lunedì 4 gennaio 2016

Intervista a Luca Doninelli

A che cosa serve la fine del mondo

di Giuseppe Frangi
L'INTERVISTA - LUCA DONINELLI
La storia di un amore mentre tutto collassa. Di un’enfant prodige (simpatica). E di un perdono. Quello che l’uomo può concedere a Dio. Lo scrittore milanese racconta “il” romanzo della sua vita. E perché ha deciso di correre il rischio...

«Io sono felice che Dio mi abbia concesso di scrivere questo romanzo. È il mio libro, quello che ho sempre desiderato scrivere». Luca Doninelli è visibilmente contento. Ha in mano Le cose semplici, non “il suo nuovo romanzo”, ma “il suo romanzo”. Quello a cui stava lavorando da quasi dieci anni, e che Filippo La Porta, sull’inserto della Domenica del Sole 24 Ore, ha definito «uno dei romanzi più belli e spericolati e immaginativi di questi anni».
Le cose semplici racconta una fine del mondo nel suo compiersi. Non c’è nulla di apocalittico nel libro, ma una quotidianità vissuta mentre attorno tutto è collassato e quindi in questa nudità di contesto emerge e preme la domanda di sempre: che cos’è l’uomo? È anche una storia d’amore tra un lui­ - che è l’io narrante - e una lei che il crollo ha sorpreso dall’altra parte dell’Oceano. Quello di Doninelli è un libro affascinante, per i vastissimi orizzonti che spalanca; un libro “grande” in ogni senso, anche in quello delle sue oltre 800 pagine; un libro profondo, ma, come dice il titolo, semplice e quindi immediatamente familiare.

Scrivi ad un certo punto (e sembra quasi una giustificazione delle dimensioni del tuo romanzo): «La follia, la sacra follia dei vecchi scrittori, dei vecchi calciatori». Cos’è questa follia?
Quella di Caravaggio, tanto per fare un nome. O quella di Van Gogh. O di Maradona. Perché dobbiamo continuare a parlare di Caravaggio e non fare niente di nuovo? Abbiamo don Giussani, Benedetto XVI, papa Francesco: che facciamo, ci limitiamo a ripetere i loro discorsi? Ci ammazziamo con le interpretazioni giuste e quelle ancora più giuste? E poi, senza azzardare paragoni: Caravaggio è grande, Dante è insuperabile, ma i nostri canti devono risuonare adesso, devono essere canti di adesso. Va benissimo parlare del passato, che è la nostra grande fonte: però limitiamo le commemorazioni. Oltretutto, a furia di commemorare anziché recuperare la memoria la perdiamo ancora di più. Per recuperare la memoria del passato bisogna fare adesso qualcosa di nuovo. È il presente che alimenta il passato. La verità esige perciò un rischio pazzesco, e per un artista rischiare significa uscire da ogni terreno circoscritto, anche a prezzo del fallimento. Insomma, ero - diciamo così - un discreto scrittore. Mi sono chiesto: che gliene importa, a Dio, di avere un discreto scrittore? Secondo me, niente. La vera scommessa non è riuscire a fare queste cose, ma cercare di capire perché Dio ce l’ha permesso.

Nel romanzo padre Jonah rivolgendosi alla protagonista, Chantal, ad un certo punto dice: «Ecco la richiesta di Dio, l’ultima richiesta. L’ultima pretesa: perdonami. Tu, piccola creatura sopravvissuta chissà perché: sono io, l’Altissimo, che in ginocchio ti imploro: perdonami». Dio chiede perdono all’uomo?
Quando ci ha creati, Dio ci ha donato la libertà, che è il più meraviglioso tra tutti i doni. Ma la libertà è tragica, implica la tragedia. La vera tragedia per me non è quella greca, ma il sacrificio di Gesù. Solo Gesù va fino in fondo al proprio compito, perciò solo il cristiano è tragico. Quindi Dio ha stabilito con l’uomo un rapporto tragico proprio perché libero. Se non tieni insieme questi due aspetti tutto si riduce a un bel discorso, magari teologicamente ineccepibile, in una fucina di bravi ragazzi (ben vengano, per carità: però c’è di più...). La tragedia appartiene al destino, e Manzoni lo sa benissimo, per esempio ne I promessi sposi, quando Renzo è chiamato a perdonare don Rodrigo, perché a mettere quel farabutto sulla sua strada (così bella, così da bravo ragazzo) è stato proprio il Signore. Perdonando don Rodrigo, Renzo capisce che deve perdonare Chi lo ha creato. Senza quel momento è difficile che uno capisca perché è venuto al mondo.

Il tuo è un libro profondamente radicato nell’attualità del mondo. Ci sono le pagine sul crollo del mondo finanziario. «I poteri fasulli che si sbranavano l’un l’altro», scrivi, come alludendo ad un teatrino di poteri già svuotati da tempo. E poi più avanti: «Così finisce il mondo: non in un baccano ma in un piagnisteo», citando Eliot. Più che una fine del mondo, uno scivolamento del mondo verso un qualcosa di informe?
Non ho abbastanza fantasia per immaginare la fine del mondo, e poi cosa resterebbe da raccontare? Mi sono limitato a parlare della fine della nostra civiltà. La citazione è esattamente di Eliot (lo dico esplicitamente nel libro): non uno tsunami, non un’invasione islamica con scimitarre e uomini-bomba, non l’eruzione simultanea di tutti i vulcani, ma solo questo: la fine della fiducia, la fine del patto sociale. Il piagnisteo che prevale sull’azione, che per quanto modesta, porta sempre l’uomo un passo oltre se stesso - fosse anche preparare un piatto di spaghetti per un amico. Viene meno la ragione per cui ha senso salire su un autobus, nominare un cda, chiedere «che ora è?», e così via.

«Forse sono io la persona che aspetta», dice la protagonista Chantal palesandosi al Vescovo di New York. Raccontaci di Chantal... Da dove viene quel nome? Chi è davvero?
Questo non te lo posso dire: Chantal è il cuore di tutto il romanzo, se te la spiegassi sarebbe come spiegare Beatrice, o Lucia, o Natasha Rostova, o Nausicaa: non è possibile. Comunque, letta con attenzione, la frase da te citata indirizza verso la risposta. Tutto è partito da Chantal: ho cominciato a scrivere cercando di capire se era mai possibile raccontare un’enfant prodige (che oltretutto va a messa tutte le mattine alle sette) che sia anche simpatica. Be’, non ci credevo nemmeno io, invece alla fine era così simpatica che quando, sorprendendomi io stesso, ho annunciato che Dodò (il protagonista maschile) si era innamorato di lei, l’ho fatto perché io mi ero innamorato di lei. Come Manzoni di Lucia: guarda come la prepara, quanto tempo le fa passare in sala trucco prima di presentarla ai lettori («Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre...»). Se non è amore questo! Ma di quello di fuoco, mica quello angelico...

A un certo punto del libro il racconto si sofferma su Firenze. E lì evochi una delle opere che più tu ami, la Deposizione di Donatello. «Quella scena è la nostra, non c’è nessuna differenza» fai dire a un tuo personaggio. In che senso è «la nostra»?
Io non faccio dire niente ai miei personaggi. Sono loro che parlano, spesso senza il mio permesso. Però quando mi accorgo che hanno detto una cosa sensata la lascio lì. Donatello, Brunelleschi e Masaccio hanno fondato il Rinascimento, e ciascuno di loro ha quello che gli altri non hanno. Trovo già prodigioso il fatto di amarli alla follia tutti e tre - loro che si amavano così poco... Donatello è il più tragico, e quel bassorilievo tardo sito in San Lorenzo mi colpisce per l’impressione di caos che trasmette (benché sia concepito secondo un ordine ferreo). Cristo viene deposto dalla croce, sta per essere sistemato in un sarcofago, la speranza umana è finita, restano le pratiche pietose. Le pratiche pietose! Che spavento, non è vero? Ma io sono uno scrittore abbastanza furbo (come persona no, ma come scrittore sì) e tiro fuori la Deposizione proprio quando il protagonista maschile, il marito di Chantal, sta per fare tutta l’esperienza della perdizione e, poi, della misericordia. L’ordine dell’universo non s’interrompe con le pratiche pietose, o con i giochi funebri (come nell’Iliade).

Milano-New York. Su questo asse si dipana la storia. Per Milano se ne capiscono bene le ragioni, essendo la tua città. New York perché? È un libro sulla fine dell’Occidente o sulla fine del mondo?
New York è la città santa del mondo laico. A Parigi ci si va in gita culturale, a Londra ci si va per affari o per divertirsi, a Roma per capire che il mondo così com’è oggi l’avevano già inventato loro, ma a New York ci si va e basta. Come avvenne un tempo per Roma, e per molti tuttora per Gerusalemme. Sono luoghi fatali, andarci non è come andare da un’altra parte: si capisce meglio che il viaggio stesso, come tale - non solo quello di Dante ma tutti i viaggi, pensiamo a chi deve andare a trovare la mamma all’ospedale - sono santi, che la santità non è un’intenzione psicologica ma un dato della vita: o accettiamo la realtà (e con essa i suoi viaggi santi), o possiamo buttarci in un pozzo, tanto è tutto uguale. Posso così rispondere alla tua seconda domanda, alla quale mi sembrava di avere già risposto, mentre non è vero. Ciò di cui il libro parla è la fine della civiltà, ma solo per rimarcare quanta fine del mondo c’è in ogni fine. Pensa a quante cose abbiamo già fatto per l’ultima volta, anche se non lo sappiamo. Io di sicuro non mangerò mai più l’andouillette. Eppure è bello non saperle, queste cose, ti pare? Se no, la vita sarebbe un continuo funerale. Invece non è affatto un funerale, anche se le cose finiscono e anche se - poniamo - dovessero finire tutte insieme. La fine del mondo serve solo per ricordarci che Dio ha fatto il mondo e tutta la sua bellezza affinché non finisse mai, questo è il bello - altrimenti perché dovrebbe esserci la bellezza? Insomma, se mi dicessero che tra un’ora ci sarà la fine del mondo io mi farei una bella doccia, mi vestirei bene, mi profumerei e non mi perderei lo spettacolo. E non penserei: oddìo, aiuto, eccetera.