giovedì 30 ottobre 2025


 

Newman. Il Dottore dell’unità

Il 1° novembre papa Leone XIV conferisce il titolo di "Dottore della Chiesa" al cardinale inglese canonizzato nel 2019. Arricchì il magistero della Chiesa superando il dualismo della modernità, oltre la contrapposizione tra ragione e fede, autorità e coscienza, legge morale e perdono

 

29.10.2025

Michael Konrad

Sacerdote della Fraternità San Carlo e studioso di John Henry Newman

Papa Leone XIV ha deciso di conferire a san John Henry Newman il titolo di Dottore della Chiesa. Newman si aggiunge così al circolo esclusivo dei 37 santi come sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino o santa Teresa di Lisieux che la Chiesa venera già come Dottori della Chiesa. Ogni santo rispecchia un aspetto particolare della vita e dell’insegnamento di Gesù e ciascuno di essi può insegnare ai fedeli qualcosa attraverso la sua testimonianza di vita e di fede; a causa del valore eminente della loro dottrina alcuni di loro ricevono però il titolo onorifico di Dottore della Chiesa.

John Henry Newman nacque nel 1801 a Londra e venne educato nella fede anglicana. Assunse con grande senso di responsabilità i suoi doveri pastorali come prete anglicano e insegnò all’Università di Oxford. Con alcuni amici fondò il Movimento di Oxford per rinnovare la Chiesa anglicana attraverso la redazione di testi che si ispiravano all’insegnamento della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa: negli anni Trenta dell’Ottocento era considerato l’intellettuale anglicano più importante del suo tempo.

Ma più approfondiva la dottrina anglicana, più era preso dai dubbi e nel 1845 Newman arrivò alla certezza che solo nella Chiesa cattolica si trova la verità piena. Si convertì, ricevette l’ordinazione sacerdotale e portò l’Oratorio di San Filippo Neri in Inghilterra. Non si può comprendere lo spirito di Newman senza tener conto della compagnia alla quale apparteneva: da san Filippo egli imparò che, per un membro dell’Oratorio, il luogo della santificazione è anzitutto la vita comune, non tanto di seguire una regola astratta, ma di amare persone concrete, con tutti i loro difetti. Nei decenni a seguire moltissimi cattolici inglesi fecero fatica a fidarsi di questo convertito, finché nel 1863 egli scrisse la Apologia pro vita sua per difendere la sincerità della conversione sua e quella dei preti cattolici in generale. Nel 1879 papa Leone XIII lo nominò cardinale. Al suo funerale, nel 1890, il feretro era seguito da una folla immensa, stimata sulle 20mila persone, tra cui uno stuolo di poveri.

Molti dei grandi pensatori del Novecento, come Romano Guardini, Erich Przywara, Edith Stein, Henri de Lubac o Yves Congar, hanno riconosciuto l’importanza del suo pensiero. Anche don Luigi Giussani ha letto da seminarista alcuni dei suoi testi principali. Przywara vedeva in Newman un potenziale nuovo dottore della Chiesa in quanto capace di dare una risposta di fede alle sfide non tanto dell’uomo antico o medievale, ma dell’uomo moderno e contemporaneo. Secondo il gesuita polacco, il cardinal Newman è infatti riuscito a superare la scissione tipicamente moderna tra l’ambito dell’oggettività, esemplificato dalle scienze naturali, e quello della soggettività, esemplificato dalla visione protestante della fede. Desidero esemplificare questa intuizione di Przywara riguardo a tre ambiti.

Coscienza morale e autorità hanno bisogno l’una dell’altra. Compito principale della coscienza personale è quello di riconoscere l’autorità da seguire

Una prima scissione che Newman ha superato è quella tra ragione e verità. Newman comincia negli ultimi Sermoni universitari, ancora da anglicano, a combattere la convinzione razionalista che la differenza tra la ragione e la fede stia nel fatto che la prima si basi su delle prove forti, la seconda invece su delle prove deboli. Secondo lui la ragione consiste invece nella facoltà di procedere dalle cose che sono percepite alle cose che non lo sono, esattamente come fa anche la fede. La fede usa il metodo della ragione, ed è pertanto ragionevole. Definita in tal modo, tuttavia, la ragione non può più avere la pretesa di essere infallibile. Newman individua, perciò, delle strade che la possono fortificare e allargare. In primo luogo, afferma che delle affezioni adeguate rendono la ragione più sana: una persona che ama si sbaglierà meno nell’indagine sulla persona amata. In secondo luogo, insiste sulla necessità di avere una visione sintetica della realtà: chi percepisce il senso dei singoli fenomeni, e i nessi che esistono tra loro, li conosce più in profondità. «Un tipo di pensiero filosofico», scrive, «(…) implica una concezione del vecchio connessa con quella del nuovo; un’intuizione delle relazioni e dell’influenza di ogni parte su ogni altra; senza la quale non c’è totalità, e non potrebbe esserci alcun centro».

In terzo luogo, Newman afferma che la conoscenza è un fenomeno dinamico: una persona che ripete da adulto le cose come le ha imparate da bambino, una persona cioè che non continua permanentemente a imparare da ciò che gli accade, non è in contatto con la realtà. Nel suo scritto Lo sviluppo della dottrina cristiana, egli applica quest’idea anche alla Chiesa stessa, che comprende nel tempo sempre di più le verità che ha confessato da sempre. Un ultimo fattore che fortifica la ragione, sul quale Newman insiste soprattutto ne L’idea di università, è la comunione: la verità si riconosce nel dialogo con gli amici.

Come si evince da quanto detto, Newman non considera la ragione in modo astratto, ma come una facoltà incarnata, legata strettamente alla singola persona e alla sua storia. Nonostante tale concetto di ragione sia dunque soggettivo, il suo compito è quello di riconoscere la verità oggettiva. Newman crede fermamente nell’esistenza del dogma, di una verità immutabile, che però ciascuno deve tentare di comprendere come può. Sebbene si sforzi di conoscere le affermazioni della Chiesa nel modo più esatto possibile, non le accetta mai senza ripensarle completamente in base alla propria esperienza e ai suoi primi princìpi personali.

Per il filosofo antico, la misura della moralità è lui stesso. Per il santo cristiano è Cristo: nel paragone con Lui, anche la persona più santa deve ammettere di essere molto lontana dalla perfezione

Un secondo ambito nel quale Newman supera la scissione tra oggettività e soggettività riguarda il rapporto tra la coscienza morale personale e l’autorità. Anche qui evita le visioni fondamentaliste e unilaterali. Secondo lui coscienza e autorità hanno bisogno l’una dell’altra. Da anglicano, Newman tentò di approfondire la tesi protestante secondo cui una persona normalmente si converte meditando da sé la Scrittura. Egli scrutò pertanto i testi sacri per vedere come gli uomini si convertivano nei racconti biblici e rimase colpito soprattutto da un particolare episodio: l’incontro tra l’apostolo Filippo e il ministro etiope. Quest’ultimo stava meditando il Cantico del Servo sofferente di Isaia. Alla domanda di Filippo se capiva ciò che leggeva, il ministro risponde: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?» (At 8,31). Newman interpreta questa risposta affermando che il cristiano non deve tanto cercare di capire da solo la Scrittura, ma piuttosto cercare qualcuno che gliela possa spiegare: un maestro. Compito principale della coscienza personale è dunque quello di riconoscere l’autorità da seguire.

Alcuni anni dopo Newman fa un passo in avanti e si chiede quale qualità dovesse avere quest’autorità che pretende di spiegare il senso delle Scritture e risponde: un maestro che vuole spiegare la Rivelazione deve avere la pretesa di essere infallibile, altrimenti non vale neanche la pena di ascoltarlo. Chi cerca la verità su Dio non cerca opinioni personali, ma la voce della Chiesa, cioè la voce di Cristo. Arrivato a questa intuizione, Newman chiede di essere accolto nella Chiesa cattolica, non certo per motivi di opportunità, ma per motivi di coscienza.

Venticinque anni dopo la sua conversione, il Concilio Vaticano I promulga il dogma dell’infallibilità papale e Newman si trova a confrontarsi con un nuovo problema. Alcuni cattolici ultramontanisti avevano interpretato il dogma fino a considerare il Papa infallibile in tutte le sue affermazioni. Newman ribadisce di nuovo l’importanza dell’infallibilità, ma senza dimenticare l’altro piatto della bilancia, cioè la coscienza morale del singolo. Senza negare affatto che la Chiesa abbia la potestà di insegnare con autorità sulle materie di fede e di morale, il Cardinale afferma: «Se fossi obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa; tuttavia, prima alla Coscienza, poi al Papa».

Per Newman coscienza morale e autorità non si escludono a vicenda, ma si richiedono reciprocamente. Una persona che cerca sinceramente il bene e si accorge dei propri limiti non può che desiderare di trovare un’autorità che la possa guidare nella propria ricerca. Invece, un’autorità come quella della Chiesa, che non ha a disposizione mezzi di costrizione fisica, non può che far appello alla coscienza del singolo augurando che egli possa riconoscere il vero. La Chiesa e la coscienza morale sono per Newman due vicari di Cristo, il loro compito è quello di assistere il singolo nella sua ricerca della volontà di Dio.

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mercoledì 29 ottobre 2025

Colletta 2025. «Chiamati a nuovi segni di speranza»

 



Colletta 2025. «Chiamati a nuovi segni di speranza»

Tra le mura del carcere di Opera, la presentazione della Giornata di raccolta di alimenti per i poveri promossa dal Banco Alimentare che si svolgerà il prossimo 15 novembre. Una «potenza di bene» che da quasi trent'anni coinvolge milioni di persone in tutto il Paese

 

24.10.2025

Giuseppe Beltrame

«Cos’è la carità?». È partita da questa domanda “innocente”, pronunciata quindici anni fa da una persona detenuta, l’idea di presentare nella Casa di Reclusione di Opera la ventinovesima giornata della Colletta Alimentare. L’incontro del 17 ottobre è stato un dialogo a più voci, moderato da Giuliana Malaguti, responsabile della comunicazione della Fondazione Banco Alimentare ETS.

A porre la questione era stata una delle tante persone recluse a cui fanno visita i volontari dell’associazione Incontro e Presenza Odv, che da quarant’anni si impegna ad incontrare i detenuti nelle carceri lombarde. «Portiamo qui la Colletta», era stata la risposta concreta dei volontari. Da allora, ad ogni edizione, aderiscono sempre più istituti penitenziari, l’anno scorso una quarantina in tutta Italia con risultati inimmaginabili. «Nel 2024 abbiamo raccolto oltre 3.300 kg di alimenti solamente nelle carceri di Opera, San Vittore, Bollate e Monza», ha spiegato Fabio Romano, presidente dell’associazione.

«Quest’anno la data da cerchiare in rosso sul calendario è sabato 15 novembre», ha esordito Marco Piuri, neo presidente della Fondazione Banco Alimentare ETS. «Nella scorsa edizione i 155.000 volontari sparsi in 12.000 punti vendita hanno invitato i cittadini a donare parte della propria spesa per i più poveri, raccogliendo 7.900 tonnellate di alimenti. I numeri sono in costante aumento: 7.600 strutture caritative vengono in soccorso a 1.755.000 persone». Piuri ha continuato ricordando il messaggio che accompagna questa edizione, tratto dal discorso di Leone XIV per la IX Giornata Mondiale dei Poveri. «Tutti siamo chiamati a creare nuovi segni di speranza che testimoniano la carità cristiana», le parole del Pontefice sembrano motivare la decisione di presentare la Colletta in un carcere, una scelta accolta con entusiasmo da chi vive nella struttura. «Stamattina tra i corridoi che avete percorso per arrivare qui c’era grande fermento», ha spiegato Incoronata Corfiati, primo dirigente di polizia penitenziaria del Carcere di Opera. «Del resto la solidarietà negli istituti di reclusione coinvolge tutta la comunità, non solo chi sconta la sua pena».

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martedì 28 ottobre 2025

Le Roy Ladurie, cosa ci dice la storia del clima quando Greta non c’era


 

LETTURE/ Le Roy Ladurie, cosa ci dice la storia del clima quando Greta non c’era

Danilo Zardin Pubblicato 28 Ottobre 2025

 

Gli studi di Emmanuel Le Roy Ladurie, in particolare il classico “Tempo di festa, tempo di carestia” dedicato al clima nel Medioevo, sono attualissimi

 

Il pessimismo catastrofista che ai giorni nostri dilaga si riflette in modo eloquente nella prospettiva con cui guardiamo all’evoluzione dell’ambiente naturale. Predomina la concezione di un declino inesorabile verso il peggio, incentivato dall’influsso largamente nocivo del fattore umano, implicato in modelli di vita sociale basati sul saccheggio delle risorse non recuperabili e sullo spreco spropositato di ciò che finisce nell’accumulo dei rifiuti, producendo l’inquinamento di un mondo sempre più contaminato, intaccato nelle sue fibre più profonde.

Le distorsioni crescenti dell’andamento climatico, accompagnate dal riscaldamento accelerato del globo, appaiono come il segno patologico di una disfunzione di fronte alla quale ci si sente indifesi, sotto minaccia: sono l’indizio di una rottura di sintonia tra l’uomo e il suo contesto, che si è accentuata con l’avanzata del progresso contemporaneo e rischia di scardinare il futuro che si profila all’orizzonte.

Valutare il peso reale dell’asservimento degli assetti planetari alle logiche dell’odierno sfruttamento squilibrato, senza freni adeguati, non è facile impresa. Ma sta di fatto che gli schemi di giudizio adottati dai profeti di sventura che pontificano sui mezzi di comunicazione di massa e ispirano i progetti dell’ecologismo più radicalmente estremizzato non tengono conto di una realtà fondamentale: il clima risente certamente del fattore umano, quando e là dove questo si fa sentire con una forza di pressione esorbitante, ma è prima ancora condizionato da dinamiche interne di evoluzione radicate nella fisicità delle strutture materiali della natura.

I movimenti delle grandi masse atmosferiche, le ondate cicloniche, per citare degli esempi, hanno subito costanti oscillazioni sul filo del tempo, e tutto lascia credere che continueranno a farlo anche in una cornice ambientale ostile. Fin dalle ere geologiche più remote, lo sappiamo bene, il contesto climatico non è mai stato regolato da catene di inquadramento assolutamente rigide, in sé immodificabili.

Anche le linee di tendenza attuali potrebbero essere corrette, riorientate magari in modo decisivo. Ma queste linee di sviluppo non sono determinabili con precisione millimetrica, tanto meno si possono pianificare in nome di una ingegneria disegnata secondo i contorni delle nostre imperiose (e magari molto discutibili) preferenze ideologiche.

Il richiamo potente a non trascurare la mobilità elastica del clima è emerso nel corso del Novecento a seguito della crescita massiccia delle tecniche di ricerca applicate all’analisi dei fenomeni atmosferici, dei loro effetti e delle loro possibilità di contenimento.

L’accumulo dei dati è stato messo al servizio di una capacità di previsione del tempo futuro sempre più estesa e raffinata. Ha preso piede la meteorologia moderna, che ci dispensa quotidianamente le sue persuasive certezze.

Nello stesso tempo la climatologia non ha potuto evitare di guardare anche all’indietro, per cogliere le premesse e misurare meglio le anticipazioni della realtà che oggi sperimentiamo. Ѐ diventata così proponibile una ricostruzione del cammino conosciuto dal clima lungo la corsa del tempo che porta fino al presente. E a partire dai decenni centrali del secolo scorso si sono moltiplicati i tentativi per valorizzare il patrimonio di informazioni rese disponibili in merito all’evoluzione dei fatti climatici come punto di vista in grado di illuminare, in presa diretta, le relazioni della vita dell’uomo con gli ambienti da lui abitati.

L’interesse per la messa a fuoco di questo sfondo dell’esperienza collettiva che ci siamo lasciati alle spalle è stato nutrito soprattutto dalla rivoluzione storiografica che ha avuto il suo epicentro nella scuola francese delle Annales.

Il desiderio di guardare alla storia degli attori umani in termini globali, scendendo dalle vette delle élites del potere e della cultura fino agli strati più umili delle basi materiali e persino dei pilastri biologici dei sistemi di civiltà che si sono succeduti sullo scenario mondiale, ha agito come uno stimolo fecondo a favore della dilatazione dell’orizzonte: si trattava di allargare lo sguardo storico in direzione dei rapporti stabiliti con i contesti naturali segnati dalla forte incidenza delle condizioni climatiche. Ѐ il compito in cui si è distinto come maestro autorevole Emmanuel Le Roy Ladurie (1929-2023).

Le sintesi che egli ha ricavato da una sistematica revisione delle prospettive tradizionali sono condensate in una serie di saggi importanti pubblicati a partire dagli anni intorno al 1960, che si possono rileggere ancora con grande profitto in volumi come l’antologia Problemi di metodo storico, curata da Fernand Braudel (Laterza, 1973 e 1982), oppure nella raccolta di scritti dello stesso Le Roy Ladurie apparsa in lingua italiana con il titolo di Le frontiere dello storico (Laterza, 1976). Il contributo più rilevante rimane, su questo fronte, uno dei libri di maggior successo dello storico francese: Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dell’anno mille (Einaudi, 1982).

Il cardine delle ricostruzioni offerte in questi lavori è la sottolineatura dell’optimum climatico del XX secolo, caratterizzato da una diffusa propensione, in tutto l’Occidente euroamericano, all’innalzamento delle temperature nelle diverse stagioni dell’anno, in particolare con la serie di quelle che Le Roy Ladurie definisce le “splendide annate” del 1942-53.

Alla fine degli anni 50 del secolo scorso si manifestarono comunque i segni di un’inversione di rotta, con il ritorno a un relativo raffreddamento: eppure la pressione del fattore antropico era in fase di deciso aumento, nel quadro del generale decollo della società del benessere nell’euforico “nuovo corso” postbellico.

D’altra parte, in senso contrario, il rialzo termico che si era cominciato a registrare a partire dalla fine (e soprattutto dall’ultimo decennio) dell’Ottocento, certamente non spiegabile in base alla riduzione dello scudo protettivo dell’ozono o all’aumento esponenziale dell’inquinamento, segnò una netta inversione di tendenza rispetto a quella che gli specialisti hanno etichettato come la “piccola età glaciale” degli anni 1580-1850 circa: una fase di sensibile inversione climatica che, stando ai riscontri materiali superstiti, interessò quanto meno le aree continentali disposte intorno all’Atlantico settentrionale nel loro insieme. Il raffreddamento aveva cominciato a manifestarsi intorno alla metà del secolo XVI e raggiunse il suo culmine dopo il 1600: riduzione del ciclo vegetativo, sottoproduzione agricola, frequenti carestie, abbassamento della qualità dei vini, espansione dei ghiacci nelle zone elevate e nelle terre nordiche ne furono i contrassegni espliciti.

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venerdì 24 ottobre 2025

Enzo Piccinini: un giudizio sempre attuale

 Un giudizio sempre attuale



Ieri ero a Bari, avevamo fatto una serie di cose nella comunità, ero anche molto contento. Abbiamo fatto una ricchissima colazione fantastica lì con il gruppetto e a un certo punto per radio si sente – parlano dell’ex Jugoslavia – che riinizia la guerra: mobilitazione generale, notizie terrificanti e uno si blocca. Io credo che se uno è minimamente cosciente di sé, di fronte a quella roba lì non riesce più a mangiare, perché il problema vero è che sono riusciti a toglierci quella sensibilità per cui uno quasi senza volerlo dice: ”Ma io cosa c’entro? Sono affari loro, han sempre litigato”, oppure: ”Sono africani”, o “Sono musulmani”. Cioè, hanno tolto qualcosa dal cuore e dalla mente per cui di quel che succede io posso dire “non c’entro”. Ma se di quel che succede io posso dire o vivere come se non c’entrassi, che cosa hanno tolto? Il senso del mistero e dell’assoluto, cioè hanno tolto il destino! Uno è come se vivesse senza la coscienza del destino perché, con la coscienza del destino, quel destino è uguale a quello di chi là sta morendo adesso in casa sua perché due fazioni litigano. O come le centinaia di persone che sono morte, la gente delle barche: erano un popolo, questa gente qui, distrutti, e continuano ancora adesso, centinaia, migliaia di morti, annegati! Ma come si fa a stare al mondo? Con che dignità continuo a fare tutto senza una risposta a questo, senza un minimo di risposta a questo? Lo possiamo fare: lo sapete perché? Ci han tolto il senso del destino, il senso del mistero. “Cosa c’entro io? Sono affari loro, no?” E così continuiamo come niente fosse, con nemmeno l’inquietudine di dire: “Signore aiutali, pensaci tu!” Nemmeno quest’inquietudine qui…
(da un'Assemblea a Bologna, 21 giugno 1992)
 


Quando mi sono convertito, all’inizio, c’erano vari problemi, perché i miei amici di prima (che erano piuttosto tenaci e duri, era il periodo della guerra in Vietnam) mi perseguitavano. E il tono era questo: «Ti sei fatto il tuo angolino, eh? Vai anche a pregare. Cosa fai per il Vietnam? Non ti rimorde la coscienza?». Ero un po’ ricattato, non riuscivo a capire. Una volta c’era stata una manifestazione, uscivo dalla mensa universitaria, mi hanno circondato e hanno incominciato un’invettiva durissima.
Vedevano che ero debole proprio nelle ragioni. Io stavo malissimo, non riuscivo a rispondere; a un certo punto mi è venuta l’idea e ho detto loro: «Io per il Vietnam costruisco la Chiesa, qui». Non lo scorderò più: questa è la verità della questione.
Oggi quando mi vedono si vergognano, perché fanno tutti i mestieri che non volevano fare e il loro “sinistrismo” è rimasto nei viaggi in Oriente, nel verdismo o nel fare i sub e scambiarsi le foto o nel portare il cane a passeggio. Questo è quello che è rimasto. Io, invece, sono ancora sulla breccia! Qualche volta dico a qualcuno di loro: «Che cosa fai per il Vietnam?». C’è un pezzo fantastico dei Cori da «La Rocca» di Eliot: «Senza tempio non ci sono dimore»: senza la presenza del Mistero che ci ama, non c’è posto per l’umanità. Per questo bisogna costruire la Chiesa.
(dall'incontro pubblico "Il Cristianesimo è per la felicità dell’uomo" - Ferrara, 14 maggio 1999)
 

 

lunedì 20 ottobre 2025

Lettura e drammatizzazione di testi scelti de "La scarpina di raso" di Paul Claudel (Taranto)


 

Domenica 19-10-2025, alle ore 17.00, nell'auditorium della Biblioteca Acclavio di Taranto ha avuto luogo una lettura drammatizzata di testi scelti e selezionati dall'opera teatrale di Paul Claudel "La scarpina di raso".

Lettori: Prof. Luigi Ricciardi, Prof.ssa Gemma Barulli, Prof. Aldo Capotorto.

Scelta dei brani e commento dell'opera: Prof.ssa Gemma Barulli  

venerdì 17 ottobre 2025

India. Un premio al “seva” di Rose

 



India. Un premio al “seva” di Rose

La fondatrice del Meeting Point di Kampala, in Uganda, ha ricevuto, davanti a duemila persone, un riconoscimento durante il One World One Family World Cultural Festival 2025. «Rose, guidata dall’incontro con don Giussani, ha potuto scoprire la sua chiamata ad aiutare le persone»

 

16.10.2025

Anna Leonardi

Rose Busingye riceve il premio da Sadhguru del "One World One Family World Cultural Festival 2025"

Come un Festival in India, organizzato in occasione del centenario della nascita di Sathya Sai Baba, uno dei più noti maestri spirituali dell’India contemporanea, abbia scoperto e voluto premiare Rose Busingye, l’infermiera ugandese che da trent’anni lavora con le donne sieropositive e bambini orfani di Kampala, resta abbastanza un mistero. Eppure lo scorso 23 agosto Rose, insieme ad una delegazione del suo Paese, è arrivata a Muddenahalli, nel sud del Paese, ed è salita sul palco dell’enorme centro congressi Sathya Sai Grama, per ricevere il premio per il suo “seva”, una parola in hindi per indicare il servizio disinteressato come forma universale di amore.

«Quando mi hanno convocato non volevo crederci, pensavo a uno scherzo, ho buttato via la mail. Poi mi hanno riscritto e fatte le verifiche presso consolati e ambasciate, ho capito che avevano scelto proprio me. E che l’evento non era proprio una cosa da niente. Alla fine sono partita», racconta Rose.

Il One World One Family World Cultural Festival 2025 ha una durata complessiva di cento giorni - dal 16 agosto al 23 novembre - e vede la partecipazione di nazioni provenienti da tutto il mondo. Il festival è organizzato in collaborazione con il Ministero della Cultura del Governo dell’India e con l’Indira Gandhi National Centre for the Arts. Il programma comprende spettacoli culturali, celebrazioni spirituali oltre a promuovere iniziative sociali di forte impatto, come l’apertura presso il Sathya Sai Grama, di un ospedale gratuito da 600 posti letto concepito per offrire cure di alta qualità a tutti, senza distinzione di reddito o provenienza. In questa carrellata di eventi, ogni giorno vengono presentate e premiate persone impegnate in progetti di nutrizione, istruzione, sanità e di benessere per la comunità. Persone semplici e straordinarie che si sono distinte per un “amore in azione” – come stabilisce il Corporate Social Responsibility, il comitato, all’interno del festival, incaricato dell’assegnazione dei riconoscimenti.

Sulla targa del premio consegnato a Rose si legge: “Voce del valore infinito e della speranza”. Ed è questo che ha raccontato al momento della premiazione, quando, vestita con un sari di seta, si è trovata inaspettatamente davanti a una platea di duemila persone. «Essendo riuscita a partire all’ultimo e non avendo capito bene come si sarebbero svolte le cose, non mi ero preparata un vero discorso», spiega. «Quando ho visto tutte quelle persone mi sono sentita svenire. Ma ho pensato: “Gesù mi hai fatto arrivare fin qui, adesso tocca a te!”». Rose, dopo qualche tentennamento di commozione, inizia a parlare ripetendo ciò che ha sempre detto a chiunque abbia incontrato sulla sua strada: «Tu, in qualsiasi condizioni ti trovi ora, hai un valore. Sei prezioso. Povero, ricco, malato, moribondo non è la morte a definirti». Parole che lei per prima si sentì dire da don Giussani, quando in crisi e schiacciata dal peso delle opere che con lei erano nate, lui la guardava come a un tesoro inestimabile. Chi era don Giussani e come abbia sostenuto il suo lavoro è la presentatrice del festival a spiegarlo alla platea: «Rose, guidata dall’incontro formativo con don Giussani, il sacerdote italiano che ha fondato il movimento di Comunione e Liberazione, ha potuto scoprire la sua chiamata ad aiutare le persone».

 

Chiamata che si è concretizzata nel tempo in alcune opere come la Welcoming House, che raccoglie neonati abbandonati nelle pattumiere di Kampala, la Luigi Giussani Primary e High School e il Meeting Point International. Rose, continuando il suo discorso, ne descrive il cuore: «Distribuiamo farmaci, paghiamo le rette, facciamo counseling, ma le cose materiali sono solo degli strumenti perché ciascuno che arriva da noi si senta accolto, riconosca la dignità infinita che ha. A chiunque diciamo: “Guarda che sei di più di ciò che riesco a darti”».

La cerimonia si conclude con le parole di Sadhguru, uno dei più popolari guru indiani contemporanei e discepolo di Sai Baba, che dopo aver consegnato il premio a Rose, dice: «Ci sono persone a questo mondo mosse da un amore puro e questo è il motivo per cui in un mondo sempre più diviso c’è ancora la pace. Magari non si tratta di grandi organizzazioni, ma di persone semplici, che spaccano le pietre e fanno collane per raccogliere soldi da mandare a nazioni apparentemente più ricche di loro (si riferisce alle donne del Meeting Point, ndr) perché riconoscono che l’altro ci appartiene, e se ne fanno carico. È solo questo a tenere ancora il mondo insieme. Sono le donne e gli uomini che fanno la volontà di Dio qui sulla terra».

Quando Rose, prima di far ritorno a Kampala saluta Sadhguru, gli dice: «Non ho ancora capito come avete pescato proprio me in Uganda. Ma vi ringrazio perché lontano da casa mi sono sentita a casa. C’è qualcosa nel tuo volto che brilla. È la presenza del Mistero che fa me e te». Sadhguru le regala la stola e il monile d’oro che ha al collo e le sussurra: «Puoi chiedermi quello che vuoi. Ma una cosa te la chiedo io: l’anno prossimo voglio venire a trovarti. Voglio venire a vedere».   

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Sacro Cuore. Quarant’anni di mattoni

 



Sacro Cuore. Quarant’anni di mattoni

La Fondazione dell'Istituto alle porte di Milano festeggia il suo anniversario con una giornata dedicata a una costante della sua storia: la passione educativa ispirata da don Giussani. Sono intervenuti, tra gli altri, Davide Prosperi, Rose Busingye e Hans Broekman

 

15.10.2025

Maurizio Vitali

Il quarantennale della Fondazione Sacro Cuore

Una scuola festeggia il quarantesimo non con un’autocelebrazione, ma con un grazie al carisma da cui tutto è nato e fluisce: il carisma e il metodo educativo di don Luigi Giussani. È il “Sacro Cuore”. Nel salone del teatro dell’istituto di via Rombon, a Lambrate, periferia di Milano, non sono pochi quelli che ci hanno messo, nel 1985, il loro “mattone”, o i loro mattoni, cioè un contributo di cinquecentomila lire (o multipli, potendo) per l’acquisto dell’immobile da parte della Fraternità di Comunione e Liberazione. 

Lo ha ricordato Marco Bersanelli, astrofisico, presidente della Fondazione Sacro Cuore, in apertura del convegno intitolato “Certi di un bene più grande. Quarant’anni di passione educativa”, svoltosi l’11 ottobre. Sottolineando l’esplicita volontà di don Giussani di realizzare un esempio con cui tutti potessero confrontarsi, e sottolineando anche il valore indimenticabile dell’irruente e appassionata guida del primo rettore, don Giorgio Pontiggia. L’“esempio” è un complesso con un’offerta educativa che va dalla scuola materna ai licei (classico, scientifico e artistico) con 100 insegnanti e 1200 alunni.

Un grazie, si diceva, al carisma educativo di don Giussani. Ma anche un approfondimento di esso, «per dare continuità a quella storia nelle condizioni odierne e nel futuro», ha ricordato Bersanelli.

È toccato a Davide Prosperi, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione - e a suo tempo alunno del Sacro Cuore - il compito di tratteggiare “L’originalità della proposta educativa di don Giussani”. Il seguito del convegno è stato dedicato a testimonianze di alcuni “frutti significativi” del carisma e dell’opera: dalle scelte vocazionali e professionali di ex alunni (Daniele Gomarasca, rettore de La Zolla; Daniele Alberzoni, monaco del monastero benedettino della Cascinazza), alle realizzazioni nel mondo (Hans Broekman a Liverpool, Rose Busingye a Kampala).

Intervistato da Bersanelli, Prosperi condensa in tre capisaldi il metodo educativo giussaniano: 1) proporre adeguatamente il passato, cioè la tradizione, 2) come ipotesi di significato nel vissuto presente; 3) educazione alla critica, «cioè alla verifica, che chiama in causa», ha sottolineato Prosperi «la libertà del ragazzo e nel contempo il suo bisogno di essere accompagnato». Insomma «lo scopo ultimo è liberare i giovani! Liberarli, attraverso l’educazione, dall’alienazione che rende schiavi».

E come affrontare l’estrema fragilità, che oggi si manifesta, la dipendenza digitale o dalla droga, l’inedita frequenza dei disturbi dell’apprendimento? Con quali criteri?

«Tante volte il dramma dei giovani è di non sentirsi performanti, non all’altezza della performance cui si sentono disperatamente obbligati. La strada è, in un rapporto, fare emergere le vere esigenze del cuore e proporre una risposta positiva di cui l’adulto fa già esperienza, che è disponibile a condividere con i ragazzi che gli sono affidati». Non a caso don Pontiggia «considerava la scuola occasione di un cammino per tutti, per gli alunni, ma anche per gli insegnanti». Non è mancato uno sguardo sulla situazione italiana ed europea, per dichiarare, da parte del presidente della Fraternità di Cl, la necessità e la volontà di «riaprire un dibattito sulla libertà di educazione per il futuro del Paese».

 

Don Pontiggia riappare come protagonista di un episodio decisivo nella vita dell’allora quindicenne Daniele Gomarasca, oggi Rettore della Scuola La Zolla di Milano. Andò così: «Me ne stavo in fondo all’aula dove don Giorgio guidava un raduno religioso, preoccupato soprattutto di non farmi notare. Lui l’irruenza, io la timidezza. A un certo punto: “E tu, Gomarasca, che cosa ne pensi?”. Mi sentii un faro puntato addosso. Lui mi conosceva! Era attento a me. E la sua domanda era vera, non un artificio. Ecco: al vero ci si approssima cercando insieme in un cammino condiviso». Non solo da don Giorgio. Anche da certi insegnanti si riceve molto. Quelli che «non considerano l’alunno come cassa di risonanza delle loro sequenze già note». E la scelta di dedicarsi alla scuola? «Per il desiderio di restituire a tanti altri quello che insieme avevamo ricevuto».

Gli insegnanti possono lasciare un segno indelebile. Lo documenta anche Daniele, monaco benedettino. Di uno ricorda: «Ho scoperto in lui una stima per l’umano, per la mia umanità, più di quanto mi stimassi io. Per lui io ero una persona con cui coinvolgersi, non un problema da risolvere. Io sono stato abbracciato prima di ogni mia risposta». Di un altro prof, ricorda l’amore alla libertà e alle ragioni. Racconta l’episodio. Una ragazza: «Prof, possiamo iniziare la scuola con la preghiera?». «Perché?», fu la risposta. «No, finché non mi date una ragione». «Ecco, essere sfidati sulla ragioni», aggiunge il monaco, una grande lezione. «Nello stesso tempo ho fatto una grande esperienza di paternità con don Giorgio e con dei prof che hanno rischiato, se stessi con le mie domande. Fino a comunicarmi, specie don Pontiggia, il senso del Mistero: “Io sono tu che mi fai in questo momento”».

L’ultima parte del convegno, prima del saluto finale dell’attuale Rettore, don José Miguel García, si intitolava “Apertura al mondo”.

Hans Broekman, insegnante di lungo corso di Liverpool, venne folgorato da don Giussani per tramite della precedente folgorazione avuta da don Albacete, sacerdote, giornalista e intellettuale statunitense di grande fama, ciellino. La prima folgorazione da Albacete avviene nel settembre 2001, quando Broekman lo sente commentare in televisione la strage delle Torri Gemelle, in modo straordinario e diverso dagli altri. La seconda quando scoppiò la pandemia da Covid. «Chissà cosa direbbe Albacete se fosse vivo?». Su youtube trova un video in cui parla di don Giussani. Broekman legge tutto quello che trova di Albacete e di Giussani. Dopo la lettura de Il rischio educativo, gli scoppia dentro un pensiero: «Lo scriverei io, se fossi un genio». In compenso ha scritto un testo che espone le idee di don Giussani «in modo che gli inglesi potessero meglio capirle».

Da allora Broekman si è impegnato per cambiare il metodo della scuola. E a introdurre il principio della “coerenza”, intendendo che l’educazione non è riducibile all’istituzione, ma «tutto comincia dall’insegnante, dalla sua persona». Ora Broekman ha scelto di essere cappellano (laico) del Holy Family Trust, proprio per compiere il cambiamento di rotta.

(….) continua su sussidiario.net

 


domenica 5 ottobre 2025

Pizzaballa. «Rimanere nell’amore»

 



Pizzaballa. «Rimanere nell’amore»

La lettera del cardinale a tutta la diocesi del Patriarcato Latino di Gerusalemme: «La fine delle ostilità a Gaza è solo il primo passo. La resa dei conti non ci appartiene, né come logica né come linguaggio. Come Chiesa siamo chiamati a testimoniare la fede nella passione e risurrezione di Gesù. Ci uniamo all’invito del Papa per una giornata di digiuno e preghiera»

 

A tutta la diocesi del Patriarcato Latino di Gerusalemme

Carissimi fratelli e sorelle,

il Signore vi dia pace!

Sono due anni che la guerra ha assorbito gran parte delle nostre attenzioni ed energie. È ormai a tutti tristemente noto quanto è accaduto a Gaza. Continui massacri di civili, fame, sfollamenti ripetuti, difficoltà di accesso agli ospedali e alle cure mediche, mancanza di igiene, senza dimenticare coloro che sono detenuti contro la loro volontà.

Per la prima volta, comunque, le notizie parlano finalmente di una possibile nuova pagina positiva, della liberazione degli ostaggi israeliani, di alcuni prigionieri palestinesi e della cessazione dei bombardamenti e dell’offensiva militare. È un primo passo importante e lungamente atteso. Nulla è ancora del tutto chiaro e definito, ci sono ancora molte domande che attendono risposta, molto resta da definire, e non dobbiamo farci illusioni. Ma siamo lieti che vi sia comunque qualcosa di nuovo e positivo all’orizzonte.

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Leggi la lettera del cardinale sul sito del Patriarcato Latino di Gerusalemme



giovedì 2 ottobre 2025

Paraguay. Il mendicante e la casa ritrovata

 



Paraguay. Il mendicante e la casa ritrovata

Padre Pato racconta della caritativa con i senzatetto alla stazione degli autobus ad Asunciòn e di come l’incontro con un uruguayano affamato e bisognoso abbia cambiato la vita della parrocchia di San Rafael

 

02.10.2025

Patrizio Hacin

Parroco nella chiesa di San Rafael ad Asunciòn (Paraguay)

Era arrivato a piedi dall’Uruguay. Aveva sentito dire che in Paraguay ci sarebbero state più opportunità per ricominciare ma si era ritrovato povero e senza nulla. Lo incontrammo un venerdì vicino alla stazione degli autobus di Asunción, dove andiamo a fare caritativa. Era in fila ad aspettare la cena ed era arrabbiato: secondo lui eravamo molto male organizzati, quando ricevette il cibo si adirò perché ne voleva di più. Mi avvicinai e lo abbracciai. Quindici giorni lo rivedemmo. Fu molto più gentile e decise di fermarsi con noi fino alla fine della giornata (oltre alla distribuzione del cibo, infatti, pensiamo sempre a un momento di canti insieme). Così, poco a poco, nacque tra noi una piccola amicizia.

Qualche giorno più tardi si presentò nella nostra parrocchia di San Rafael, che si trova in una zona periferica della città. Era un lunedì, giorno che noi sacerdoti della Fraternità San Carlo Borromeo riserviamo al riposo, alla preghiera e al dialogo tra noi. Chiese alla segretaria di me, con molta insistenza. «Sono un suo amico», le disse. La segretaria mi avvisò che mi stava aspettando. Uscii a vedere chi fosse, ed eccolo lì, il mio disordinato amico uruguayano. Ricordo ancora le sue parole: «Ciao, padre. Sono venuto a vedere se ha bisogno di qualcosa, magari posso aiutarvi in parrocchia. Io posso lavorare e voi in cambio mi date da mangiare». Mi sorprese questo suo slancio, così accettammo. Del resto abbiamo un grande giardino da tenere pulito e due braccia in più possono fare comodo.

Durante una pausa dal lavoro, mi raccontò parte della sua storia. Sicuramente non mi disse tutto, ma non importa. Negli ultimi tempi, spiegò, gli era toccato vivere e dormire nella sala d’attesa della stazione degli autobus. Pochi giorni dopo questo nostro dialogo, proprio la stazione divenne teatro di un’operazione di sgombero da parte delle forze dell’ordine perché era emerso un traffico di minori nell’area, da sempre segnata da spaccio, prostituzione e tratta di esseri umani. Tutti i senzatetto furono costretti ad allontanarsi, proprio in un momento in cui faceva insolitamente freddo per la nostra regione. Ancora una volta, l’amico uruguayano tornò a bussare alla nostra porta. Chiedeva un luogo dove poter dormire e poiché abbiamo una sala incontri con un divano, gli permettemmo di passare lì la notte. Gli altri lavoratori che ruotano intorno alla nostra chiesa si preoccuparono per lui: lo aiutarono a lavarsi, a cambiarsi e condivisero con lui il cibo.

Alcuni giorni dopo, qualcuno gli offrì un lavoro in un’altra città, a circa 200 km da Asunción. Con il piccolo compenso che aveva ricevuto da noi per il suo operato se ne andò, lasciando solo un biglietto diceva: «Grazie di tutto, padre. Vado a lavorare fuori città». Provai una strana tristezza, e anche i lavoratori rimasero delusi dalla sua decisione. Neanche 48 ore dopo, però, lo vedemmo tornare. Per noi fu una grande gioia, ma lui era molto abbattuto: l’avevano ingannato con la proposta di lavoro. A pranzo, emozionato, ci disse: «Non sarei mai dovuto andare via da qui. Devo imparare a fidarmi».

«La sua presenza ci ha smossi, ha fatto maturare l’amicizia tra noi sacerdoti e i lavoratori della parrocchia. Avere una casa, aprirla e far parte della sua costruzione è la cosa più bella che un uomo possa avere come orizzonte nella vita»

Quando in tavola arrivò l’asado, timidamente aggiunse: «Erano anni che non mangiavo così, a tavola con amici. Non credo di poter mangiare molto, perché devo mantenere lo stomaco piccolo per non soffrire la fame. Non so fino a quando tornerò a mangiare». Fu un momento duro e commovente. Il giardiniere della parrocchia, un uomo timido e di poche parole, ruppe il silenzio mentre gli serviva la carne: «Con noi mangerai sempre».

Quel giorno – era un venerdì – nel pomeriggio noi sacerdoti tornammo in stazione per la consueta caritativa e il nostro amico volle aiutare a preparare il cibo da distribuire. Non posso dimenticare il dialogo che accadde in auto. Ci disse: «Che grande miracolo. Due settimane fa aspettavo che voi arrivaste perché avevo fame, e oggi Dio mi fa sentire cosa significa essere aspettato». Quando arrivammo, alcune persone lo riconobbero. Era pulito e rasato per cui gli chiesero come fosse possibile quel cambiamento. Lui rispose, ancora una volta, di essere stato accolto nella nostra parrocchia.

Alcuni tossicodipendenti mi chiesero allora se potessero vivere anche loro con noi. Non potevo portarli tutti a vivere da noi, anche se avrei voluto, ma proposi di cercare insieme un lavoro. Il giorno dopo, tre di loro si affaccendavano a tener pulito intorno alla parrocchia. Non hanno smesso di venire. E non per chiedere solo denaro come in passato, ma per lavorare, per impiegare il proprio tempo in maniera utile.

Non sono mancati momenti difficili. Vicino alla parrocchia c’è un’officina meccanica il cui proprietario è uruguayano, così gli chiesi se potesse assumere il suo connazionale. All’inizio rifiutò perché è piuttosto rischioso assumere qualcuno preso dalla strada, senza documenti né casa. Dopo qualche tentennamento e qualche rassicurazione, accettò. I primi giorni andarono bene finché il nostro amico non si presentò al lavoro ubriaco,  causando quasi un incidente. Il meccanico mi chiamò spiegandomi di non potersi davvero più fidare e avvertendomi di non rischiare più ad aiutare quell’uomo. «So però che non mi darà ascolto. voi preti siete tutti matti».

Nel pomeriggio l’amico uruguayano venne da noi confessando l’accaduto e chiedendo perdono. Quando gli altri lavoratori della parrocchia seppero dell’accaduto invece di scandalizzarsi hanno insistito perché noi sacerdoti potessimo offrirgli una piccola stanza con bagno nell’attesa che lui trovasse un lavoro. Pensai al rischio, alle parole del proprietario dell’officina, ma sulla mia paura prevalse lo sguardo di carità di quegli uomini.

(…)

https://www.clonline.org/it/attualita/articoli/padre-pato-hacin-san-rafael-paraguay-caritativa#:~:text=CHIESA-,Paraguay.%20Il%20mendicante%20e%20la%20casa%20ritrovata,ultime%20settimane%2C%20il%20mendicante%20sia%20diventato%20il%20vero%20protagonista%20della%20Storia.,-CHIESA