramazza, una bambinetta vietnamita che corre singhiozzando, una madre algerina impietrita dal dolore, una piccola Leyla sarajevese con l’orbita vuotata da un cecchino. Soprattutto lo spettatore del genocidio ha bisogno di aggrapparsi ad un corpo, ad un viso, un nome, per non essere schiacciato e soffocato dal mucchio smisurato di morti, da quel forsennato delirio di quantità che ne ispirò e ubriacò gli autori. I milioni di morti sono troppi per non togliere il fiato e le forze. Fermando lo sguardo su un punto noi compiamo una specie di adozione, che ci lascia di nuovo respirare e piangere, e ridiventare capaci di figurarci anche il grande numero”.

 

L’universale, il dramma collettivo, può essere abbracciato e condiviso solo partendo dal particolare, dallo “sguardo su un punto”.

(…)

https://www.ilsussidiario.net/news/palestina-la-pieta-e-la-memoria-anna-foa-e-la-tragedia-di-gaza/2881124/#:~:text=CULTURA-,PALESTINA/%20La%20piet%C3%A0%20e%20la%20memoria%3A%20Anna%20Foa%20e%20la%20tragedia,governo%2C%20del%20presidente%20che%20ha%20rinnegato%20la%20memoria%20della%20Shoah.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94

 

Questo è quanto Anna Foa ha pienamente compreso. Siamo tutti spettatori della tragedia di Gaza, della follia criminale del governo di Netanyahu che sta infangando il nome di Israele nel mondo. Eppure quella tragedia arriva a noi, a noi che la contempliamo in diretta, anestetizzata. Ci mancano i nomi, i volti, le storie, per sentirla nostra. Come nostra ci è apparsa, da subito, la vicenda di padre Gabriel Romanelli e della comunità della Sacra Famiglia a Gaza quando la chiesa è stata bombardata.

Il colpo sparato dal tank ha sollevato, per reazione, un moto di sdegno e di solidarietà mondiale al punto che Netanyahu ha dovuto scusarsi con il Papa. Padre Romanelli è il parroco della piccola comunità palestinese di Gaza. A lui papa Francesco telefonava ogni giorno prima della sua morte.

Dovremmo e vorremmo conoscere altri volti oltre a quelli del sacerdote, volti non di Hamas che tiene prigioniero il suo popolo ed è causa della sua tragedia, ma del popolo palestinese. Così il moto di compassione potrebbe divenire universale e la condanna verso l’oppressore divenire oceanica. Una condanna non degli ebrei ma del loro governo, del presidente che ha rinnegato la memoria della Shoah.


giovedì 11 settembre 2025

LETTURE/ “Fidei Communio”, così la teologia rinasce dall’esperienza


 

LETTURE/ “Fidei Communio”, così la teologia rinasce dall’esperienza

Elia Carrai Pubblicato 11 Settembre 2025

 

Una nuova rivista di teologia, in continuità con la "Communio" fondata da von Balthasar, de Lubac e Ratzinger, ma consapevole dei tempi nuovi

 

‘Fidei Communio’ nasce come ponte fra la grande stagione conciliare e le sfide del presente. A cinquant’anni dall’avventura di Communio – la rivista fondata da von Balthasar, de Lubac e Ratzinger per custodire l’insegnamento del Concilio – un gruppo di studiosi italiani e spagnoli rilancia oggi quell’intuizione dal di dentro di un mutato contesto storico.

Alla parola communio troviamo così affiancata la parola fides. Da un lato il termine communio lega idealmente il tentativo editoriale presente al progetto originario, dall’altro manifesta la rinnovata necessità di cogliere adeguatamente la portata di una parola la cui pregnanza teologica e ontologica chiede di essere ricompresa alla luce dei nuovi paradigmi relazionali sviluppatesi nello scenario socio-culturale.

L’aggiunta della parola fides sottolinea, come ulteriore necessaria specificazione per questo tempo presente, quella fondamentale “personale esperienza all’interno della quale si gioca la dinamica comunionale, offrendo in tal modo una particolare capacità di sguardo sulla realtà alla luce del vangelo […] Da una vera experientia fidei scaturisce, infatti, una rinnovata intelligentia fidei, che va nuovamente a illuminare e risemantizzare l’esperienza di fede del singolo. In questa dinamica personale, ogni io scopre la propria identità più profonda sempre e comunque in relazione al noi della Chiesa a cui appartiene” (Editoriale del primo numero).

Solo in un simile orizzonte – in cui la comunione sorge realmente dall’esperienza della fede – allora diviene possibile dare voce a un pensiero che non sorge come “interpretazione di maggioranza” della Chiesa e del mondo, in una disponibilità piuttosto a “cogliere la realtà – come leggiamo nell’editoriale – per come essa realmente è, e così andare incontro alle domande che albergano nel cuore di ogni uomo e donna; in secondo luogo, per generare un nuovo spazio libero, dove le diverse visioni della realtà, molto spesso anche contrapposte, possano entrare in dialogo tra loro”.

In un tempo in cui spesso “l’interessante diventa più importante del vero”, la rivista Fidei Communio invita così i lettori a riscoprire, con “la gioia del rischio e il coraggio della fede”, la serietà intellettuale di una ricerca che non teme di confrontarsi con le istanze culturali del nostro tempo.

Fidei Communio è interamente leggibile online e scaricabile in formato pdf open access, volendo essere uno strumento accessibile e condivisibile tanto nell’ambito della comunità accademica quanto per un più vasto pubblico: “la rivista non è legata ad alcuna particolare istituzione accademica, ma è il frutto di un lavoro sinergico diretto da diversi docenti, che vede il coinvolgimento di pensatori provenienti da ogni parte del mondo.

In secondo luogo, l’‘interdisciplinarità’: la rivista intende infatti farsi spazio all’interno del quale far entrare in dialogo tra loro diversi ambiti del sapere: dalla teologia alla filosofia, dalla storia alla sociologia, dalla politologia alla letteratura, ecc.

(…..)

https://www.ilsussidiario.net/news/letture-fidei-communio-cosi-la-teologia-rinasce-dallesperienza/2879841/#:~:text=CHIESA-,LETTURE/%20%E2%80%9CFidei%20Communio%E2%80%9D%2C%20cos%C3%AC%20la%20teologia%20rinasce%20dall%E2%80%99esperienza,%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94,-Abbiamo%20bisogno%20del

Elia Carrai (segreteria@fideicommunio.org)