martedì 5 gennaio 2016

Kenia, l'educazione possibile

Buone notizie da Dadaab

di Davide Perillo
AFRICA - KENYA
È il campo profughi più grande al mondo. Con un buco nero: il futuro. Eppure MARIA LEITãO educa i giovani a fare i registi. E qui, dove «la speranza umana non esiste», accade qualcosa

«La prima volta non ci ho dormito per giorni. Mi avevano riempito di domande, e io non avevo una risposta pronta. Mi rigiravo nel letto. E mi chiedevo: che cos’è per loro la speranza? E per me?». Loro sono i profughi di Dadaab, Kenya: quattrocentomila, ammassati nel campo di raccolta più grande del mondo a un’ora di macchina dal confine con la Somalia. Lei, Maria Leitão, detta Bebé, 49 anni, portoghese, ci è arrivata poco più di un anno fa. Lavora per FilmAid, una ong americana. Aveva già vissuto a Timor Est e poi ad Haiti, conosce dolori e grandezze di luoghi dove il bisogno è tutto. Ma non si aspettava di trovare nel deserto una città sospesa nel tempo, senza radici e senza domani.
File di tende e baracche, piantate dal 1990 dall’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati. Sabbia. Caldo. Un recinto intorno. «Arrivano da tutta l’Africa: Sudan, Burundi, Rwanda, Congo, Etiopia...Tutti Paesi con problemi politici o catastrofi naturali». Ci sono povericristi e laureati in Latino, bande criminali e madri di famiglia. «C’è gente che è nata lì, e ha vent’anni. Altri sono appena entrati». Ma per tutti, oggi, la prospettiva è la stessa: restare a lungo, forse per sempre. Perché dai campi non si esce più. Da quando ai guai umanitari si è aggiunto il rischio del terrorismo, degli Shabaab somali e delle stragi come quella dell’Università di Garissa, appena cento chilometri più a ovest, il Kenya ha blindato tutto. Non solo a Dadaab, ma anche a Kukuma, l’altro campo giù verso il Sudan, 180mila ospiti e lo stesso buco nero: il futuro.


Fino all’autunno scorso, alcuni dei profughi potevano entrare in Kenya. Qualcuno ha trovato un lavoro, ha messo su famiglia. Poi il Governo ha detto «tutti indietro». Hanno dovuto lasciare tutto di colpo e tornare tra le baracche. «Almeno 20mila, dicono. Ma i numeri qui ballano sempre». Anche quelli dei rimpatriati in Somalia, dopo l’accordo del 2013: si parla di 80-100mila, ma non ci crede nessuno.
Nei campi lavorano una settantina di ong. Portano assistenza, cibo, educazione. FilmAid lo fa con strumenti anomali: video, anzitutto. E riviste. «Li usiamo per informare, educare o semplicemente per farli divertire», racconta Bebé dal suo ufficio di Nairobi. Clip che insegnano come lavare il cibo, come curare certe malattie, come evitare la violenza. Da vedere in gruppi, per discuterne. O negli spiazzi, davanti a un megaschermo su un pick-up, dove gli spettatori si mescolano a chi il video l’ha pensato e girato. Ovvero, altri profughi. Perché la novità sta all’origine. FilmAid, anzitutto, insegna. Giornalismo e video production. «Facciamo lezioni di regia, suono, luci», dice Bebé: «I ragazzi imparano lo storytelling e a girare documentari». Fanno persino un giornale: The Refugee. «Tra i due campi, diamo lavoro a un centinaio di persone. È una cosa buona. Si sentono valorizzati, prendono un piccolo stipendio, hanno un impegno otto ore al giorno». E imparano mestieri che vorrebbero fare fuori. Se potessero.

La legge della giungla. È il sogno di Smart, che si affaccia da un video per raccontarsi: «Essere profugo non è una mia scelta. Ma non è neanche una scusa per non raggiungere qualche scopo nella vita». O di Farida, che vorrebbe diventare regista. E Bithu, Abdirashid, Ojullu... «I dialoghi con loro ti consumano, sempre. “Vorrei andare a Hollywood”, “Voglio fare il giornalista”. Ma che prospettive hanno? Sono nel picco della vita: avere 20 anni qui è come averne 35 in Europa. Ma non hanno speranza. E tu non puoi dare risposte false. Né a loro, né a te stessa. Puoi dire: “Coraggio, il futuro sarà meglio”, ma sai che non è vero, a meno di un miracolo. La speranza umana, qui, non esiste. Ci ho perso il sonno, all’inizio». E poi? «Mi sono venuti in mente i carcerati di Padova. L’unica possibilità, per loro, è che la speranza sia presente ora, in un rapporto umano per il quale ogni cosa presente è una Presenza. E che si possa dilatare a tutto. L’unica risposta è il cristianesimo. Ma non puoi dirlo così, in fretta; non puoi saltare subito alla conclusione. Devi andare al fondo delle parole cristiane. Vederle accadere».
Lei le vede. Di continuo. Fatti piccoli, ma reali. Rapporti in cui spunta «un orizzonte che prima non c’era. E lo riconosci sia tu che l’altro». Esempi? Bebé ci pensa qualche secondo. «Guarda, in certe situazioni la cattiveria dell’uomo diventa più grande», sospira. «Nei campi c’è gente che chiede favori sessuali alle ragazze in cambio di un posto di lavoro. Ho dovuto fare una battaglia per cacciarli via. Ma così ho conosciuto Afmahani, una ragazza musulmana. Lei mi racconta, e io le dico: farò di tutto perché tu possa vivere con dignità. Lei: “Perché? Da noi ognuno se la cava per conto suo, è la legge della giungla”. E io: “Perché tu sei preziosa. Infinita”». O il dialogo con Geffe, pochi giorni fa: «Hai marito? Figli? No? E perché non ti sposi? Io: perché Dio mi ha dato tanto e io sono così felice che voglio dargli tutto. Lui mi ha guardato e ha detto: allora sei cattolica. Solo un cattolico può dire questo».
Oppure, ancora, «quel giorno che sono entrata in classe. Io non insegno, mi occupo del backoffice: far funzionare la macchina. Ma quel giorno parlavano del curriculum e mi ha colpita». Il docente: «Mettete i vostri dati personali, le lingue...». Mi sono permessa di interromperli: «Ragazzi, chi cerca qualcuno per assumerlo, vuole una persona speciale. Non metteteci dentro cose che dicono poco. “Sport preferito: calcio”, non mi dice niente. Siete in milioni a giocare a pallone. Ma tu, invece, chi sei?». Si è alzata una mano, timida: «Io ho imparato a suonare la musica dei turkana, una tribù di qui». «Bene, questo mi parla di te!» Un altro: «Ho studiato giornalismo». «Perfetto: mi dice che sei chiuso qui dentro, ma non te ne stai senza far nulla... Ragazzi, guardate che siete unici. Ognuno di voi lo è. E io voglio conoscere questo». È nato un dialogo impensabile. «Sul mistero della vita, non solo sul cv».

La scorta. Chissà che fine faranno, quei curricula. Ma intanto servono a scrivere un altro capitolo della lotta tra futuro e presente, tra l’incognita del domani e la vita che scorre ora. «Sembra assurdo insegnare un mestiere a chi non potrà mai farlo fuori da qui. Ma intanto, per dire, da un video sul parto le donne capiscono che un ospedale non è un posto dove si va solo a morire. O da un altro sul cibo imparano a lavare le cose prima di mangiarle». Cose semplici, ma che in mezzo al deserto possono fare la differenza tra salute e malattia, vita e morte. O cambiare l’idea che hai di te: «Una signora, giorni fa, mi ha detto: grazie a voi ho capito che le donne hanno diritti».
Lampi, in un cielo che da queste parti è sempre più cupo. Il campo di Dadaab, ormai, è un punto di appoggio dei terroristi di al Shabaab: fanno girare armi, reclutano, addirittura si addestrano tra le baracche. In molti vorrebbero chiudere il campo, o spostarlo in Somalia. «Se il Governo lo facesse, il Kenya sarebbe ancora più sotto tiro», dice Bebé. Lei nei campi entra solo con la scorta: «Bianca, donna, cristiana, lavoro per un’ong americana: rischio troppo alto». Ma del terrorismo si parla, a Dadaab? «No, silenzio». Eppure molte ong stanno chiudendo gli uffici e Nairobi ha dato una stretta sui visti. «Tre mesi fa sembrava mi togliessero il permesso. Ho pensato: si va via, di nuovo. Ero angosciata. Poi basta un momento in cui riconosci Gesù presente, e respiri. Mi son detta: che scema, stavo aspettando il visto e invece l’attesa è di Lui».
È sempre stato così. Da quando lavorava in una tv di Lisbona, dopo la laurea. Otto anni, prima di passare in una casa editrice, poi in uno studio legale, poi l’occasione di Timor Est, in un ospedale che doveva aprire un reparto maternità («lo aveva chiesto Giovanni Paolo II alla Chiesa portoghese»); e Haiti, dopo il terremoto («dovevo stare qualche mese, ci sono rimasta due anni e mezzo»). Sempre con il cuore inquieto, mai tranquilla.

Mura e legami. Un giorno, a pranzo con alcuni profughi, Bebé chiede: cosa vi manca di più? «La risposta mi ha sorpreso. Tutti, ma proprio tutti, hanno detto: casa mia. Molti vengono da posti devastati: miseria e capanne di fango. A guardare le condizioni, vivono meglio qui. Eppure gli manca la casa. Mi sono chiesta: che cos’è la casa, allora? Le mura o i legami, i rapporti, la tua identità? E per me, che cosa è?».
Bebé è una Memor Domini. A Nairobi vive sola, non ha una “casa”. «La sera non c’è nessuno che ti chiede: come stai? Com’è andata?». E la comunità di CL è quasi tutta dall’altra parte della città: «Li vedo poco: io non posso spostarmi da sola perché è pericoloso e loro non hanno macchine». La solitudine è grande. «Ma la presenza di Gesù è più grande. La casa non sono le mura: è il rapporto con Lui». Da vivere nelle circostanze, nude e crude. «Ecco, lì ho capito che è Cristo la mia identità. La mia casa. Siccome Lui è Colui che mi fa, sono sempre in compagnia. Rendermene conto è stato commovente».
C’è in programma un altro viaggio a Kukuma. Ci passa sette, dieci giorni al mese. È appena più tranquillo di Dadaab, ma i pericoli ci sono. Paura? «Càpita di averla, certo. Ma prima non avrei mai rischiato così. Se lo fai, è perché sei più certa di un rapporto. E quel rapporto è la speranza».

(@dperillo14)