Newman. Il Dottore
dell’unità
Il 1° novembre papa Leone XIV conferisce il titolo di
"Dottore della Chiesa" al cardinale inglese canonizzato nel 2019.
Arricchì il magistero della Chiesa superando il dualismo della modernità, oltre
la contrapposizione tra ragione e fede, autorità e coscienza, legge morale e
perdono
29.10.2025
Michael Konrad
Sacerdote della Fraternità San Carlo e studioso di John
Henry Newman
Papa Leone XIV ha deciso di conferire a san John Henry
Newman il titolo di Dottore della Chiesa. Newman si aggiunge così al circolo
esclusivo dei 37 santi come sant’Agostino, san Tommaso d’Aquino o santa Teresa
di Lisieux che la Chiesa venera già come Dottori della Chiesa. Ogni santo
rispecchia un aspetto particolare della vita e dell’insegnamento di Gesù e
ciascuno di essi può insegnare ai fedeli qualcosa attraverso la sua
testimonianza di vita e di fede; a causa del valore eminente della loro
dottrina alcuni di loro ricevono però il titolo onorifico di Dottore della
Chiesa.
John Henry Newman nacque nel 1801 a Londra e venne educato
nella fede anglicana. Assunse con grande senso di responsabilità i suoi doveri
pastorali come prete anglicano e insegnò all’Università di Oxford. Con alcuni
amici fondò il Movimento di Oxford per rinnovare la Chiesa anglicana attraverso
la redazione di testi che si ispiravano all’insegnamento della Sacra Scrittura
e dei Padri della Chiesa: negli anni Trenta dell’Ottocento era considerato
l’intellettuale anglicano più importante del suo tempo.
Ma più approfondiva la dottrina anglicana, più era preso dai
dubbi e nel 1845 Newman arrivò alla certezza che solo nella Chiesa cattolica si
trova la verità piena. Si convertì, ricevette l’ordinazione sacerdotale e portò
l’Oratorio di San Filippo Neri in Inghilterra. Non si può comprendere lo
spirito di Newman senza tener conto della compagnia alla quale apparteneva: da
san Filippo egli imparò che, per un membro dell’Oratorio, il luogo della
santificazione è anzitutto la vita comune, non tanto di seguire una regola
astratta, ma di amare persone concrete, con tutti i loro difetti. Nei decenni a
seguire moltissimi cattolici inglesi fecero fatica a fidarsi di questo
convertito, finché nel 1863 egli scrisse la Apologia pro vita sua per difendere
la sincerità della conversione sua e quella dei preti cattolici in generale.
Nel 1879 papa Leone XIII lo nominò cardinale. Al suo funerale, nel 1890, il
feretro era seguito da una folla immensa, stimata sulle 20mila persone, tra cui
uno stuolo di poveri.
Molti dei grandi pensatori del Novecento, come Romano
Guardini, Erich Przywara, Edith Stein, Henri de Lubac o Yves Congar, hanno
riconosciuto l’importanza del suo pensiero. Anche don Luigi Giussani ha letto
da seminarista alcuni dei suoi testi principali. Przywara vedeva in Newman un
potenziale nuovo dottore della Chiesa in quanto capace di dare una risposta di
fede alle sfide non tanto dell’uomo antico o medievale, ma dell’uomo moderno e
contemporaneo. Secondo il gesuita polacco, il cardinal Newman è infatti
riuscito a superare la scissione tipicamente moderna tra l’ambito
dell’oggettività, esemplificato dalle scienze naturali, e quello della
soggettività, esemplificato dalla visione protestante della fede. Desidero
esemplificare questa intuizione di Przywara riguardo a tre ambiti.
Coscienza morale e autorità hanno bisogno l’una dell’altra.
Compito principale della coscienza personale è quello di riconoscere l’autorità
da seguire
Una prima scissione che Newman ha superato è quella tra
ragione e verità. Newman comincia negli ultimi Sermoni universitari, ancora da
anglicano, a combattere la convinzione razionalista che la differenza tra la
ragione e la fede stia nel fatto che la prima si basi su delle prove forti, la
seconda invece su delle prove deboli. Secondo lui la ragione consiste invece
nella facoltà di procedere dalle cose che sono percepite alle cose che non lo
sono, esattamente come fa anche la fede. La fede usa il metodo della ragione,
ed è pertanto ragionevole. Definita in tal modo, tuttavia, la ragione non può
più avere la pretesa di essere infallibile. Newman individua, perciò, delle
strade che la possono fortificare e allargare. In primo luogo, afferma che
delle affezioni adeguate rendono la ragione più sana: una persona che ama si
sbaglierà meno nell’indagine sulla persona amata. In secondo luogo, insiste
sulla necessità di avere una visione sintetica della realtà: chi percepisce il
senso dei singoli fenomeni, e i nessi che esistono tra loro, li conosce più in
profondità. «Un tipo di pensiero filosofico», scrive, «(…) implica una
concezione del vecchio connessa con quella del nuovo; un’intuizione delle
relazioni e dell’influenza di ogni parte su ogni altra; senza la quale non c’è
totalità, e non potrebbe esserci alcun centro».
In terzo luogo, Newman afferma che la conoscenza è un
fenomeno dinamico: una persona che ripete da adulto le cose come le ha imparate
da bambino, una persona cioè che non continua permanentemente a imparare da ciò
che gli accade, non è in contatto con la realtà. Nel suo scritto Lo sviluppo
della dottrina cristiana, egli applica quest’idea anche alla Chiesa stessa, che
comprende nel tempo sempre di più le verità che ha confessato da sempre. Un
ultimo fattore che fortifica la ragione, sul quale Newman insiste soprattutto
ne L’idea di università, è la comunione: la verità si riconosce nel dialogo con
gli amici.
Come si evince da quanto detto, Newman non considera la
ragione in modo astratto, ma come una facoltà incarnata, legata strettamente
alla singola persona e alla sua storia. Nonostante tale concetto di ragione sia
dunque soggettivo, il suo compito è quello di riconoscere la verità oggettiva.
Newman crede fermamente nell’esistenza del dogma, di una verità immutabile, che
però ciascuno deve tentare di comprendere come può. Sebbene si sforzi di
conoscere le affermazioni della Chiesa nel modo più esatto possibile, non le
accetta mai senza ripensarle completamente in base alla propria esperienza e ai
suoi primi princìpi personali.
Per il filosofo antico, la misura della moralità è lui
stesso. Per il santo cristiano è Cristo: nel paragone con Lui, anche la persona
più santa deve ammettere di essere molto lontana dalla perfezione
Un secondo ambito nel quale Newman supera la scissione tra
oggettività e soggettività riguarda il rapporto tra la coscienza morale
personale e l’autorità. Anche qui evita le visioni fondamentaliste e
unilaterali. Secondo lui coscienza e autorità hanno bisogno l’una dell’altra.
Da anglicano, Newman tentò di approfondire la tesi protestante secondo cui una
persona normalmente si converte meditando da sé la Scrittura. Egli scrutò
pertanto i testi sacri per vedere come gli uomini si convertivano nei racconti
biblici e rimase colpito soprattutto da un particolare episodio: l’incontro tra
l’apostolo Filippo e il ministro etiope. Quest’ultimo stava meditando il
Cantico del Servo sofferente di Isaia. Alla domanda di Filippo se capiva ciò
che leggeva, il ministro risponde: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?»
(At 8,31). Newman interpreta questa risposta affermando che il cristiano non
deve tanto cercare di capire da solo la Scrittura, ma piuttosto cercare
qualcuno che gliela possa spiegare: un maestro. Compito principale della
coscienza personale è dunque quello di riconoscere l’autorità da seguire.
Alcuni anni dopo Newman fa un passo in avanti e si chiede
quale qualità dovesse avere quest’autorità che pretende di spiegare il senso
delle Scritture e risponde: un maestro che vuole spiegare la Rivelazione deve
avere la pretesa di essere infallibile, altrimenti non vale neanche la pena di
ascoltarlo. Chi cerca la verità su Dio non cerca opinioni personali, ma la voce
della Chiesa, cioè la voce di Cristo. Arrivato a questa intuizione, Newman
chiede di essere accolto nella Chiesa cattolica, non certo per motivi di
opportunità, ma per motivi di coscienza.
Venticinque anni dopo la sua conversione, il Concilio
Vaticano I promulga il dogma dell’infallibilità papale e Newman si trova a
confrontarsi con un nuovo problema. Alcuni cattolici ultramontanisti avevano
interpretato il dogma fino a considerare il Papa infallibile in tutte le sue
affermazioni. Newman ribadisce di nuovo l’importanza dell’infallibilità, ma
senza dimenticare l’altro piatto della bilancia, cioè la coscienza morale del
singolo. Senza negare affatto che la Chiesa abbia la potestà di insegnare con
autorità sulle materie di fede e di morale, il Cardinale afferma: «Se fossi
obbligato a introdurre la religione nei brindisi dopo un pranzo (il che in
verità non mi sembra proprio la cosa migliore), brinderò, se volete, al Papa;
tuttavia, prima alla Coscienza, poi al Papa».
Per Newman coscienza morale e autorità non si escludono a
vicenda, ma si richiedono reciprocamente. Una persona che cerca sinceramente il
bene e si accorge dei propri limiti non può che desiderare di trovare
un’autorità che la possa guidare nella propria ricerca. Invece, un’autorità
come quella della Chiesa, che non ha a disposizione mezzi di costrizione
fisica, non può che far appello alla coscienza del singolo augurando che egli
possa riconoscere il vero. La Chiesa e la coscienza morale sono per Newman due
vicari di Cristo, il loro compito è quello di assistere il singolo nella sua
ricerca della volontà di Dio.
(…)
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