Padre Ielpo. «La fraternità è una necessità»
Il Custode di Terra Santa sul senso della sua nuova
missione. «A volte basta un incontro imprevisto, anche dentro un’agenda piena
di impegni, per accorgermi che Cristo non mi lascia mai solo»
18.09.2025
Maria Acqua Simi
Ci incontriamo a Milano, nella sede dell’associazione Pro
Terra Sancta, l’ong che da anni sostiene l’opera della Custodia. Padre
Francesco Ielpo, eletto da pochi mesi Custode di Terra Santa, è in Italia per
pochi giorni prima di rientrare a Gerusalemme. La sua casa adesso è là, nel
convento di San Salvatore insieme ad altri 78 frati minori, ma la sua missione
abbraccia anche Siria, Giordania, Libano, Cipro e Rodi e alcuni conventi in
Egitto, Italia, Stati Uniti d’America e Argentina.
Ci abbiamo messo un po’ per ottenere questa intervista, non
perché il personaggio sia refrattario a parlare con la stampa ma perché incarna
esattamente l’abito che porta: essenziale. «Parlo solo se ho qualcosa da dire»,
dice sommessamente, quasi a schermirsi. Questa volta di cose però ce ne sono
state, da raccontare.
Padre Francesco, lei si è ritrovato in un ruolo difficile
e di grande responsabilità in uno dei momenti forse più delicati per la Terra
Santa e il Medio Oriente. Come lo sta affrontando?
Fin da subito ho avvertito una sproporzione tra quello che
sono e l’incarico che ricopro. Se dimentico che sono al servizio dell’ordine
dei frati minori e dei cristiani di Terra Santa, provo una vertigine perché le
forze sembrano non bastare mai. E certamente la responsabilità potrebbe
spaventare, anche perché la situazione è delicata. Mi sono tornate spesso alla
mente le parole del cardinale Giovanni Montini, poi Paolo VI, contenute nei
suoi diari. Vado a memoria, sono passati più di quindici anni da quando le ho
lette, ma diceva che più crescono le responsabilità all’interno della Chiesa,
più si rischia di assomigliare sempre di più alle statue sulle guglie del Duomo
di Milano: tutti ti vedono, ma sei solo. È un’immagine vera, perché non hai più
qualcuno con cui condividere tutto, resti tu con la tua coscienza davanti a Dio
e con le tue scelte da prendere. Quello che sperimento, però, è una solitudine
abitata. Perché, accanto a me, ci sono sempre volti di amici nuovi, donati, che
magari non avrei scelto e che sono diversi dagli amici di una vita, ma che il
Signore mi mette accanto per ricordarmi chi fa davvero tutte le cose. Così, a
differenza di quelle statue sul Duomo, in questa nuova missione non mi sta
mancando una compagnia. A volte basta un incontro imprevisto, anche dentro
un’agenda piena di impegni, per accorgermi che Cristo non mi lascia mai solo.
Lei del resto ha ripetuto più volte che la sua è una
missione da vivere nella fraternità. Ci sta riuscendo?
Per grazia di Dio sì. Non si può vivere senza compagnia,
senza la manifestazione concreta della prossimità di Cristo. Spesso si palesa
in maniera impensabile. Una sera mi trovavo a Roma con alcuni provinciali dei
frati minori, prima di tornare a Gerusalemme. Salutando uno di loro, che non
conosco benissimo ma che stimo, chiesi se avesse una parola da dirmi prima di
partire. Mi rispose solo: «Cercati un amico». È stato il consiglio più bello.
Non si può vivere una vita senza amici. Credo che si possa vivere senza moglie
o marito, come la vita consacrata o sacerdotale dimostrano, ma nessuno può
vivere senza amici. Anche Gesù non ha potuto farne a meno.
Lei vive nel convento di San Salvatore, quindi in una
quotidiana esperienza di comunità…
Sì, siamo 78 frati, ci sono anche gli studenti di teologia e
i frati più anziani. Siamo in tanti ed è prezioso riaccorgersi che anche la
vita comunitaria ha bisogno di una regola. Perché la regola aiuta a mettere i
paletti che custodiscono il cuore di ciascuno. Essere fedeli agli appuntamenti,
ai gesti comuni, alla preghiera è un grossissimo aiuto a non disperdersi e a
non isolarsi. La fraternità è una necessità.
Difficoltà incontrate in questi primi mesi da Custode?
Una è sicuramente quella del linguaggio. Non conoscere
l’arabo, dover parlare sempre tramite interprete, ridurre concetti a me cari a
parole semplificate… Dentro al lessico passa tutta la tua cultura, tutta la tua
tradizione e la tua storia in fondo. Mi crucciavo molto di questo ma ho
scoperto che esiste un linguaggio universale, più diretto: la persona stessa,
il modo in cui ti poni. A volte quello che resta non è un discorso, ma un
sorriso, una pacca sulla spalla, un abbraccio. Francesco d’Assisi e il sultano,
quando si incontrarono ottocento anni fa, non parlavano la stessa lingua, ma
avevano forse la stessa posizione del cuore. È lì che nasce la possibilità di
incontro. Ecco, sto imparando che il Signore non vuole da noi abilità
particolari, ma ci chiede la disponibilità affinché sia Lui a operare
attraverso di noi. Per questo dico che il compito del custode è – ne sono
sempre più convinto – custodire la posizione del cuore.
Da dove nasce questa intuizione?
Un’amica una volta mi ha detto: «Ricordati che la prima
opera sei tu». Alla fine, la questione è questa: custodire il proprio cuore,
cioè la posizione di apertura al Mistero. Custodire la propria vocazione,
perché se la prima opera sono io, il primo lavoro da fare è su me stesso. Se
non lo facessi, diventerei un funzionario, un diplomatico, uno che gestisce
tante cose ma perde la verità di sé. Questa missione è impegnativa, spesso
faccio esperienza dell’impotenza: ci sono cose che non si possono cambiare come
la guerra o le piccole mancanze che ognuno di noi può avere. Sembra una
banalità, ma ogni tanto bisogna ricordarsi che certe cose brutte resteranno
tali per quanti sforzi, idee, intelligenza mettiamo in campo. Questo non
significa non adoperarsi perché le circostanze migliorino, ci mancherebbe. Ma
sto imparando quanto sia decisivo guardarle in tutta la loro drammaticità
portandole come le avrebbe portate Cristo. Non disperati, ma con uno sguardo
che non perde la speranza.
(…)
https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/padre-francesco-ielpo-custode-terra-santa#:~:text=CHIESA-,Padre%20Ielpo.%20%C2%ABLa%20fraternit%C3%A0%20%C3%A8%20una%20necessit%C3%A0%C2%BB,Non%20perderti%20il%20meglio,-Uno%20sguardo%20curioso
Un tema molto dibattuto è quello della presenza cristiana
in Medio Oriente. Cosa significa restare mentre tutto intorno crolla?
Il nostro primo compito è esserci. È la lezione di otto
secoli di Custodia: la Chiesa non chiede dei supereroi, ma una presenza che
resta. A Gaza i religiosi avrebbero potuto andarsene dopo il 7 ottobre, molti
di loro hanno passaporto internazionale, e invece sono rimasti accanto alla
gente. Non risolveranno il conflitto, ma testimoniano che Dio non abbandona
nessuno. Anche in Siria, negli anni dell’occupazione jihadista, i nostri frati
sono rimasti nei villaggi cristiani dell’Oronte subendo rapimenti e minacce. In
quel momento per noi sembrava tutto difficile e buio. Nel tempo, però, anche i
jihadisti hanno dovuto fare i conti con la presenza cristiana, che è diversa da
tutte le altre. Lo hanno riconosciuto. E ora che sono al governo in Siria hanno
un’idea di cosa sia il cristianesimo proprio grazie a quegli anni. Non cambiamo
il mondo con la forza, ma con la fedeltà di una presenza.
Molti cristiani, però, scelgono di lasciare la Terra
Santa. Come vive questo fenomeno?
È doloroso, certo. Ma non spetta a noi dire a una famiglia
“devi restare” o “devi partire”. La Custodia accompagna chi resta, senza
giudicare chi parte. Però ho capito una cosa: non basta garantire scuole,
sanità o lavoro perché le persone restino. Certo noi frati – anche attraverso
la nostra ong Pro Terra Sancta – ci adoperiamo per un sostegno concreto,
soprattutto in Cisgiordania dove da due anni l’80 per cento della popolazione è
senza lavoro, non esiste welfare e le famiglie faticano a pagare le rette scolastiche
e ad arrivare alla fine del mese. Per rimanere però serve una ragione più
profonda. Come custode sento l’urgenza di aiutare la gente a trovare le ragioni
per cui in ogni circostanza della vita, in qualunque condizione, è possibile
vivere ed essere uomini liberi.