Borgna. Il primato dell’ascolto
Lo psicanalista Enrico Ferrari ricorda, a poco più di un
mese dalla scomparsa, l’umanità del grande psichiatra, suo maestro: «Domandava
insieme a te»
10.01.2025
Matteo Rigamonti
Enrico Ferrari
La passione per l’umano, la cura della sofferenza. Sono due
ambiti all’interno dei quali la figura del grande psichiatra Eugenio Borgna,
mancato il 4 dicembre a 94 anni, lascia un’eredità preziosa e consistente. Non
solo per i professionisti dei servizi psichiatrici. Ad aiutarci a coglierne il
valore è Enrico Ferrari, psichiatra e psicanalista junghiano che di Borgna è
stato allievo e con il quale ha condiviso momenti importanti, mantenendo sempre
i contatti per la stima dell’uomo e del professionista che è stato. Tanto che,
ancora oggi, propone i suoi libri agli studenti della scuola di psicoterapia
dove insegna, a Milano, all’interno del Cipa, il Centro italiano di psicologia
analitica, di cui è vicepresidente nazionale.
Che ricordo ha del suo primo incontro con Eugenio Borgna?
Era la prima metà degli anni Ottanta, quando aveva lasciato
Milano per ritornare in provincia ed era direttore dell’Ospedale psichiatrico
femminile di Novara, lui che fu tra i primi promotori dell’attuazione della
legge Basaglia, avviando la chiusura del manicomio di Novara, e contribuì al
sorgere della psichiatria territoriale. All’epoca era impegnato anche in
politica, nel comune di Borgomanero, dove aveva svolto il primo mandato come
sindaco. Io, invece, ero studente di Medicina e stavo attraversando un periodo
difficile nel percorso di studi, perché non lo vedevo conciliarsi con il mio
retroterra “umanistico”. Fu allora che lessi un suo articolo sulla rivista di
bioetica dell’Università Cattolica, Medicina e morale, che mi aprì uno squarcio
completamente nuovo: scoprii la possibilità di una fondazione culturale della
psichiatria che, pur appoggiandosi alle scienze biologiche, potesse partire da
una visione più profonda dell’uomo, quand’anche all’interno di una condizione
di disagio.
E cos’è successo?
Chiesi di potergli parlare, lui mi aprì le porte del suo
studio. Dovevo scegliere la tesi di laurea ma, frequentando l’università a
Torino, non potevo averlo come docente all’interno del corso, solo della scuola
di specializzazione. Così mi accordai con l’ordinario per poter essere seguito
presso il reparto di Psichiatria a Novara: iniziò un rapporto professionale che
mi ha segnato per tutta la vita. Anche quando, nel mezzo del mio percorso,
insegnai religione per alcuni anni, rimanemmo in contatto. Fu un fatto che
incuriosì moltissimo il professore. Poi tornai alla psichiatria, vinsi il
concorso a Ivrea, passai a Borgomanero e, infine, a Novara. I nostri contatti
non si sono mai interrotti nemmeno quando, anni dopo, mi indirizzai alla
psicoanalisi.
Cosa la colpì immediatamente di Borgna?
Conservo una memoria molto viva di quel primo incontro.
Aveva un’attenzione speciale dove coglieva un’autenticità. Invece con chi
riteneva superficiale non amava intrattenersi a lungo. In particolare mi colpì
la sua capacità di ascolto: al di là delle parole, aveva uno sguardo
penetrante, che all’inizio poteva anche intimidirti, ma alla lunga no. Coglieva
ciò che eri con una profondità inusuale. Arrivava al cuore prima che alla
mente. Oltre alla disponibilità ad ascoltarmi, mi colpì il suo saper domandare
e guardare le cose insieme a te. Era interessato, voleva conoscerti e, nel mio
caso, era compiaciuto, quasi con un sorriso da fanciullo, che avessi apprezzato
quel suo articolo.
In reparto come si comportava?
Impostava la giornata intorno al “rituale” del giro-visite.
E curava molto le riunioni di equipe. Momenti dove, insieme alla ricchezza di
riferimenti teorici, voleva soprattutto che il gruppo conoscesse a fondo ogni
paziente, nella sua patologia così come nelle sue condizioni di vita generali,
nella sua realtà familiare o lavorativa. Con lui tutti avevano diritto di
parola: medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali… e se, durante la
riunione, capitava che entrasse un suo paziente, non veniva mai allontanato, ma
ascoltato. Anche se stava delirando. Su ogni singolo caso si poteva discutere
per ore. Cose inimmaginabili nella psichiatria “aziendalistica” odierna.
Ricordo anche i silenzi di Borgna, che in quelle circostanze diventavano il
silenzio di tutti, a conferma della precedenza accordata all’ascolto.
È stato maestro di
molti?
Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha
dedicato molto tempo alle scuole di specialità in psichiatria. Le frequentavano
studenti da tutto il Piemonte, anche non iscritti alla specialità. Qualche
volta io ci andai anche quando già lavoravo. Erano lezioni a braccio, dove
chiunque poteva intervenire. Borgna non aveva nessun problema a interrompersi
per seguire una nuova direzione alla luce di quello che gli veniva chiesto.
Anche lì capitava che entrassero in aula i suoi pazienti. Non li invitava mai a
uscire ma li ascoltava e tutti noi, insieme a lui, li ascoltavamo. Era come se
la sua priorità fosse sempre la considerazione dell’umano. Del resto, aveva una
grande passione per l’interiorità della persona, più ancora che per le teorie,
sebbene fosse uomo di una cultura sterminata.
Nonché uomo di fede
profonda.
Diverse volte ebbi modo di apprezzare la sua spiritualità.
Aveva una formazione religiosa frutto di un’educazione ricevuta fin da bambino.
Ed è sempre stato un cattolico convinto, dichiarato, tanto che la sua fede ha
improntato tutta la sua vita professionale, oltre che gli interessi culturali.
Era un cattolico praticante, non mancava mai una Messa e ogni tanto, sul
lavoro, citava omelie ascoltate anche anni prima. Aveva una memoria omerica,
veramente rara. Anche questo dice molto della sua capacità di ascolto. Poi
amava i luoghi di spiritualità e silenzio. Se doveva intervenire nell’ambito di
un convegno organizzato nei pressi di un monastero, era molto felice di farlo.
In particolare, aveva un rapporto speciale con il monastero benedettino di
clausura sull’isola di San Giulio nel Lago d’Orta, dov’è stato anche per
scrivere un libro sulla solitudine. Amava poi le letture dei mistici.
Cosa ricorda, invece,
del suo rapporto con don Giussani?
Era molto affascinato dalla sua figura, me ne ha parlato più
volte. Già nel 1983, al ritorno dal Meeting di Rimini in occasione della sua
prima partecipazione, me ne aveva parlato con entusiasmo. Di don Giussani lo
colpivano innanzitutto la speranza, unita alla grande passione per l’umanesimo
vissuto nella concretezza delle circostanze della vita, qualcosa che anche
Borgna provava a portare in reparto. Poi era colpito dalla sua capacità di
smuovere i giovani, da questa sua fiducia nelle nuove generazioni. Da ultimo,
era ammirato dalla sua personale spiritualità.
In che modo la
religiosità di Borgna abbracciava il lavoro?
La speranza ha sempre connotato il suo approccio alla
sofferenza e alla malattia. Una speranza che non escludeva affatto la croce,
pur senza cedere alla disperazione. Per lui, infatti, speranza non significava
conseguimento di un risultato. Non ambiva a cancellare la sofferenza, ma
cercava sempre un’apertura di senso anche all’interno delle situazioni che non
si risolvono del tutto, come di fronte a certe patologie. Amava citare una
frase di un poeta del romanticismo tedesco, Clemens Brentano, secondo cui la
follia è la sorella sfortunata della poesia. Aveva, infatti, questo approccio
alla sofferenza, anche quella psichica, intesa come cifra dell’umano, non come
rottura, anomalia o guasto da riparare. Era molto distante da un certo modo di
vivere la fiducia nella tecnica e le neuroscienze, da quella forma di ottimismo
che non è speranza, ma vorrebbe depennare la sofferenza e la morte. Per lui,
invece, i malati psichiatrici erano i testimoni più radicali, più autentici
della condizione umana. Perché toccano più alla radice l’umano.
(…)
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