LETTURE/
“Noi poeti, pescatori di parole o cercatori di chiavi smarrite”
Corrado Bagnoli Pubblicato 21 Novembre 2025
Rolle, Mandorlo, Vitale, Bregoli, Germani, Bellini, Bulfaro:
la poesia come ricerca del proprio personale mazzo di chiavi per abitare la
casa della vita
Ha davvero ragione il poeta Emiliano Rolle? Nelle sue
recentissime Filastrocche da un Oblò (MC, 2025), ironicamente riconoscendo che
di poesia se ne scrive anche troppa, “anche se con il sospetto fondato che non
serva non farlo”, Rolle sostiene che bisogna accenderle le poesie “e sperderle
perché accadano come le foglie… sperderle senza un commento/ senza un ritorno/
sperderle perché un giorno/ ai margini di un lieto evento/ può essere che ci
incontrino/ si accostino/ chiedano ancora/ se si è/ non facciano finta di
niente”.
Se fosse davvero questa la sfida? Quella di una parola che
vuole la dispersione? O piuttosto bisogna ascoltare il grido di Massimiliano
Mandorlo che, nelle sue Mappe del grande mare (MC, 2023), afferma invece: “e io
cerco/ parole celesti,/ nomi di vento/ qualcosa che duri/ tra la polvere e il
cielo”? Perché, dice sempre Mandorlo, “Noi non siamo fatti/ per la morte/ per
il vento siamo fatti/ e questa terra/ dona luce/ custodisce… canta in me/ prima
di me”.
In questo dialogo a distanza e immaginario tra i libri che
da qualche tempo stanno qui sulla scrivania e mi chiedono ascolto, penso alle
altre voci che si aggiungono. Quella di Marco Vitale che, anche lui, ne La
strada di Morandi (Passigli Poesia, 2024) si domanda “Questa sera di giugno
all’ora azzurra… come fermarla/ mentre s’affanna un ultimo/ del silenzio
trasvolo, un dono opaco/ una torsione per il limpido/ teatro che scolora?”.
Riconoscendo subito dopo “Quanta, ripenso, verità per quel silenzio/ e in quelle
pagine incantate, in quel dirsi/ come la vita almeno andasse scritta”.
Al fervore appassionato di Mandorlo che dice: “Con versi
come spade/ sguainate, con parole/ semplici e luminose/ camminiamo nel vento/
che affila i palazzi/ cercando l’invisibile/ luce delle cose”, sembra
rispondere o forse accostarsi il rigore quasi matematico della poesia di
Fabrizio Bregoli che nel suo Referti (Società Editrice Fiorentina, 2025)
rivela: “Hanno l’inquietudine di un silenzio/ sicario, una pentecoste di
lingue/ impronunciabili, i numeri. Scorie/ fossili. Omelia del nulla… Credili
un sanscrito i simboli, luce/ stremata su uno scaleno di ipotesi./ le formule,
un vangelo di menzogne. / Uno sbaglio./ (Come ogni poesia.)”
Sembra dunque che si scriva sguainando la parola come una
spada, cercando l’invisibile mistero che riluce nelle cose; ma si scriva anche
per dire quanta impotenza c’è nella parola. Finanche in quella della scienza.
Quasi fino ad arrivare al punto del silenzio, nel riconoscimento che “Tutto
quel mare nella notte/ e il vento, le onde/ scure/ in un abbraccio solo./ Tutta
quella vertigine/ fredda/ che chiama e dissolve,/ quella poesia/ che nessuno
mai scrive” rimane quasi lo statuto di ogni verso, come sembra dire Mauro
Germani in Prima del sempre (puntoacapo, 2024).
In questo vagare tra le voci di poeti che s’interrogano sul
destino della loro parola e della poesia tutta, ascolto ancora l’ultimo libro
di Marco Bellini, L’orizzonte che ci spetta (Ronzani, 2025). Nel suo viaggio
nel mondo scopre che “È successo oggi che la mia voce/ ha fatto la voce del
bosco… È successo che tutti questi suoni/ mi hanno chiesto la parola, a
sorpresa/ la mia, mentre stavo negli scarponi/ e lo zaino tendeva la schiena./
E io chi sono per tacere la voce,/ per non essere al servizio?”.
La poesia non salverà la vita. È però al suo servizio. Con
parole che hanno dentro la forza della spada, il rintocco della nostalgia, o il
clamore della propria inadeguatezza finanche accompagnato dal desiderio del
silenzio. E anche noi nei nostri scarponi, chi siamo per tacere, per non essere
al servizio di una realtà che, anch’essa come la parola, sembra sempre invocare
altro?
Bellini, nel continuo dialogo con la realtà di cui il libro
è testimonianza, incapace di dare un nome a questo altro, chiede persino a una
biscia se lei lo sa che “cos’è lui che si nasconde dietro le nuvole… Sta lì la
biscia, la coda tra i fiori di plastica/ e l’ombra sopra il cero sostenuto da
una ragnatela./ Impercettibile, quasi una porta segreta/ è la vibrazione della
ragnatela,/ il passaggio della preghiera”.
(…)
E spiega il perché di tanto, tantissimo impegno: “finché non
trovi le tue parole, usi le parole di riserva: le parole degli altri. Ma questa
è una soluzione temporanea. A ciascuno di noi occorre il proprio mazzo di
chiavi per entrare e uscire dalla propria casa. Il poeta è un pescatore di
parole. Un cercatore di chiavi smarrite. È colui che ti ha mostrato che le
chiavi sono sempre state lì, a portata della tua mano, della tua lingua. Non le
avevi perse, semplicemente si mostravano ma non le vedevi, ti chiamavano e non
le ascoltavi”.
Bulfaro, che un tempo all’ufficio anagrafe del suo paese
chiedeva che alla voce professione mettessero la parola “poeta”, oggi
chiederebbe di scrivere invece “umile servitore della poesia”. Ma solo perché
la poesia, quella vera, pur non salvandoci la vita, ci aiuta a trovare le
nostre chiavi di casa. Non si può non dire grazie a tutte queste voci. Non si
può fare finta di niente.
(sussidiario.net)
