domenica 3 gennaio 2016

Uganda: un popolo che si risveglia

«Che io rida o che io pianga voglio stare qui»

di Alessandra Stoppa

In Uganda, tra le tappe del prossimo viaggio di papa Francesco, si nasce con una media di sei figli per donna e ci si contende con il Niger il titolo di Paese più giovane al mondo: il 78% della popolazione è sotto i 30 anni e l’età media è di 15,5 (in Italia 44,5). Ma non basta nascere per vivere, dice Michelle con gli occhi più che a parole. Abita vicino allo slum di fango e tettoie di Kireka, quartiere della capitale. Ventidue anni, i lineamenti fini, sta seduta orgogliosa alla sua scrivania al piano terra della Luigi Giussani Primary School, di cui è la segretaria. «Qui è dove voglio stare: che io rida o che io pianga, voglio stare qui». Qui è il cammino del movimento. E questi sono gli appunti di tre giorni vissuti nella comunità di CL di Kampala, un piccolo popolo che accade come l’acqua che bolle in pentola, dove uno o l’altro o l’altro ancora si risveglia e risveglia chi è vicino.



Una mattina Michelle era seduta dov’è ora, amareggiata ed annoiata, pensando di non essere capace di vivere davvero. Entra nell’ufficio una maestra: lei in automatico prende le chiavi dell’aula e gliele allunga, perché così funziona ogni giorno. «No, non voglio le chiavi». «Ah, e cosa vuoi?». «Voglio essere come te. Portami con te». Le sta chiedendo di «quell’incontro» a cui la vede andare ogni settimana, la Scuola di comunità. In quel momento, Michelle capisce: «Gesù stava scegliendo me, fregandosene della mia noia e della mia miseria». Come nel suo primo incontro con CL: «È stata la sorpresa più grande della mia vita: c’era qualcuno che descriveva il mio cuore perché io potessi essere felice. Da allora, vivo: un’altra vita è entrata nella mia».
Ha ragione Rose, che quando sente parlare Michelle e gli altri ragazzi che hanno iniziato l’esperienza del movimento si chiede chi sussurri dentro di loro certe cose. «Li ascolto e so che Cristo c’è». Rose Busingye è la madre di tutti qui, piccoli e adulti, perché vive da figlia: «Seguo il Mistero di Dio che accade». Memor Domini, 47 anni, infermiera, nel 1992 ha dato vita al Meeting Point International, dedicato alle donne malate di Aids, ai bambini e ai ragazzi orfani o poveri.
L’origine è nel seme piantato a Kitgum, nel Nord del Paese, dall’incontro tra alcuni medici di CL e il comboniano padre Pietro Tiboni, all’inizio degli anni Settanta. Quando anche Rose ha conosciuto padre Tiboni, gli ha chiesto: «Ma se Dio si è fatto carne, c’entra anche con la mia carne?». Le era parsa la cosa più sconvolgente del mondo. Oggi, dopo tanti anni, vive dello stesso stupore. «Voglio partecipare al risveglio delle donne del Meeting Point e di questi ragazzi: loro hanno scoperto di avere un valore, che questo valore ha un nome, Gesù, e che Lui li guarda sempre. Anch’io voglio vivere sotto questo sguardo».
Non ci sono schemi in questa comunità, non per disordine o anticonformismo, ma perché è una vita ed è unita: dalla gratitudine delle donne, che danzano sui loro passati di dolore, alla freschezza dei loro figli, per cui sono nate le scuole Don Giussani (Primary e High School). Qui è evidente che il movimento è solo una cosa: Cristo che ti abbraccia. E l’abbraccio è un cerchio: dai figli torna alle madri, che vanno dietro a questi ragazzi che s’innamorano della vita e di Gesù, che studiano, si appassionano, leggono a loro Tracce (molte sono analfabete), partecipano del movimento e trasmettono tutto quello che imparano.
Françoise, mamma di Michelle, faceva parte di una setta. Ha seguito quello che stava capitando alla figlia e oggi è «l’ultima nata del Meeting Point International». Aveva gravi problemi di salute e non usciva di casa, ora elegante e timida si lascia trascinare al ritmo dei tamburi e dei sonagli alle caviglie. «Ho anche iniziato a giocare a calcio», ride: «Perché ho conosciuto la bontà e la bellezza di Dio».

Gli scellini e l’estintore. Qui non ci sono etichette. Nessuno ha stabilito: «Ora si fa caritativa». Ma le donne la fanno già. Accolgono nelle loro case (e le case sono baracche) i bambini mandati dalla polizia quando non c’è posto alla Welcoming House di Rose, dove vivono piccoli abbandonati e sieropositivi. Hanno già tanti figli e problemi, ma «se c’è posto per 5, c’è posto per 6!», dicono. E ridono, e quando ridono finiscono per cantare, e cantare e ballare è una cosa sola. Un giorno è arrivata una signora con la mente bruciata per aver inalato la benzina. «Io ero preoccupata», racconta Rose, «mentre loro le avevano già preparato un posto e, da allora, la assistono». È la caritativa nel suo sorgere, la gratitudine che diventa gratuità.
«Ogni giorno vengo superato da tutte le parti». Alberto Repossi è a Kampala da un anno e lavora per Avsi al Meeting Point International. Prima di venire qui, le “donne di Rose” le aveva messe nel cassetto: «Sono malate ma felici, vivono il carisma, che brave». Punto. «Eppure Carrón continuava a indicarcele. Allora forse c’era qualcosa da conoscere... Ora lo vedo: vivono così commosse che trascinano anche me». Rose ha in mano un foglio con i nomi delle donne; accanto ad ognuno, una cifra in scellini. In alto: Contribution for prastanity. «Prastanity?», ha chiesto a Ketty quando le ha consegnato l’elenco. Si sono capite in fretta: era il Fondo comune per la Fraternity. Le donne hanno sentito l’avviso agli Esercizi spirituali e subito hanno raccolto i soldi. Quel giorno Rose è rimasta a guardarle incamminarsi verso casa. Niente boda-boda, le mototaxi su cui si sale in quattro, niente matatu, i pulmini dove si sta come sardine: se ne sono andate a piedi, non avevano più scellini.
«Non si dà quello che non si ha», si usa dire qui. «Se non sei commosso tu, non puoi comunicare nulla», chiosa Matteo Severgnini, per tutti Seve, coordinatore didattico delle due scuole, in missione da tre anni. «All’inizio sono passato dall’illusione alla rabbia». Prima la foga di sistemare i problemi, poi la delusione perché non cambiava nulla. «Un giorno Rose mi dice: “Non c’è bisogno di uno che gestisca la scuola. Ma di uno che viva la vocazione”. Per tre mesi non ho più detto nulla». Al posto di parlare sopra le cose, le ha guardate. «Se stai in silenzio e ascolti, capisci molto di più». Come «quella volta»: una notte la scuola è stata imbrattata con l’estintore. L’usanza è fare un’assemblea in cui accusare il colpevole, invece Seve ha chiesto al ragazzo il perché di quel gesto, gli ha proposto di ripagare insieme il danno e lo ha nominato responsabile degli estintori. «È stato un ribaltamento. Ma per me. I colleghi mi hanno chiesto perché avevo fatto così, e me lo sono chiesto anch’io. Da lì abbiamo iniziato a lavorare davvero insieme, con una domanda reale, non un’idea da imporre».

Il gessetto di Michael. Quando è stata inaugurata la nuova High School, Arnold, 17 anni, ha preso la parola davanti a studenti, genitori, autorità e diplomatici: «I am don Giussani». La gente è rimasta di sasso. Lui è andato avanti deciso: «Giussani ha finito la sua strada e mi dice: “Arnold, se vuoi essere felice, devi passare dove sono passato io”. Tocca a me». Nell’incontro con CL a scuola, Arnold e l’inseparabile amico Marvine hanno iniziato a interessarsi delle cose, a suonare e cantare (la comunità ha un coro meraviglioso), a comporre canzoni, quasi tutte d’amore, in un posto dove i ragazzi sentono parlare solo di sesso e l’affettività vera è un tabù: va di moda il talking compound, l’ambiente parlante, per cui le scuole sono tappezzate di scritte intimidatorie: «Comportati bene», «Se rimani incinta, sei sospesa», «L’Aids uccide».
«Il movimento mi ha dato gli occhi», continua Arnold: «Guardavo le cose ma non le vedevo. Come la bellezza di questa scuola diversa da tutte le altre. Dicevo: sì, è bella, e quindi? Non pensavo fosse per me». Un moderno edificio arancione sulla collina lungo Kireka Road, con 560 studenti: tanti la raggiungono anche dopo due ore di cammino e ci restano fino a sera per sfruttare la luce che a casa non c’è. La prima cosa che ti dicono, tutti, è: «I prof non ci picchiano».
Nel traffico selvaggio e polveroso della capitale, sono tantissime le insegne delle scuole, scritte a vernice, le più arrugginite. Le policies internazionali spingono sull’istruzione e il Governo favorisce molto il settore privato. Ma c’è un detto: spare the rod and spoil the child (se risparmi il bastone, vizi il bambino). E la parola d’ordine è: inculcate. «Quando al colloquio mi hanno detto che qui non si picchiava, mi sono messo a ridere», racconta Michael Kawuki, che oggi è il preside: «Per me il bastone era l’unico modo per insegnare. Qui sono io che sto imparando tutto, dai colleghi e dai ragazzi». Inimmaginabile dove l’educazione è anonima, la distanza tra studenti ed insegnanti abissale, e non solo per i numeri (ci sono classi da 150), ma perché l’allievo è considerato inferiore e fare domande è insubordinazione. Michael guarda i ragazzi che nel grande prato davanti a scuola si scatenano alla lezione di cultural dance: «Non sapevo che ogni cosa, anche la più piccola, avesse un valore. Un gessetto cadeva per terra e ci camminavo sopra». Quando ha visto Seve raccoglierlo, gli si è aperto un mondo. Si fa serissimo: «Io non sapevo di avere un valore».
Arnold, Marvine e altri studenti si trovano ogni lunedì per la Scuola di comunità. C’è Grace, che ha 20 anni: «La mia vita ha significato dal 2013». Commuove quando canta le canzoni del movimento che ha subito imparato, e per com’è certa e trasparente: «Non davo importanza a nulla. Poi un giorno mi è stato detto: “Hai nel cuore una cosa grande”». Da poco è morto suo padre: «Quando è successo, ho capito che Cristo voleva che io dipendessi da Lui. Ogni mattina mi alzo per vedere il Suo sguardo». Manuel è un ometto con la cravatta, perfetto nella divisa della scuola. È sieropositivo. Ad una visita in ospedale, fissava il medico che gli faceva i controlli e pensava: «Tu puoi sapere tutto di me, ma non potrai mai vedere cosa vuol dire essere amato». Solange, invece, si sentiva sempre al posto sbagliato nel momento sbagliato. «Sempre?», gli ha chiesto un giorno Seve. «No, a parte quando la sera guardo il cielo». Da allora ha scoperto di avere lo stesso cuore di un uomo molto famoso (Leopardi): «Sarei morta, se non avessi incontrato un’amicizia che ha il significato della vita».
L’ambiente della cooperazione internazionale fa credere che il bisogno dell’uomo sia il family and empowerment, «invece è questo: essere amati. Lo scopri su di te, perché vuoi cambiare il mondo e invece cambi tu», dice Marco Trevisan, che si occupa per Avsi delle adozioni a distanza (4.180 i bambini sostenuti). Perito tecnico, è in Africa da 28 anni. «Mi sembra ieri! Qui la vita è veloce, perché chiede sempre la tua presenza. In questi anni ho scoperto che, se uno dice sì, vede cose di sé che nemmeno immagina».

Sul Nilo. È quasi sera. Fuori dalle case ci sono divani di pelle sgualcita, la gente sta seduta, fissando al posto della tv gli ingorghi di auto, animali, carretti. All’angolo, nel buio senza lampioni, un predicatore si sgola con una Bibbia in mano. Dietro le finestre a zanzariera, Francesco e Sara apparecchiano la tavola: in Uganda da 8 anni, hanno due bambini. Francesco Frigerio è ingegnere e sta costruendo un santuario a Paimol, in onore dei due martiri di questo paesino del Nord: era il 1918, Daudi e Gildo avevano 16 e 14 anni, come i ragazzi della High School; erano stati mandati ad aprire un catecumenato e li hanno fatti fuori. «Per un costruttore, fare un santuario è il massimo», racconta, «ma sta assumendo lo stesso valore sistemare un bagno. Per me non è scontato. Ero caduto nel ricatto di concepirmi per quello che faccio. Nella compagnia del movimento, ho riscoperto che il mio valore è essere Francesco per come mi ha voluto il Signore». Sua moglie racconta un cammino di cadute e risalite. «Vivi in un tunnel di giornate, poi succede una cosa che ti sveglia». Come un incontro a scuola: cose sentite e risentite, si direbbe, invece «mi ha ridato me stessa. Ma non lo decidi a tavolino, devi coinvolgerti in una vita». A cena c’è anche Manolita, che con il marito Stefano Antonetti e i cinque figli sono in Uganda da 15 anni. «Prima la comunità, le opere e tutto il resto erano cose belle, sì, ma non c’entravano con me». Del movimento da sempre, era come se non ci fosse più nulla di nuovo. Poi la sfida del lavoro al Meeting Point e l’amicizia rinata con alcuni: «È stato un incontro nell’incontro. L’esperienza di una cura del Signore presente per me».
La stessa ragione per cui “le donne di Rose” si divertono di gusto anche quando, l’ultimo giorno in gita, un temporale violento farà tutti ostaggio per due ore di un pulmino scassato in mezzo alla savana. Le strade interminabili di terra rossa, le cascate del Nilo, le colline smeraldo che fanno dell’Uganda la Pearl of Africa e loro, belle e potenti come questa natura. «Noi abbiamo già tutto», dice Agnes: «Ci serve solo l’educazione».

Dalla collina. Qui dove educare non è considerato nemmeno un lavoro, il metodo nato dal carisma arriva a sempre più persone. Davanti alle carceri della capitale, c’è il Permanent center for Education Luigi Giussani, che il Governo ha ufficialmente riconosciuto come istituto superiore di educazione. Con un training fondato su Il rischio educativo, in dieci anni hanno incontrato più di 20mila persone: cattolici, musulmani, dall’Africa al Myanmar... «Formiamo anche giovani agricoltori, genitori, assistenti sociali, dipendenti di ong», racconta il responsabile, Mauro Giacomazzi, qui dal 2007: «Le persone hanno bisogno innanzitutto di riscoprire se stesse».
Come l’insegnante che a un follow-up ha voluto ringraziarli: «Avete salvato il mio matrimonio. Volevo lasciare mio marito, ma voi dite sempre che un problema è un’opportunità, allora sono tornata a casa e gli ho parlato, come non facevo da tanto». Mauro è Memor Domini e abita con Marco, Alberto e Seve. «Questo è un mondo molto faticoso», dice: «Io ho bisogno di un luogo dove il mio cuore possa vibrare e riconoscere a cosa anela». Per lavoro è spesso via, fuori Uganda: «Gli amici della comunità, i ragazzi, le donne... li vedo poco. Ma mi nutro dell’esperienza di chi sta con loro e cambia».
È mattina presto. La jeep di Rose scende piano la collina su cui abita insieme a Lina Bonetti, che lavora ad Avsi. Di fronte, in lontananza, il Lago Vittoria grande quanto la Lombardia, e la città immensa, le baracche a perdita d’occhio, tutto quel bisogno. «Vedendo questo, Giussani mi disse: “Rose, salvare il mondo è gridare a tutti Cristo. È vivere il tuo sì, perché il loro destino si compia come vuole Dio. Come si sta compiendo il tuo”».