mercoledì 19 novembre 2014

Il PCI e l'OVRA: la sporca alleanza

Il Pci e l’Ovra: la sporca alleanza
Roberto Festorazzi


Il gruppo dirigente del Partito comunista, a cominciare dalla fine degli anni Venti del Novecento, organizzò una vera e propria «macchina del terrore» per eliminare la propria minoranza interna, ricorrendo anche al braccio armato dell’Ovra, il tentacolare apparato repressivo e poliziesco del regime di Mussolini.

Una pagina della storia del partito rimasta finora inesplorata e che non si può definire collusione, per il solo fatto che non vi fu alcun patto formalizzato, ma solo una collaborazione di «intelligence» tra le due entità: la polizia fascista da un lato, il Pci dall’altro. In quegli anni dire «gruppo dirigente» del Pci significa alludere direttamente a Palmiro Togliatti, perché, dopo la cosiddetta «svolta» del 1930, il partito fondato a Livorno nel 1921 aderì in toto alla linea staliniana, tanto da divenire – nelle tesi ideologiche, nel corpus e nella prassi – una forza politica bolscevizzata e saldamente guidata dal compagno "Ercoli", fedelissimo e implacabile interprete delle direttive di Mosca.

Fu dunque «Il Migliore» ad adottare la strategia della collaborazione invisibile con l’Ovra, allo scopo di sradicare la corrente dissidente dei seguaci dell’ingegnere napoletano Amadeo Bordiga, il primo segretario del Pci, affrettatamente sfrattato dalla galleria dei padri nobili del partito. Il carismatico Bordiga, classe 1889, uomo di raffinata cultura e adamantina coerenza intellettuale, resisteva infatti alla stalinizzazione del Pci, tanto da incarnare posizioni di coraggiosa e lucida minoranza dentro lo stesso Comintern, ed esercitava un grande ascendente sulla base degli iscritti: perciò doveva essere «eliminato», e con lui cancellato tutto quanto il sostegno attivo di cui godeva dentro il partito.

Anche la neutralizzazione di Antonio Gramsci, in carcere dal novembre 1926, rientrava nella logica di una completa espunzione di tutte le posizioni che non fossero di totale e acritica sottomissione allo stalinismo. Diversamente non si comprenderebbe per quale ragione i capi del Pci intervenissero come suggeritori occulti dei carnefici di Gramsci, non per alleggerire la posizione processuale del loro leader, ma per aggravarla. In questa prospettiva, assumono una valenza ben diversa le collaborazioni eccellenti tra esponenti di rilievo del gruppo dirigente del partito rosso e la macchina repressiva del regime. Casi alquanto dibattuti come quello di Ignazio Silone, lungi dal rappresentare semplici cedimenti individuali, debbono pertanto essere ricollocati nel quadro di una vera e propria strategia di cooperazione sotterranea e supersegreta Pci-Ovra.

Pietro Tresso, co-fondatore del Partito comunista italiano e cognato di Silone, fu negli anni Venti il capo del controspionaggio del Pci. In intimi rapporti di prossimità politica dapprima con Amadeo Bordiga e poi con Gramsci, venne eliminato principalmente perché conosceva tutti gli arcana<+TONDOAGORA> della collaborazione tra il partito e l’Ovra: finì infatti assassinato in Francia, nell’ottobre 1943, ad opera di sicari agli ordini di Mosca.

Per comprendere la sostanza di quanto stiamo ricostruendo, occorre rifarsi al clima che vigeva dentro la comunità comunista. Dopo l’arresto di Gramsci e l’avvento di Togliatti alla guida del Pci, la musica cambiò all’interno dell’organo italiano dell’Internazionale rossa: i rapporti personali non furono più improntati a uno stile di fraternità, dilagò il sospetto, le minoranze interne vennero accusate di frazionismo, i seguaci nazionali di Trotskj bollati come «socialtraditori» e i socialdemocratici come «socialfascisti». Risultato: violente epurazioni amputarono il Pci delle sue articolazioni più significative, com’è il caso delle espulsioni non solo di leader come Bordiga e Bombacci, ma anche di dirigenti di primo piano quali Tasca, Silone, Tresso, Ravazzoli, Leonetti, Teresa Recchia, Bavassano, Fortichiari, Repossi, Damen e parecchi altri.
Tresso nel 1930 venne cacciato dal partito, insieme a Ravazzoli e Leonetti, perché opinava che i tempi non fossero maturi per costituire in Italia un Centro interno clandestino del partito, incaricato di soffiare sulla brace della rivoluzione proletaria. Infatti, gli italiani non sembravano affatto sul punto di mollare Mussolini e soprattutto, argomentavano i tre dissidenti, inviare nella Penisola il fior fiore del gruppo dirigente avrebbe significato compiere atto di autodafé: ossia, consegnare i migliori papaveri rossi agli sbirri fascisti. Tresso e soci, forse, non sospettavano che Togliatti mirasse proprio a quello scopo: mandare in Italia i dirigenti non in linea con il «nuovo corso» stalinista da lui impresso al partito, in modo da farli finire nelle fauci dei repressori del regime...
Che questa tesi non sia peregrina lo dimostrano vari indizi inquietanti. Tra questi, la lista di 500 nominativi di «spie» del partito e di elementi politicamente sospetti, che il Pci compilò e diffuse per colpire la propria dissidenza interna. Se si considera la circostanza che, agli inizi degli anni Trenta, il Pci avesse non più di tremila iscritti, balza all’occhio come l’elenco dei 500 stabilisse che uno su sei era un «giuda». La lista, se nel Pci clandestino mise in moto una spirale violenta di caccia all’untore, fornì d’altra parte allo Stato fascista un’arma letale per assicurare alle patrie galere una larga fetta di comunisti, indicati per nome e cognome. Ecco perché non è errato parlare di una colossale collaborazione resa dal Pci al governo mussoliniano.
Lo storico Mauro Canali ha avuto il merito di aprire un varco in queste vicende, con il suo volume <+CORSIVOAGORA>Le spie del regime<+TONDOAGORA>, pubblicato dal Mulino nel 2004. Alla scoperta della lista dei 500 nomi, che Canali ha ritrovato all’Archivio Centrale dello Stato, non è però finora seguito alcuno studio approfondito che consenta di formulare un’interpretazione univoca e storicamente fondata del fenomeno che noi analizzeremo sulla base di nuovi documenti.
Canali riconosce in ogni caso che la lista dei 500 rappresentò «di fatto, per la gran parte dei casi, una delazione di massa del Pci ai danni di antifascisti comunisti che avevano il torto di essersi allontanati dal partito. Quella lista era stata compilata a Parigi dal Centro estero del Pci, al momento dell’offensiva più forte dell’Ovra, quando il partito cercava di costituire un Centro interno. L’elenco dei 500 nomi non comprendeva soltanto i militanti che si erano allontanati dalla lotta politica e che erano ignoti alla polizia: nominativi che, da quel momento, entrarono nel mirino della repressione. C’erano anche i compagni che, in carcere, avevano chiesto la grazia e per ciò stesso erano caduti sotto una luce sospetta. Ho potuto anche verificare che le spie accertate superassero di poco il 10% circa del totale dei nomi inclusi nella lista».
<+CORSIVOAGORA>(1. continua)
<+RIPRODUZ_RIS><+TONDOAGORA>
© riproduzione riservata