domenica 21 settembre 2025

Padre Ielpo. «La fraternità è una necessità»


 

Padre Ielpo. «La fraternità è una necessità»

Il Custode di Terra Santa sul senso della sua nuova missione. «A volte basta un incontro imprevisto, anche dentro un’agenda piena di impegni, per accorgermi che Cristo non mi lascia mai solo»

 

18.09.2025

Maria Acqua Simi

Ci incontriamo a Milano, nella sede dell’associazione Pro Terra Sancta, l’ong che da anni sostiene l’opera della Custodia. Padre Francesco Ielpo, eletto da pochi mesi Custode di Terra Santa, è in Italia per pochi giorni prima di rientrare a Gerusalemme. La sua casa adesso è là, nel convento di San Salvatore insieme ad altri 78 frati minori, ma la sua missione abbraccia anche Siria, Giordania, Libano, Cipro e Rodi e alcuni conventi in Egitto, Italia, Stati Uniti d’America e Argentina.

Ci abbiamo messo un po’ per ottenere questa intervista, non perché il personaggio sia refrattario a parlare con la stampa ma perché incarna esattamente l’abito che porta: essenziale. «Parlo solo se ho qualcosa da dire», dice sommessamente, quasi a schermirsi. Questa volta di cose però ce ne sono state, da raccontare.

 

Padre Francesco, lei si è ritrovato in un ruolo difficile e di grande responsabilità in uno dei momenti forse più delicati per la Terra Santa e il Medio Oriente. Come lo sta affrontando?

Fin da subito ho avvertito una sproporzione tra quello che sono e l’incarico che ricopro. Se dimentico che sono al servizio dell’ordine dei frati minori e dei cristiani di Terra Santa, provo una vertigine perché le forze sembrano non bastare mai. E certamente la responsabilità potrebbe spaventare, anche perché la situazione è delicata. Mi sono tornate spesso alla mente le parole del cardinale Giovanni Montini, poi Paolo VI, contenute nei suoi diari. Vado a memoria, sono passati più di quindici anni da quando le ho lette, ma diceva che più crescono le responsabilità all’interno della Chiesa, più si rischia di assomigliare sempre di più alle statue sulle guglie del Duomo di Milano: tutti ti vedono, ma sei solo. È un’immagine vera, perché non hai più qualcuno con cui condividere tutto, resti tu con la tua coscienza davanti a Dio e con le tue scelte da prendere. Quello che sperimento, però, è una solitudine abitata. Perché, accanto a me, ci sono sempre volti di amici nuovi, donati, che magari non avrei scelto e che sono diversi dagli amici di una vita, ma che il Signore mi mette accanto per ricordarmi chi fa davvero tutte le cose. Così, a differenza di quelle statue sul Duomo, in questa nuova missione non mi sta mancando una compagnia. A volte basta un incontro imprevisto, anche dentro un’agenda piena di impegni, per accorgermi che Cristo non mi lascia mai solo.

Lei del resto ha ripetuto più volte che la sua è una missione da vivere nella fraternità. Ci sta riuscendo?

Per grazia di Dio sì. Non si può vivere senza compagnia, senza la manifestazione concreta della prossimità di Cristo. Spesso si palesa in maniera impensabile. Una sera mi trovavo a Roma con alcuni provinciali dei frati minori, prima di tornare a Gerusalemme. Salutando uno di loro, che non conosco benissimo ma che stimo, chiesi se avesse una parola da dirmi prima di partire. Mi rispose solo: «Cercati un amico». È stato il consiglio più bello. Non si può vivere una vita senza amici. Credo che si possa vivere senza moglie o marito, come la vita consacrata o sacerdotale dimostrano, ma nessuno può vivere senza amici. Anche Gesù non ha potuto farne a meno.

Lei vive nel convento di San Salvatore, quindi in una quotidiana esperienza di comunità…

Sì, siamo 78 frati, ci sono anche gli studenti di teologia e i frati più anziani. Siamo in tanti ed è prezioso riaccorgersi che anche la vita comunitaria ha bisogno di una regola. Perché la regola aiuta a mettere i paletti che custodiscono il cuore di ciascuno. Essere fedeli agli appuntamenti, ai gesti comuni, alla preghiera è un grossissimo aiuto a non disperdersi e a non isolarsi. La fraternità è una necessità.

Difficoltà incontrate in questi primi mesi da Custode?

Una è sicuramente quella del linguaggio. Non conoscere l’arabo, dover parlare sempre tramite interprete, ridurre concetti a me cari a parole semplificate… Dentro al lessico passa tutta la tua cultura, tutta la tua tradizione e la tua storia in fondo. Mi crucciavo molto di questo ma ho scoperto che esiste un linguaggio universale, più diretto: la persona stessa, il modo in cui ti poni. A volte quello che resta non è un discorso, ma un sorriso, una pacca sulla spalla, un abbraccio. Francesco d’Assisi e il sultano, quando si incontrarono ottocento anni fa, non parlavano la stessa lingua, ma avevano forse la stessa posizione del cuore. È lì che nasce la possibilità di incontro. Ecco, sto imparando che il Signore non vuole da noi abilità particolari, ma ci chiede la disponibilità affinché sia Lui a operare attraverso di noi. Per questo dico che il compito del custode è – ne sono sempre più convinto – custodire la posizione del cuore.

Da dove nasce questa intuizione?

Un’amica una volta mi ha detto: «Ricordati che la prima opera sei tu». Alla fine, la questione è questa: custodire il proprio cuore, cioè la posizione di apertura al Mistero. Custodire la propria vocazione, perché se la prima opera sono io, il primo lavoro da fare è su me stesso. Se non lo facessi, diventerei un funzionario, un diplomatico, uno che gestisce tante cose ma perde la verità di sé. Questa missione è impegnativa, spesso faccio esperienza dell’impotenza: ci sono cose che non si possono cambiare come la guerra o le piccole mancanze che ognuno di noi può avere. Sembra una banalità, ma ogni tanto bisogna ricordarsi che certe cose brutte resteranno tali per quanti sforzi, idee, intelligenza mettiamo in campo. Questo non significa non adoperarsi perché le circostanze migliorino, ci mancherebbe. Ma sto imparando quanto sia decisivo guardarle in tutta la loro drammaticità portandole come le avrebbe portate Cristo. Non disperati, ma con uno sguardo che non perde la speranza.

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/padre-francesco-ielpo-custode-terra-santa#:~:text=CHIESA-,Padre%20Ielpo.%20%C2%ABLa%20fraternit%C3%A0%20%C3%A8%20una%20necessit%C3%A0%C2%BB,Non%20perderti%20il%20meglio,-Uno%20sguardo%20curioso

Un tema molto dibattuto è quello della presenza cristiana in Medio Oriente. Cosa significa restare mentre tutto intorno crolla?

Il nostro primo compito è esserci. È la lezione di otto secoli di Custodia: la Chiesa non chiede dei supereroi, ma una presenza che resta. A Gaza i religiosi avrebbero potuto andarsene dopo il 7 ottobre, molti di loro hanno passaporto internazionale, e invece sono rimasti accanto alla gente. Non risolveranno il conflitto, ma testimoniano che Dio non abbandona nessuno. Anche in Siria, negli anni dell’occupazione jihadista, i nostri frati sono rimasti nei villaggi cristiani dell’Oronte subendo rapimenti e minacce. In quel momento per noi sembrava tutto difficile e buio. Nel tempo, però, anche i jihadisti hanno dovuto fare i conti con la presenza cristiana, che è diversa da tutte le altre. Lo hanno riconosciuto. E ora che sono al governo in Siria hanno un’idea di cosa sia il cristianesimo proprio grazie a quegli anni. Non cambiamo il mondo con la forza, ma con la fedeltà di una presenza.

Molti cristiani, però, scelgono di lasciare la Terra Santa. Come vive questo fenomeno?

È doloroso, certo. Ma non spetta a noi dire a una famiglia “devi restare” o “devi partire”. La Custodia accompagna chi resta, senza giudicare chi parte. Però ho capito una cosa: non basta garantire scuole, sanità o lavoro perché le persone restino. Certo noi frati – anche attraverso la nostra ong Pro Terra Sancta – ci adoperiamo per un sostegno concreto, soprattutto in Cisgiordania dove da due anni l’80 per cento della popolazione è senza lavoro, non esiste welfare e le famiglie faticano a pagare le rette scolastiche e ad arrivare alla fine del mese. Per rimanere però serve una ragione più profonda. Come custode sento l’urgenza di aiutare la gente a trovare le ragioni per cui in ogni circostanza della vita, in qualunque condizione, è possibile vivere ed essere uomini liberi.