giovedì 13 novembre 2014

"Abbiamo un destino, ed è fatto di bellezza"

LE STORIE DEL VIDEO

«Abbiamo un destino, ed è fatto di bellezza»

di Alessandra Stoppa
12/11/2014 - È uno dei volti de "La strada bella". Siamo andati a conoscere Alessandra, in Cile da 28 anni. Che ricorda di quando don Giussani le disse: «Chiedi alla Madonna di poter servire la Chiesa con la stessa umiltà e letizia con cui stai pulendo questo bagno»
Alessandra, per tutti Iaia, ha conosciuto il cristianesimo nei suoi genitori, giorno dopo giorno, nella loro casa di Bolzano. Dalla madre, maestra elementare, ha imparato che ogni uomo ha un destino. Le bastava guardarla correggere i quaderni fino a tardi o sentire come parlava dei suoi alunni: «Aveva la certezza che ciascuno di loro era nato per qualcosa di positivo». Da suo padre ha imparato a vedere la bellezza. «Innanzitutto quella di mia madre, perché è un uomo innamorato, e poi della vita, della natura, soprattutto della montagna, e del cucinare. Così, insieme, mi hanno insegnato questi due aspetti del cristianesimo: abbiamo un destino e questo destino è fatto di bellezza».

I genitori di Iaia venivano dall’esperienza scout. «Una volta sposati, si sono resi conto che per loro non era sufficiente a sostenere la vita di una famiglia. Erano molto in ricerca». Tanto da fondare una cooperativa per andare a vivere insieme ad altre giovani coppie con bambini. «Ma sentivano che mancava ancora qualcosa». Quando hanno scoperto che un prete di Milano si incontrava con delle famiglie per un cammino di fede, sono partiti. Alessandra era alle elementari. Una volta al mese, caricavano tutta la prole in macchina alle cinque del mattino, anche con la neve, e andavano a Milano: «Ci si radunava in un salone. Noi piccoli con in mano un lecca lecca o un panino e i grandi seduti ad ascoltare. Don Giussani mi sembrava brutto, avevo paura di lui! Poi mi spaventava la sua voce. Allora tenevo gli occhi bassi... Ma mi ricordo che, ogni tanto, sbirciavo i miei genitori e avevano le facce così contente. Si scambiavano occhiate bellissime, mentre ascoltavano. Neanche nel giorno del loro anniversario si guardavano così».

Iaia è praticamente nata dentro il movimento. Ma solo al liceo lo ha scelto per sé. La sua era una scuola statale, “rossissima”, molto politicizzata. «Avevo tanti amici di sinistra e li adoravo: con loro c’era un’amicizia affascinante, umanamente splendida. Ma proprio guardandoli capivo che quella che avevo incontrato con CL era la risposta anche alla loro sete, così drammaticamente espressa e vissuta nella politica e nello studio».

Quello che racconta nel video per i 60 anni è un fatto accaduto, anni dopo, mentre studiava Lettere in Università Cattolica a Milano. Andava a fare caritativa nella sede del movimento. Un giorno è lì, a pulire i bagni, «con la mano dentro il water», e da dietro sente la voce di don Giussani: «Bambina, chiedi alla Madonna di poter servire la Chiesa con la stessa umiltà e letizia con cui lo stai facendo ora». Impietrita, non alza nemmeno la testa. Ma prega. In ginocchio, davanti al water. «Ho detto un’Ave Maria: “Fa’ che diventi vero quello che ha detto”».

Dopo più di trent’anni, racconta come quella domanda è stata esaudita. «Le parole di don Giussani sono state definitive. Hanno aperto un orizzonte e hanno semplificato il modo di guardare a tutto il mio futuro». Che si è svelato a poco a poco, in modo semplice: «Sono successe le cose e ho detto sì». Anche quando andavano in un’altra direzione da quella pensata.

Aveva scelto una tesi di laurea molto impegnativa, in Filologia dantesca, perché il suo desiderio era rimanere in Università. Ma nel frattempo, le era stato chiesto di lavorare alla Segreteria internazionale di CL, e in questo impegno aveva conosciuto il suo fidanzato, Bolivar, cileno. «Non solo. Nell’84, all’anniversario del movimento, Giovanni Paolo II ci fa il famoso invito: “Svuotate lo stivale”. Io e Bolivar ci guardiamo». In quel momento hanno deciso che sarebbero andati in Cile, che voleva dire la dittatura militare di Pinochet e un’economia indietro di cinquant’anni. L’anno dopo, sarebbe arrivato anche un terremoto violentissimo a cambiare la geografia del Paese, lasciandolo in rovina.

In quello stesso periodo, un pomeriggio, prendendo il tè a casa di una signora cilena, tra la posta trovano una lettera in cui si parla di una scuola italiana in Cile. «Bolivar aveva studiato Filosofia e la fame era garantita. Ma dopo la laurea, ci siamo sposati e siamo partiti. L’idea era di stare tre anni. Ne sono passati 28 e non siamo più tornati». Con tutta la sofferenza dei suoi genitori. «Erano molto preoccupati. Ma si sono fidati di don Giussani e mi hanno lasciata andare». In mezzo, avevano vissuto un anno di lontananza. Bolivar era tornato in Cile, mentre Iaia finiva gli studi in Italia. «È stato Giussani a proporci questo metodo. Noi non capivamo, ma quel distacco è stata la verifica più bella, pacifica e certa del nostro rapporto».

Arrivata in Cile, Iaia si è rinnamorata di tutto un’altra volta, davanti allo spettacolo semplice dell’inizio del movimento. «L’ho visto sorgere nella sua essenzialità». Alle cene tra amici a casa loro. «Qui il carisma è sempre vissuto intorno ad un tavolo», ride: «Oggi le cene di Natale sono di trecento e passa persone...». All’inizio, erano in pochi, il tavolo non c’era nemmeno, mangiavano seduti su un materasso per terra, tutti a darsi le spalle, con i cassetti dell’armadio rovesciati a fare da tavolino. Iaia bravissima a cucinare e Bolivar a invitare amici. I primi erano quelli che avevano condiviso con lui l’impegno politico: già a 23 anni era stato dirigente della Democrazia cristiana giovanile cilena.

I genitori di Iaia hanno amato tutta la lontananza solo quando hanno visto quello che c’era qui: «Anche loro hanno toccato, un’altra volta, l’inizio». Sono venuti quando è nato il terzo nipotino (oggi lei e Bolivar hanno cinque figli): «Da quel momento, mio padre e mia madre hanno accettato la distanza come una ricchezza per loro». E tu? «Io in 28 anni non ho mai avuto un momento di nostalgia. Mi manca la liquirizia, la mozzarella! Ma non ho mai avuto il vuoto, grazie allo spettacolo che vedo qui ogni giorno». Anche dentro i problemi e le virate della realtà.

Era arrivata per insegnare alle superiori, invece al primo colloquio le dicono che ha lo sguardo materno e la mettono alle elementari, facendo anche da tutor e quindi punto di riferimento nel rapporto con i genitori. Voleva dedicarsi alla letteratura e si è trovata ad insegnare storia e geografia. Oggi ha ancora qualche ora in classe, ma soprattutto ha la responsabilità di tutto il servizio tecnico-pedagogico della scuola Vittorio Montiglio, che comprende dal nido al liceo scientifico: 1.200 alunni.

È un istituto italiano, fondato da migranti. «Nel 2005 siamo diventati scuola paritaria. Alla fine dell’anno, avremmo avuto gli esami conclusivi del primo ciclo d’istruzione. Non sapevamo da che parte cominciare. Da questa provocazione è nata un’avventura nuova insieme ai miei colleghi cileni: in quei mesi siamo diventati più amici perché dentro il lavoro, grazie al lavoro, l’orizzonte del nostro essere docenti si allargava. Ci siamo rimessi in gioco con tante domande sul significato di ogni cosa che facevamo: cosa vuol dire educare l’umano attraverso le discipline? Che valore ha la ragione in questo processo? O anche: siamo una scuola cara, perché le famiglie dovrebbero iscrivere qui i figli? Quello è stato un punto di non ritorno: la scuola è diventata un luogo di crescita umana e professionale per molti di noi. E gli effetti, nell’ambito accademico, si sono resi evidenti. I nostri alunni vengono riconosciuti all’Università, hanno il “marchio” della scuola», dice orgogliosa.

Per lei è vedere esaudita la promessa che c’era nel suo desiderio di sempre, quello di prendersi cura della vita: «Da piccola volevo fare l’ostetrica, perché mi affascinava la nascita. Poi ho intuito che l’insegnamento sarebbe stato ancora più bello, perché è far crescere quella vita. Il Signore mi ha regalato di essere madre in abbondanza e di fare questo mestiere». Ma ripete: «Per godere di tutto l’orizzonte che mi aveva aperto don Giussani, è stato sufficiente obbedire». La vita in Cile l’ha aiutata: «Qui è tutto più essenziale. Sarà la durezza della realtà che ti semplifica, ma il punto è che i problemi sono quelli veri, non quelli che percepivo io essere problemi...».

Qui in Cile i terremoti sono sempre molto potenti, con tutte le conseguenze e tutto il bisogno che ne sorge. «Allora non è che stai lì a questionare: sì, no... È la realtà. Ecco, è lo stesso quando lavi i patti, rifai i letti, lavori nove ore al giorno e hai cinque figli». O quando sei lontana da casa, in un mondo così diverso, e perdi due bambini in grembo. «È obbedire alla realtà, come si presenta, come avviene, senza progetti. Mi trovo a dire: “Vieni, Gesù. Vieni dentro a questo”. È ciò che ha spalancato ogni momento di difficoltà o di rinuncia. E ha cementato il mio essere donna, il mio atteggiamento umano. Un’umanità piantata dentro di me».

Vivere lontana l’ha preparata anche alla morte di don Giussani. «La distanza ti insegna che tutto quello che lui ha detto, ha scritto, ha fatto... il suo abbraccio continua nell’esperienza del movimento. Quando si è ammalato e la sera pregavo il Rosario per lui, dicevo: “Fa’ che la sua paternità possa continuare per tutti”. E oggi vedi, nella guida che ci viene data, che sei guardata da altri occhi, abbracciata da altre braccia, ma è la stessa cosa. Potrebbe anche non essere così, invece è così ed è un miracolo».