PALESTINA/ La pietà e la memoria: Anna Foa e la tragedia
di Gaza
Massimo Borghesi Pubblicato 14 Settembre 2025
Di fronte al genocidio perpetrato dal governo di Israele,
Anna Foa su "La Stampa" propone di dare, ove possibile, un nome ai
palestinesi
Anna Foa è una storica di professione ed è ebrea. Il suo
ultimo libro, vincitore del premio Strega, ha un titolo significativo: Il
suicidio di Israele (Laterza, 2024). Sabato 13 settembre ha pubblicato su La
Stampa un articolo, Dall’Egitto a Gaza, il dolore dell’esodo, che non può
passare sotto silenzio. È un testo breve di grande bellezza. In esso scrive:
“Nelle raffigurazioni delle Haggadoth medioevali, il libro
letto a Pasqua dagli ebrei, l’esodo dall’Egitto è rappresentato in vesti
medioevali: gli ebrei sono raffigurati come nelle espulsioni che nel
Tre-Quattrocento ne resero difficile la vita in Europa. Se ne andavano con i
loro averi trasportati sui carri, uscendo dalle porte delle città, dopo che i
decreti cittadini li avevano scacciati. Con le loro vesti medioevali, i loro
cappelli segno di infamia, le loro donne e i loro bambini. Se oggi dovessimo fare
altrettanto, la nostra immagine dell’Esodo sarebbe quella che vediamo nei video
trasmessi dalla televisione, della lunga fila di macchine, furgoni, carretti
che portano i palestinesi di Gaza City verso Sud, sgombrando la città per
distruggerla dalle fondamenta. I carri medioevali hanno ora il motore, ma la
lunga fila è la stessa, il dolore dell’esilio lo stesso”.
Ciò che è diverso, osserva la storica, è il rischio della
morte. Gli ebrei esiliati potevano, nel Medio Evo, trovare rifugio altrove,
rifarsi una vita. A Gaza questo è impossibile, i profughi, stretti in un lembo
di terra divenuto una prigione, non sanno dove andare. Ogni posto, i campi
profughi, le case, le tende in riva al mare, sono potenziali luoghi di morte.
Questa consapevolezza muove Anna Foa a porsi una domanda che oggi nessuno pone,
una domanda che va al cuore della tragedia, oltre la guerra che divide due
popoli.
“Chi sono coloro che si muovono in queste lunghe
interminabili file? Di alcuni di loro abbiamo notizie, perché ne conosciamo il
nome, hanno insegnato nelle università, lavorato negli ospedali, dato come
giornalisti notizie che solo i giornalisti di Gaza erano autorizzati a
trasmettere. Di altri, vecchi, donne, bambini, nulla sappiamo se non il dolore
che leggiamo sui loro volti senza sorriso. Ma l’ordine di evacuazione varato
dal governo di Israele azzera le vite di tutti. Non ci sono più privilegiati, se
non coloro che hanno abbastanza denaro per farsi aiutare nella fuga, ma per
andare dove? Amici, amici di amici, scrivono chiedendo di essere aiutati a
uscire da quella prigione a cielo aperto. Ma come?”
“Le difficoltà burocratiche, quelle politiche e militari
dell’esercito e del governo israeliano, quelle stesse della inenarrabile
confusione di questo esodo lo rendono difficilissimo, forse impossibile.
L’ossessione israeliana per i muri, i checkpoint, le proibizioni di muoversi
trova qui la sua mortale apoteosi. Quanti di questi individui in fila per
salvarsi sopravviveranno? E potremo mai ricordare i nomi di chi non ci
riuscirà, leggerli un giorno come il cardinal Zuppi ha letto giorni fa quelli
dei bambini morti in questi mesi a Gaza?”
La Foa applica qui, ai palestinesi, la legge della pietà,
quella della memoria, la stessa che gli ebrei sopravvissuti alla Shoah hanno
adottato verso coloro che sono diventati cenere nei forni crematori. Si tratta,
da parte di un’autrice ebrea, di una posizione coraggiosa, rischiosa, che
comprende come anche il nemico, il popolo che ti odia, possa essere una
vittima. Vittima da parte di uno Stato fondato dalle vittime dell’Olocausto
che, in esso, ha trovato la sua legittimità che oggi sta perdendo per una reazione
spropositata, crudele, disumana al vile attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.
Un attacco che ha allargato a dismisura il fossato tra ebrei
e palestinesi offrendo a Netanyahu l’occasione per portare a termine il “lavoro
sporco”, secondo la definizione del primo ministro tedesco Friedrich Merz. Nel
lavoro sporco non può esservi pietà per l’avversario, anche se esso nulla ha a
che fare con i crimini di Hamas.
Impedire la pietà, da parte di Israele, da parte del mondo,
implica il venir meno dell’informazione, togliere voce e volto alle vittime.
Per questo più di 200 giornalisti sono stati uccisi a Gaza. Nel circuito
mediatico mondiale, attivo 24 ore su 24, Gaza è un buco nero. Lo è la
Cisgiordania nella quale la quotidiana violenza dei coloni israeliani verso i
palestinesi è oggetto di narrazione ma non di immagini. Lo Stato non lo
consente. È in questo buco nero che si colloca la proposta di Anna Foa.
“E allora, cominciamo a ricostruire, attraverso gli scarsi
frammenti che ne abbiamo, i nomi, i volti, le età, le professioni di alcuni di
loro. È possibile. Vediamo di non cogliere in quelle lunghe file di esiliati
solo numeri, ma vite. Vite troncate, forse distrutte, ma vite da ricordare, da
ricostruire nella nostra mente. Lo facciamo, lo abbiamo fatto, per la Shoah,
ridando nomi e storie ai sommersi. Allora, lo abbiamo fatto dopo, dopo che
erano stati distrutti. E se ora provassimo a farlo quando coloro che sono
destinati alla morte sono ancora in vita, quando temono per le vite dei loro
figli? Una memoria immediata, di ciò che sta accadendo ora. Forse getterebbe un
po’ di luce su quel milione di esseri umani in movimento, forse, chissà, ne
salverebbe alcuni. È difficile ma possiamo almeno provarci. Di fronte alla
negazione che questa tragica storia comporta della loro umanità, è una delle
vie per ricordare che sono esseri umani uguali a noi”.
“Lo abbiamo fatto per la Shoah, ridando nomi e storie ai
sommersi”. Il grande cuore di Anna Foa non si ferma all’ideologia, incancrenita
dall’odio, non indugia al mito dell’eccezionalità di Israele.
Al contrario vuole estendere anche agli altri, ai
palestinesi, la dimensione vittimaria. Fare quello che gli ebrei hanno fatto
per la Shoah significa oggi dare un nome ai profughi di Gaza. Salvarli
significa farli uscire dall’anonimato, quello che facilita le uccisioni
indiscriminate di uomini, donne, bambini.
èUn palazzo bombardato, una tendopoli, un ospedale, una
scuola: così, a caso, la morte arriva dal cielo. Cade su uomini senza volto che
nemmeno le immagini strazianti che filtrano dalla Striscia riescono a
restituire. La pietà non è destata dalle masse di poveracci che vagano, senza
sosta e senza meta, non dalle donne straziate che urlano di dolore. I volti
impietriti dei prigionieri ad Auschwitz, con le teste rasate e gli indumenti
logori, non destavano alcuna compassione negli aguzzini del campo.
Pietà e compassione sorgono non di fronte alla folla dei
miserabili, che scorre ogni giorno nei nostri telegiornali, ma di fronte ad un
volto nella folla. In articolo di alcuni anni fa, dal titolo Spielberg, Manzoni
e i colori della pietà, Adriano Sofri scriveva:
“Le fosse comuni, le cataste degli sterminati, riempiono di
orrore e fanno distogliere lo sguardo, mentre la pietà è singolare. L’occhio
della misericordia ha bisogno di scegliere, o essere scelto, da una figura e su
quella fissare angoscia, simpatia, smania di soccorso. Questo fanno le
immagini, e prima di loro i racconti. Sollevano dal bassorilievo di fondo dove
giacciono i caduti o languono i malati o si trascinano i deportati, una figura
a tutto tondo, un bambino di Varsavia con le mani alzate e la stella sul
cappotto, un miliziano che stramazza, una bambinetta vietnamita che corre
singhiozzando, una madre algerina impietrita dal dolore, una piccola Leyla
sarajevese con l’orbita vuotata da un cecchino. Soprattutto lo spettatore del
genocidio ha bisogno di aggrapparsi ad un corpo, ad un viso, un nome, per non
essere schiacciato e soffocato dal mucchio smisurato di morti, da quel
forsennato delirio di quantità che ne ispirò e ubriacò gli autori. I milioni di
morti sono troppi per non togliere il fiato e le forze. Fermando lo sguardo su
un punto noi compiamo una specie di adozione, che ci lascia di nuovo respirare
e piangere, e ridiventare capaci di figurarci anche il grande numero”.
L’universale, il dramma collettivo, può essere abbracciato e
condiviso solo partendo dal particolare, dallo “sguardo su un punto”.
(…)
https://www.ilsussidiario.net/news/palestina-la-pieta-e-la-memoria-anna-foa-e-la-tragedia-di-gaza/2881124/#:~:text=CULTURA-,PALESTINA/%20La%20piet%C3%A0%20e%20la%20memoria%3A%20Anna%20Foa%20e%20la%20tragedia,governo%2C%20del%20presidente%20che%20ha%20rinnegato%20la%20memoria%20della%20Shoah.,-%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94%20%E2%80%94
Questo è quanto Anna Foa ha pienamente compreso. Siamo tutti
spettatori della tragedia di Gaza, della follia criminale del governo di
Netanyahu che sta infangando il nome di Israele nel mondo. Eppure quella
tragedia arriva a noi, a noi che la contempliamo in diretta, anestetizzata. Ci
mancano i nomi, i volti, le storie, per sentirla nostra. Come nostra ci è
apparsa, da subito, la vicenda di padre Gabriel Romanelli e della comunità
della Sacra Famiglia a Gaza quando la chiesa è stata bombardata.
Il colpo sparato dal tank ha sollevato, per reazione, un
moto di sdegno e di solidarietà mondiale al punto che Netanyahu ha dovuto
scusarsi con il Papa. Padre Romanelli è il parroco della piccola comunità
palestinese di Gaza. A lui papa Francesco telefonava ogni giorno prima della
sua morte.
Dovremmo e vorremmo conoscere altri volti oltre a quelli del
sacerdote, volti non di Hamas che tiene prigioniero il suo popolo ed è causa
della sua tragedia, ma del popolo palestinese. Così il moto di compassione
potrebbe divenire universale e la condanna verso l’oppressore divenire
oceanica. Una condanna non degli ebrei ma del loro governo, del presidente che
ha rinnegato la memoria della Shoah.